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Modelli economici per comprendere il decentramento energetico
ALBERTO CALVI
Il settore energetico ha subito
in Italia un lento processo di trasformazione innescato dalla normativa
europea e descritto nel corso della prima parte del presente lavoro. Le due
direttive del 1996 e del 19981,
prevedendo norme comuni per i mercati interni dell'energia elettrica e del
gas naturale ed aspirando alla costituzione di un mercato unico europeo
dell'energia, hanno spinto i diversi paesi membri nella direzione della
liberalizzazione.
Non è obiettivo di chi scrive studiare nelle pagine che seguono i motivi
teorici che sottostanno a tale scelta e che devono ricercarsi, stanti i
valori economico-liberali sui quali si basano tutti gli Stati membri
dell'Unione Europea, nella teoria economica neoclassica. Essa, infatti,
riconosce l'efficienza del mercato, cioè la sua capacità di allocare in modo
efficiente (a costi e prezzi minimi) i mezzi produttivi tra le imprese,
nonché i beni prodotti tra i consumatori. Da tale considerazione generale, è
discesa la necessità politica di trasformare il settore energetico, da
ambito d'intervento per monopolisti pubblici a mercato libero nel quale le
imprese private possano agire in base ai principi concorrenziali.
Nei paragrafi che seguono, si farà pertanto un breve cenno alla teoria
dell'intervento pubblico, concentrandosi maggiormente sulla teoria economica
del decentramento. L'obiettivo è comprendere quali siano le motivazioni
economiche che sottostanno al processo di decentramento intrapreso nel
settore energetico italiano.
1. Cenni sulla teoria dell'intervento pubblico
La teoria dell'intervento pubblico insieme con la Public finance (Hammond,
1990) costituiscono la base dell'Economia pubblica per l'identificazione
delle caratteristiche e delle motivazioni dell'intervento pubblico
nell'economia.
Si tratta di un argomento assai vasto la cui trattazione completa
richiederebbe ben altro spazio. Sarebbe, infatti, necessario illustrare i
concetti di efficienza allocativa, di mercato e di configurazione
industriale per comprendere e descrivere l'"ambiente" nel quale operano
imprese e consumatori, utilizzare i concetti di giustizia distributiva e di
libertà (sia in senso positivo sia negativo) per valutare i diversi assetti
del mercato, dibattere dei fallimenti di mercato e dei processi decisionali
democratici (cui si riferisco il teorema dell'impossibilità di Arrow e la
tesi dell'"Impossibilità del liberale paretiano" di Sen) per giungere
finalmente all'eventuale necessità di un intervento pubblico ed alle
conseguenti difficoltà che incontra l'azione statale.
Inoltre, non si dovrebbe fare riferimento unicamente al mainstream economico
neoclassico e liberale, dato che le varie scuole di pensiero e le varie
ideologie hanno fortemente influenzato il modo di dibattere l'argomento in
questione. Lo spettro delle posizioni derivanti dalle diverse impostazioni
varia quindi da quelle degli economisti ultraliberali e dei politologi
fautori di uno stato minimale, agli economisti di scuola marxista per i
quali lo stato, attraverso la programmazione economica, può sostituire tout
cour il ruolo del mercato.
Prescindendo tutto ciò, tradizionalmente la catena di nessi causali che
determina la necessità dell'intervento statale deriva dal Primo teorema
fondamentale dell'economia del benessere che fornisce gli elementi per la
definizione del "primato del mercato" come strumento di allocazione delle
risorse.
Il primo ed il secondo teorema fondamentale dell'economia del benessere
possono essere comunemente intesi come i principali risultati teorici
raggiunti dagli economisti della "nuova economia del benessere". Ad Arrow e
Debreu (1951) si deve la dimostrazione del primo di tali due teoremi.
Basandosi sulle ipotesi che i consumatori e le imprese agiscano da
price-takers, cioè adottando comportamenti perfettamente concorrenziali, che
esista un insieme completo di mercati, tramite i quali le merci vengono
allocate agli agenti, e che sia presente una perfetta informazione degli
agenti, i due economisti giunsero alla conclusione che l'eventuale
equilibrio competitivo raggiunto, se esiste, è efficiente in termini
paretiani.
In altre parole, ciò significa che mercati perfettamente competitivi e
completi portano ad allocazioni Pareto-efficienti2.
Tuttavia esistono i cosiddetti "fallimenti di mercato". Essi altro non sono
che il venir meno delle ipotesi assunte nel teorema, "imperfezioni" del
mercato come le esternalità, i beni pubblici, l'assenza di mercati futuri e
contingenti, i rendimenti di scala crescenti, ecc. Tali fallimenti, assai
diffusi nella realtà, forniscono la motivazione fondamentale dell'intervento
pubblico come correttivo delle imperfezioni e delle inefficienze del libero
mercato (Petretto, 1993).
Il Secondo teorema fondamentale dell'economia del benessere fornisce invece
la seconda motivazione tradizionale per l'intervento pubblico in economia.
Strettamente legato al primo, il secondo teorema fondamentale si basa sulle
stesse ipotesi alle quali si aggiungono alcune condizioni tecniche di
regolarità e convessità degli insiemi rilevanti, e la possibilità di
realizzare trasferimenti a somma fissa, cioè personalizzati e non distorsivi.
Ne consegue allora che ogni allocazione Pareto-efficiente, in particolare
quella eticamente desiderata sulla base di una qualche teoria end-state
della giustizia3(Zamagni,
1986; Dasgupta, 1989), può essere raggiunta tramite mercati perfettamente
competitivi. In sostanza, decentralizzando l'economia tramite prezzi
competitivi ed effettuando appropriati trasferimenti interpersonali4
allo scopo di alterare la distribuzione delle dotazioni iniziali nella
direzione voluta.
Efficienza ed equità sono i due elementi dicotomici del cosiddetto "big
trade-off", le categorie sulle quali modellare un intervento pubblico in
grado di raggiungere risultati desiderabili per la collettività, i valori e
le finalità perseguibili anche separatamente.
Infine la teoria moderna dell'Economia pubblica, affermatasi nell'ultimo
ventennio, introduce nuove variabili e considerazioni che modificano
l'automaticità della logica esposta in precedenza giungendo ad una teoria
dell'intervento pubblico molto più articolata.
1.1 Brevi valutazioni sul settore energetico
Molte considerazioni derivanti dall'impostazione sopra descritta, stante le
caratteristiche politiche, economiche e tecnologiche del settore energetico,
hanno portato in Italia e in molti altri paesi europei alla costituzione di
monopoli pubblici.
Tali stati hanno, infatti, considerato l'energia, o meglio
l'elettrificazione e più recentemente la metanizzazione (problema che rimane
tuttora vivo nel nostro meridione) come un bene pubblico. Come si è visto,
tale bene poteva essere fornito solo dallo stato, attraverso una sua
impresa. Sono infatti le imprese pubbliche che, grazie ai trasferimenti
gravanti sulla collettività, hanno potuto raggiungere gli obiettivi
prefissati come, per esempio, la totale elettrificazione nazionale anche in
quelle zone il cui raggiungimento risultava economicamente sfavorevole. In
tal senso può ricordarