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 Massime della sentenza

 

 

CORTE DEI CONTI, Sez. Giur. Lombardia - 13 Aprile 2006 (c.c. 11.04.2006), n. 248

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA REGIONE LOMBARDIA

 


composta dai magistrati:
Dr. Giuseppe NICOLETTI Presidente
Dr. Vito TENORE Componente
Dr. Massimiliano ATELLI Componente rel.


ha pronunciato nella camera di consiglio dell’ 11.4.2006 la seguente


SENTENZA


nel giudizio iscritto al n. 23408 del registro di segreteria su istanza della Procura regionale, contro Emilio STOLFO, residente in Arluno (MI), via Marconi n. 101.


Letti gli atti introduttivi e gli altri documenti di causa.


Uditi, nella pubblica udienza del 11.4.2006, il relatore Dr. Atelli e il Pubblico ministero in persona del Sostituto procuratore generale Dr. Chirieleison.


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO


Con atto di citazione depositato in data 29.11.2005, la Procura attrice conveniva innanzi a questa Sezione il Ten. STOLFO Emilio, militare della Guardia di Finanza in servizio presso il nucleo centrale di Polizia Tributaria di Milano, deducendo quanto segue: a) che, sulla scorta di indagini dell'amministrazione finanziaria e della Procura della Repubblica di Milano, era emerso che il convenuto, unitamente al Mm Alfredo Balestra, nel corso della verifica fiscale operata nei confronti della "MUSTAD PESCA ITALIA s.r.l.", in Milano, nel 1991, aveva percepito la somma complessiva di euro 25.822,84, in qualità di Pubblico Ufficiale nell'esercizio delle proprie funzioni, al fine di compiere atti contrari ai doveri d'ufficio; b) che per i fatti descritti, in sede penale, il Tribunale di Milano ha emesso sentenze di condanna (n. 579 del 17.12.1997 e n. 1317 del 18.7.1997) nei confronti del Balestra e (n. 1600 del 29.10.1998 e altra in data 17.7.2000) nei confronti dello Stolfo, mentre il Tribunale penale militare di Torino, ha parimenti emesso sentenze di condanna nei confronti del primo (in data 25.3.1996) e del secondo (in data 30.6.2003); c) che la condotta del convenuto aveva arrecato un ingente danno erariale, quantificabile in via equitativa in complessivi euro 20.658,27, a titolo di danno all'immagine ed al prestigio dell'Amministrazione finanziaria; d) che le giustificazioni fornite dal convenuto in riscontro al notificato invito a dedurre non avevano escluso l'ipotizzato danno erariale.


Va aggiunto che la Guardia di Finanza, a seguito dell’esercizio dell’azione penale, ha notificato anche all’odierno convenuto atto di costituzione in mora per i danni connessi alla vicenda di cui trattasi e, anche nei confronti del medesimo, ha emesso provvedimenti di fermo amministrativo ovvero di ritenute cautelari sugli emolumenti stipendiali e pensionistici.


In data 20.3.2006 veniva depositata - con consegna brevi manu - memoria difensiva che, tuttavia, risulta non sottoscritta.


Tutto ciò premesso, l'attrice Procura Regionale chiedeva la condanna del convenuto al pagamento della somma di euro 20.658,27, oltre rivalutazione, interessi legali e spese di giudizio, quale risarcimento del danno all’immagine arrecato alla p.a.


All’udienza del 11.4.2006 il rappresentante della Procura insisteva per la condanna del convenuto, aggiungendo, agli effetti dell’eventuale definitiva quantificazione del danno, che in ordine alla posizione del BALESTRA, con riferimento al quale la Procura attrice - dando atto in citazione dell’esistenza di un’offerta di risarcimento tendente ad una definizione in via stragiudiziale, per quanto lo riguarda, della vicenda processuale per cui è causa - aveva prededotto dall’ammontare del danno addebitato nella medesima citazione all’odierno convenuto la quota parte (lire 10.000.000), il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha comunicato che con nota in data 29.11.2005 il Balestra ha dato il proprio assenso all’incameramento definitivo delle somme trattenutegli a titolo di fermo amministrativo per complessivi euro 10.845,67.


Al termine dell’udienza, la causa veniva trattenuta in decisione.


MOTIVI DELLA DECISIONE


1. In via preliminare osserva questo Giudice quanto segue in ordine alla prescrizione dell’azione erariale, ancorché a ciò non obbligato da idonea eccezione del convenuto, giacché la memoria difensiva in atti - nella quale si è sollevata la relativa eccezione - risulta priva di qualsivoglia sottoscrizione, sicché non può tenersene conto.


In particolare, ritiene questo Giudice che non sia possibile escludere l’efficacia interruttiva della prescrizione degli atti stragiudiziali posti in essere - come nella specie - dall’amministrazione titolare del credito da risarcimento derivante da un illecito amministrativo, adoperando l’argomento che essi configurerebbero un inammissibile esercizio per delega, da parte di detta amministrazione, di un potere riservato in via esclusiva alla Procura presso la Corte dei conti.


Simili argomenti sono radicalmente destituiti di fondamento giacché si risolvono nella negazione del fenomeno di scissione in base al quale, una volta verificatosi un danno erariale, se l’amministrazione è titolare del diritto sostanziale di credito (indisponibile, in ragione della necessaria integrità della finanza pubblica), non lo è invece delle relative facoltà processuali (essenzialmente, il diritto di azione, esperibile anche ai fini della conservazione della garanzia patrimoniale), il cui esercizio è rimesso dalla legge ad un organo pubblico appositamente costituito, la Procura presso la Corte dei conti.
Data questa scissione, il compimento di atti stragiudiziali da parte dell’amministrazione titolare del credito da risarcimento derivante da un illecito amministrativo si colloca per sua natura al di fuori dell’ambito delle facoltà processuali il cui esercizio è rimesso dalla legge ad un organo pubblico appositamente costituito, vale a dire la Procura presso la Corte dei conti. Ciò perché trattasi, evidentemente, di atti espressione del diritto sostanziale di credito piuttosto che di quello processuale di azione teso a garantire l’effettività del primo.


La diversa intestazione del diritto sostanziale e di quello processuale, nella materia de qua, rende dunque non soltanto perfettamente legittimo ma anzi doveroso - e, per quanto qui interessa, foriero di sicuro effetto interruttivo - il compimento di atti stragiudiziali da parte dell’amministrazione titolare del credito da risarcimento derivante da un illecito amministrativo. Va infatti qui ribadito come possa essere senza dubbio fonte di responsabilità per danno erariale il mancato compimento di simili atti che, senza recare particolare aggravio in via immediata alla posizione del presunto responsabile del danno subito dall’amministrazione, sono idonei ad assicurare in via cautelativa la permanenza nel tempo del diritto di credito che il giudice contabile dovesse ritenere sussistente all’esito del relativo giudizio.


Del resto, le SS.RR. di questa Corte hanno chiarito che ai fini della validità ed efficacia dell'atto di costituzione in mora, per il conseguimento dell'efficacia interruttiva della prescrizione, è necessario e sufficiente, come nel caso in esame, che l'atto contenga la inequivoca manifestazione di volontà dell’amministrazione creditrice di ottenere l'adempimento del credito vantato (Corte dei conti, SS.RR., sent. 14 novembre 1996 n.71/A; id., 10 marzo 1995 n. 10/A; id., 26 novembre 1993 n.921/A).


Quanto al fermo amministrativo, e in specie alla sua valenza di atto interruttivo della prescrizione, questo Giudice ritiene che si tratti di uno strumento non soltanto idoneo allo scopo, ma anche in grado di spiegare un effetto interruttivo di carattere permanente.


Questa conclusione e le considerazioni che seguono riguardano il fermo amministrativo in materia di contabilità dello Stato previsto dall’art. 69 r.d. 2440/1923, da tenere ben distinto dall’omonimo provvedimento disciplinato dal d.p.r. 602/1973, il quale è considerato dalle SS.UU. della Corte di Cassazione (sent. n. 2053 del 31.1.2006) <<atto funzionale all’espropriazione forzata e, quindi, mezzo di realizzazione del credito>>, e che secondo il Consiglio di Stato (sez. V., sent. 13.9.2005, n. 4689) non è espressione di un potere dell’amministrazione autoritativo e discrezionale in vista degli interessi pubblici specifici affidati alla sua cura, trattandosi piuttosto di <<una potestà che si colloca (concettualmente) nel quadro dei diritti potestativi del creditore (ossia quella di promuovere atti conservativi sul patrimonio del debitore in vista della esecuzione forzata) che trovano nel diritto comune la naturale collocazione e nel giudice ordinario quello naturale, in quanto la soggezione del debitore all'esercizio della potestà ha la sua fonte nel debito … che vincola il debitore alla sua estinzione (con i mezzi ordinari o con l'esecuzione forzata), e nel rapporto obbligatorio la sua intrinseca giustificazione>>.


Di qui la conseguenza, per il Consiglio di Stato, che il fermo amministrativo di cui al d.p.r. 602/1973 è atto funzionale alla esecuzione, che - pure con le connotazioni particolari derivanti dalla natura del rapporto obbligatorio in forza del quale il debitore è tenuto al pagamento e della legislazione speciale che lo prevede, accordando poteri extra ordinem al creditore ed allo stesso incaricato della riscossione - deve comunque essere inquadrato fra gli strumenti di conservazione dei cespiti patrimoniali sui quali può essere soddisfatto coattivamente il credito, che l'ordinamento ordinariamente appresta alla generalità dei creditori.


Diversamente dal fermo amministrativo di cui al d.p.r. 602/1973, quello previsto dall’art. 69 del r.d. 2440/1923 comporta, come noto, che "qualora un'amministrazione dello Stato che abbia, a qualsiasi titolo, ragione di credito verso aventi diritto a somme dovute da altre amministrazioni, richieda la sospensione del pagamento, questa deve essere eseguita in attesa del provvedimento definitivo".


Per Cons. Stato, sez. VI, sent. n. 1441 del 2004, il disposto dell'art. 69 attribuisce il potere di richiedere il fermo amministrativo da parte dell'amministrazione dello Stato sulla base del presupposto oggettivo consistente nel fatto di vantare nei confronti del privato una ragione di credito. Secondo la pronuncia da ultima citata, la norma fonda la legittimità del provvedimento, di indubbia natura cautelare (in tal senso, anche Corte dei conti, sez. I centr. app., sentenza n. 19/A del 21.1.2004), sull'esistenza del c.d. fumus boni iuris, ossia sulla ragionevole apparenza di fondatezza della pretesa.


Ragione di credito sufficiente a fondare la legittimità del provvedimento è la ragionevole fondatezza della pretesa. Questa situazione richiede l'esistenza di una prova dimostrativa certa, che determini nell'amministrazione non la certezza nella fondatezza della pretesa (ché altrimenti verrebbe meno la natura cautelare del provvedimento), ma la convinzione che esiste un motivo sicuro del suo diritto, che giustifica e legittima la soggezione del debitore all'adempimento (Cons. Stato, sez. VI, sent. 26.6.2003, n. 3850).


In tal senso è la giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons. Stato, sez. IV, 27.2.1998, n. 350, secondo cui ai sensi dell'art. 69, r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, il fermo amministrativo è provvedimento di autotutela cautelare, che, proprio per la sua natura, cautelare e intrinsecamente provvisoria, può essere adottato non solo quando il diritto di credito a cautela del quale è disposto sia già definitivamente accertato, ma anche quando il credito sia contestato, ma sia ragionevole ritenerne l'esistenza, posto che suo presupposto normativo è la mera «ragione di credito», e non la provata esistenza del credito stesso. In modo ancor più netto Cons. Stato, sez. IV, 14.1.1999, n. 23 ha ritenuto che il fermo amministrativo ha natura cautelare che non esige il definitivo accertamento del credito, ma solo la non manifesta infondatezza della pretesa recuperatoria dell'amministrazione).


Il provvedimento è di competenza delle singole amministrazioni creditrici e la forma è quella della lettera circolare diretta alle amministrazioni che si presumono debitrici di somme, cioè di obbligazioni di carattere solamente pecuniario nei confronti dello stesso privato.


L'istituto è temporaneo per sua natura perché spiega i suoi effetti solo fino a quando non intervenga un provvedimento definitivo che disponga la revoca del fermo, per i seguenti motivi:


1) per adempimento da parte del privato,
2) per successivo accertamento dell'insussistenza del credito dello Stato,
3) per incameramento delle somme dovute dallo Stato al privato a soddisfazione del controcredito dello Stato azionato con il fermo.


In quest'ultima ipotesi si verifica quella compensazione o conguaglio (poiché la compensazione come conosciuta dall'art. 1241 è istituto sconosciuto alla materia contabile in forza del contrario principio c.d. di integrità operativa di cui all'art. 226 del reg. per l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato r.d. 23 maggio 1924 n. 827 , per cui "tutte le entrate , a qualsiasi titolo introitate debbono essere versate nelle casse dello Stato") di cui il fermo costituisce anticipazione, come eccezionale, derogatoria ipotesi di esercizio di potestà di autotutela, in forza del quale l'amministrazione si pone in una posizione di assoluta preminenza in rapporti di natura privata, non attinenti a funzioni né finalità pubbliche (sulla legittimità costituzionale del fermo, in ogni caso, v. Corte Cost. 19.4.1972 n. 67).


La funzione del fermo (di agevolazione della compensazione o di forme di conguaglio contabile mediante emissione contemporanea di mandato di pagamento e riversale di introito) è colta dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato in sede consultiva, la quale ha sostenuto che il c.d. fermo amministrativo è un provvedimento di autotutela cautelare avente struttura di un atto impeditivo del pagamento, preordinato al fine di consentire ed agevolare la compensazione nell'adempimento da parte dello Stato delle sue obbligazioni pecuniarie (Cons. Stato, commiss. spec., 20.1.1997, n. 1420).


In via generale, il fermo amministrativo, in quanto misura cautelare offerta all'amministrazione pubblica allo scopo di consentirle in maniera rapida ed efficace di conservare le garanzie del debitore in ordine a crediti non ancora esigibili e per i quali non sia possibile agire con le ordinarie procedure di autotutela, ha un ambito di applicazione che non può essere circoscritto alle sole situazioni in cui, pur essendo già stato accertato il credito, non ne sia possibile attualmente l'erogazione (come è il caso dei crediti sottoposti a condizione o a termine ovvero non ancora quantificabili), ma deve ritenersi esteso a tutte le ipotesi in cui la stessa sussistenza del credito sia oggetto di contestazione, purché appaia ragionevole prevederne l'effettivo venire in essere o se ne prospetti non agevole la realizzazione (T.a.r. Lazio, III, 14.3.1990, n. 410).


Di qui la conclusione, per la citata decisione n. 1441 del 2004, che il limite evidenziabile nel controllo di legittimità sul provvedimento di fermo è quindi inerente l'arbitrarietà o la pretestuosità della pretesa dell'amministrazione, che non può essere esclusa per il fatto che semplicemente pendono giudizi in altra sede, civile, penale o tributaria, aventi ad oggetto il credito dell'amministrazione (arg. da C. Stato, IV, 3 aprile 1985, n. 123, per cui in sede di controversia circa la legittimità del provvedimento del fermo amministrativo, l'eventuale temerarietà ed arbitrarietà della pretesa creditoria non può essere esclusa per il semplice fatto che l'amministrazione abbia coltivato e continui a coltivare davanti al giudice competente i giudizi relativi a tale pretesa), e che il controllo del giudice amministrativo sul provvedimento di fermo deve essere fatto alla luce della verifica del criterio di complessiva proporzionalità del provvedimento.


Da quanto precede risulta allora del tutto chiaro che il fermo amministrativo di cui all’art. 69 del r.d. 2440/1923 è un provvedimento di autotutela cautelare avente struttura di atto impeditivo del pagamento altrimenti dovuto.


Una volta disposto il fermo amministrativo, ai sensi del citato art. 69, questo continua a spiegare effetto (impedendo il pagamento altrimenti dovuto) sino a quando non intervenga un provvedimento definitivo che ne disponga la revoca, il che può avvenire, secondo il Consiglio di Stato (sent. n. 1441, richiamata), per i seguenti motivi:


1) per adempimento da parte del privato,
2) per successivo accertamento dell'insussistenza del credito dello Stato,
3) per incameramento delle somme dovute dallo Stato al privato a soddisfazione del controcredito dello Stato azionato con il fermo.


Ne consegue, evidentemente, che in mancanza di uno di questi tre accadimenti permane in vita l’effetto di impedimento del pagamento altrimenti dovuto a chi risulti debitore nei confronti dell’amministrazione da cui promani il provvedimento di fermo, il che - se è perfettamente coerente con la natura di provvedimento di autotutela del fermo di cui all’art. 69 del r.d. 2440/1923 - esclude, per definizione, che al fermo medesimo si possa ricollegare, per quanto in questa sede interessa, un effetto interruttivo della prescrizione puramente istantaneo. Al contrario, l’emanazione del relativo provvedimento produce un effetto interruttivo di carattere permanente, sino all’emanazione di quel(l’ulteriore) provvedimento <<definitivo>> di cui è parola nel citato art. 69 del r.d. n. 2440.


In conclusione, nella vicenda per cui è causa l’azione erariale non risulta prescritta, giacché, pur trattandosi di fatti risalenti al 1991 (rif. verbale del Nucleo regionale di P.T. della GdF di Milano, datato 22.10.1991), è intervenuto nel marzo 1996 il primo atto di costituzione in mora ad opera del Ministero delle Finanze, rinnovato in data 4.12.2001, dopo che però, in data 26.7.1996, con nota prot. n. 235595/P, il medesimo Ministero aveva disposto il fermo amministrativo anche nei confronti dell’odierno convenuto, ribadito con determinazione limitativa del 30.4.1999.


Sicché, quand’anche l’odierno convenuto non fosse stato condannato (e, prima ancora, rinviato a giudizio) in sede penale, la descritta combinazione, secondo la sequenza che segue, fra costituzione in mora (ad effetto interruttivo non permanente) e fermo amministrativo (ad effetto interruttivo invece permanente) operati dall’amministrazione creditrice sarebbe stata comunque di per sé sufficiente ad escludere la prescrizione dell’azione erariale.


Si consideri, inoltre, che, nella specie, tanto gli atti di costituzione in mora quanto il provvedimento di fermo amministrativo hanno fatto espresso riferimento, nelle premesse, all’attivazione della Procura presso la Corte dei conti, ai fini del promovimento del relativo giudizio di danno, di tal che risulta evidente l’intrinseca correlazione di siffatti atti all’esito (rectius, al credito eventualmente accertato all’esito) del giudizio contabile, e non invece ad altri giudizi. Si aggiunga che questa circostanza risulta chiaramente confermata dal rinnovo della costituzione in mora operato in data 4.12.2001 e dalla determinazione limitativa del 30.4.1999 con la quale è stato ribadito il fermo amministrativo, giacché in base alla rispettiva datazione è del tutto evidente che l’amministrazione finanziaria vi ha proceduto benché (e quindi, in un certo senso, <<nonostante>> che) il Tribunale di Milano avesse - prima del 1999 - già condannato in almeno una occasione lo Stolfo anche a risarcire i danni al Ministero delle Finanze costituitosi parte civile.


Ne consegue, evidentemente, che non soltanto la condanna in favore della parte civile di cui è stata (impropriamente) ammessa la costituzione nel processo penale non ha in alcun modo demotivato l’amministrazione finanziaria rispetto alla coltivazione delle iniziative cautelari necessarie ad assicurare la possibilità di far accertare dal giudice contabile e di riscuotere il credito derivante dal subìto danno erariale, ma anche, con particolare riferimento al fermo amministrativo, che questo manifesta una tale capacità interruttiva della prescrizione da renderne persino inutile l’eventuale convivenza in contemporanea con la costituzione in mora, laddove questa venga effettuata dopo che il fermo è stato già disposto, oppure (come nella specie) venga rinnovata dopo che il fermo è stato già disposto.


2. Nel merito, la domanda attrice è fondata.


In proposito, può pacificamente affermarsi che i fatti di causa, nella loro materiale sussistenza, salva ogni diversa valutazione giuridica da parte di questa sezione giurisdizionale della Corte dei conti, siano quelli accertati dalle citate sentenze del giudice penale, quanto meno quelle pronunciate all’esito di un giudizio di rito ordinario ovvero abbreviato; in particolare, i detti fatti risultano accertati nel senso anzidetto, nella sentenze di condanna sopra richiamate, emesse nei confronti dell’odierno convenuto dal giudice penale.


Ovviamente, l’efficacia di tali pronunce è limitata agli elementi indicati al primo comma dell’art. 651 c.p.p. (accertamento della sussistenza del fatto; della sua illiceità penale; della sua commissione da parte dell’imputato), dovendosi, invece, questa Corte farsi integralmente carico dell’accertamento della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della responsabilità contabile (danno erariale, nesso causale, colpa grave), conseguenti ai fatti accertati in sede penale.


In tal senso depone il chiaro disposto dei commi 1 e 2 dell’art. 651 c.p.p. La prima norma statuisce l’efficacia delle sentenze penali di condanna, nei giudizi civili ed amministrativi “di danno”, con particolare riferimento a quelli aventi ad oggetto “le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato e del responsabile civile”. È innegabile che il presente giudizio rientri nel novero di quelli amministrativi di danno di cui parla la citata norma. Parimenti innegabile, in quanto espressamente chiarito dal comma 2, è il riconoscimento della medesima efficacia (con riferimento alla tipologia sia dei fatti accertati, sia dei giudizi in cui tale efficacia si dispiega) in capo alla sentenza irrevocabile di condanna pronunciata a seguito di giudizio abbreviato.


Conseguentemente, deve ritenersi provato che il convenuto (il quale, del resto, risulta aver confessato in sede penale) abbia commesso i fatti integranti il reato di corruzione, così come accertati nelle citate sentenze penali e posti a fondamento dell’azione di responsabilità proposta dalla Procura regionale.


3. In ordine agli altri elementi costitutivi della responsabilità amministrativa del convenuto, è indubbia la sussistenza del relativo elemento soggettivo, sub specie di dolo, atteso che il reato dal medesimo commesso è di natura dolosa.


Per quanto attiene, poi, alla sussistenza dell’eventum damni (limitato, nella specie, al solo danno arrecato all’immagine dell’amministrazione dalla condotta illecita imputata all’odierno convenuto) e del nesso causale tra il medesimo e la condotta del convenuto, si osserva quanto segue.


E’ noto che il danno all’immagine della pubblica amministrazione costituisce una categoria di danno patrimoniale non reddituale (distinto dal danno morale ex art.2059 c.c.), qualificabile quale danno-evento e non danno-conseguenza, originato dalla violazione congiunta dell’art.2043 c.c. e di un’altra specifica norma posta a tutela di interessi primari del danneggiato.


In particolare, le sezioni riunite di questa Corte (C. conti, S.S.R.R., 23 aprile 2003, 10/SR/QM) hanno chiarito che ogni azione del pubblico dipendente che, violando il precetto del neminem laedere, offenda al contempo anche l’interesse costituzionalmente garantito dal secondo comma dell’art.97 Cost. (eludendo le disposizioni poste a tutela delle competenze, delle funzioni e delle responsabilità dei soggetti pubblici), si traduce in un’alterazione dell’identità della pubblica amministrazione, facendola apparire quale struttura organizzata confusamente, gestita in maniera inefficiente, non responsabile né responsabilizzata (“ogni azione del pubblico dipendente che leda tali interessi si traduce [non solo] in un’alterazione dell’identità della pubblica amministrazione … [ma anche] … e, più ancora, nell’apparire di una sua immagine negativa in quanto struttura organizzata confusamente, gestita in maniera inefficiente, non responsabile né responsabilizzata”).


In altri termini, le Sezioni Riunite ritengono economicamente valutabile e giuridicamente risarcibile il danno all’immagine dell’amministrazione, inteso come diritto al conseguimento, mantenimento e riconoscimento della propria identità giuridica pubblica.


Del resto, dopo l’avvento della l. n. 150/2000 (menzionata in SS.RR. n. 10/2003/QM), che ad ogni effetto di legge eleva a funzione pubblica di cui è doveroso l’esercizio - con i connessi oneri economici - anche la promozione dell’immagine delle amministrazioni, il danno patrimonialmente apprezzabile potrebbe sufficientemente ravvisarsi già nell’istituzione e nel mantenimento di strutture interne di tipo ‘dedicato’ con compiti di comunicazione verso l’esterno, nella misura in cui la loro opera è compromessa nel risultato cui tende la loro azione, o comunque è resa più onerosa, da condotte screditanti del tipo di quelle per cui è causa.


Inoltre, ad avviso delle medesime Sezioni Riunite, dalla prova della realizzazione della condotta delittuosa de qua (che implica necessariamente la lesione della normativa in tema di competenze, funzioni e responsabilità dei soggetti pubblici) sorge ex se la prova del danno all’immagine dell’amministrazione nonché del relativo nesso causale.


Per quanto attiene al quantum del danno risarcibile, questo può consistere nelle somme spese per il ripristino del prestigio leso ovvero in quelle che si dovranno spendere a tal fine. In simili ipotesi, la quantificazione del danno non può essere ancorata a parametri certi ma dovrà essere effettuata facendo ricorso a criteri presuntivi, quali, ad esempio, la negativa impressione suscitata dal fatto lesivo sull’opinione pubblica, per effetto del clamor fori e della risonanza data alla notizia dai mezzi di informazione, e la connessa necessità di onerosi interventi correttivi dell’immagine lesa.


Fin qui, i danni apprezzabili da un punto di vista microeconomico.


Non può tuttavia essere trascurata, sul piano macroeconomico (ove si tratti dello Stato) oppure su quello parimenti microeconomico (ove si tratti invece di una Regione o di singoli enti locali), l’influenza che gravi fenomeni di corruzione o di mala gestio possono esercitare anche sulle valutazioni e le stime compiute dalle agenzie internazionali (Moody’s, Fitch e Standard’s & Poor), la cui attività consiste come noto nello scrutinare il grado di solvibilità di imprese o autorità pubbliche che hanno emesso titoli di debito (ivi inclusi, dunque i titoli di Stato o, nel caso degli enti territoriali, i titoli emessi da Regioni ed enti locali, anche singolarmente, nell’ambito di operazioni di finanza straordinaria). Ogni analisi effettuata da tali agenzie si conclude con un "rating", ovvero con una valutazione finale qualitativa del <<merito di credito>> della società o del soggetto pubblico volta per volta in esame.


L’attribuzione ai titoli di debito emessi da un soggetto pubblico di un rating piuttosto che un altro può (in concorso con gli altri indicatori considerati da dette agenzie) incidere in misura anche notevole sul costo della provvista finanziaria, procurando per questa via un danno erariale riflesso e differito che per sua natura si presta ad un apprezzamento in termini essenzialmente equitativi.


Siffatto danno rappresenta la declinazione in senso pubblicistico di quello che il glossario finanziario internazionale suole chiamare <<danno reputazionale>>, inteso quale danno a lungo termine al marchio ed ai suoi valori correlati, con un impatto negativo sulla capacità dell’emittente titoli di debito di soddisfare le aspettative di tutte le entità interessate.


I citati elementi costituiscono, dunque, quegli indici di valutazione cui il giudice può ricorrere per la definizione equitativa del danno ai sensi dell’art.1226 c.c., fondabile come è noto su prove anche presuntive od indiziarie (a carico dell’attore), tra cui tutte le conseguenze negative che, per dato di comune esperienza e conoscenza, siano riferibili al comportamento lesivo dell’immagine.


Con specifico riferimento alla presente fattispecie, dalla lettura degli atti di causa emerge non solo l’apprensione, a titolo di tangente, della somma di euro 25.822,84, ma anche l’emissione, per i medesimi fatti di causa, di una pluralità di sentenze penali.


In ragione delle suesposte considerazioni, tenuto conto del clamor fori e dell’apporto causale dell’azione del convenuto nel gettare discredito sull’immagine dell’amministrazione finanziaria in specie (e, in via riflessa, dello Stato), pare equo determinare il danno erariale in euro euro 20.500,00, somma già comprensiva di interessi e rivalutazione alla data della presente pronuncia.


Resta fermo che in sede di esecuzione della presente sentenza si dovrà tener conto di quanto risulti eventualmente già risarcito da coloro che abbiano effettuato dazioni di denaro a beneficio dell’amministrazione finanziaria a titolo riparatorio con specifica ed espressa imputazione ai fatti dannosi oggetto del presente giudizio.


La condanna alle spese segue la soccombenza.


P.Q.M.


la Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per la Regione Lombardia, definitivamente pronunciando


condanna


il convenuto come indicato in premessa al pagamento in favore del Ministero dell’Economia e delle finanze della somma di complessivi euro 20.500,00, somma già comprensiva di interessi e rivalutazione alla data della presente pronuncia.


Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in euro


Così deciso in Milano, nella Camera di Consiglio del 11.4.2006.

IL RELATORE IL PRESIDENTE
Dr. Massimiliano Atelli Dr. Giuseppe Nicoletti

Depositata in Segreteria il
Il Dirigente
 

M A S S I M E

 Sentenza per esteso 

1) Pubblica amministrazione - Fermo amministrativo - Art. 69 r.d. 2440/1923 e d.p.r. 602/1973 - Distinzione. Il fermo amministrativo in materia di contabilità dello Stato previsto dall’art. 69 r.d. 2440/1923 va tenuto distinto dall’omonimo provvedimento disciplinato dal d.p.r. 602/1973. Quest’ultimo è (Cass. SS.UU., sent. n. 2053 del 31.1.2006; Cons. Stato sez. V, n. 4869/2005) atto funzionale alla esecuzione, che - pure con le connotazioni particolari derivanti dalla natura del rapporto obbligatorio in forza del quale il debitore è tenuto al pagamento e della legislazione speciale che lo prevede, accordando poteri extra ordinem al creditore ed allo stesso incaricato della riscossione - deve comunque essere inquadrato fra gli strumenti di conservazione dei cespiti patrimoniali sui quali può essere soddisfatto coattivamente il credito, che l'ordinamento ordinariamente appresta alla generalità dei creditori. Il fermo amministrativo previsto dall’art. 69 del r.d. 2440/1923, invece, attribuisce il potere di richiedere il fermo amministrativo da parte dell'amministrazione dello Stato sulla base del presupposto oggettivo consistente nel fatto di vantare nei confronti del privato una ragione di credito(Cons. Stato, sez. VI, sent. n. 1441 del 2004). La legittimità del provvedimento, di indubbia natura cautelare, è fondata sull'esistenza del c.d. fumus boni iuris, ossia sulla ragionevole apparenza di fondatezza della pretesa. Questa situazione richiede l'esistenza di una prova dimostrativa certa, che determini nell'amministrazione non la certezza nella fondatezza della pretesa (ché altrimenti verrebbe meno la natura cautelare del provvedimento), ma la convinzione che esiste un motivo sicuro del suo diritto, che giustifica e legittima la soggezione del debitore all'adempimento (Cons. Stato, sez. VI, sent. 26.6.2003, n. 3850). In tal senso è la giurisprudenza del Consiglio di Stato (Cons. Stato, sez. IV, 27.2.1998, n. 350), secondo cui ai sensi dell'art. 69, r.d. 18 novembre 1923, n. 2440, il fermo amministrativo è provvedimento di autotutela cautelare, che, proprio per la sua natura, cautelare e intrinsecamente provvisoria, può essere adottato non solo quando il diritto di credito a cautela del quale è disposto sia già definitivamente accertato, ma anche quando il credito sia contestato, ma sia ragionevole ritenerne l'esistenza, posto che suo presupposto normativo è la mera «ragione di credito», e non la provata esistenza del credito stesso (si veda anche Cons. Stato, sez. IV, 14.1.1999, n. 23). Pres. Nicoletti, Est. Atelli - Procura Regionale c. E.S. - CORTE DEI CONTI, Sezione Giurisdizionale per la Lombardia - 13 aprile 2006, n. 248

2) Pubblica amministrazione - Fermo amministrativo ex art. 69 r.d. 2440/1923 - Natura. I
l fermo amministrativo di cui all’art. 69 del r.d. 2440/1923 è un provvedimento di autotutela cautelare avente struttura di atto impeditivi del pagamento, preordinato al fine di consentire ed agevolare la compensazione nell’adempimento da parte dello Stato delle sue obbligazioni pecuniarie (Cons, Stato in sede consultiva, 20.1.97 n. 1420). Pres. Nicoletti, Est. Atelli - Procura Regionale c. E.S. - CORTE DEI CONTI, Sezione Giurisdizionale per la Lombardia - 13 aprile 2006, n. 248

3) Pubblica amministrazione - Fermo amministrativo ex art. 69 r.d. 2440/1923 - Effetto interruttivo di carattere permanente.
L’emanazione del provvedimento di fermo amministrativo di cui all’art. 69 del r.d. 2440/1923 produce un effetto interruttivo di carattere permanente, sino all’emanazione di quel(l’ulteriore) provvedimento <<definitivo>> di cui è parola nel citato art. 69 del r.d. n. 2440, che ne disponga la revoca, il che può avvenire per adempimento da parte del privato, per successivo accertamento dell’insussistenza del credito dello Stato o per incameramento delle somme dovute dallo Stato al privato a soddisfazione del controcredito dello Stato azionato con il fermo (Cons. Stato, sent. 1441/2004). Pres. Nicoletti, Est. Atelli - Procura Regionale c. E.S. - CORTE DEI CONTI, Sezione Giurisdizionale per la Lombardia - 13 aprile 2006, n. 248

 

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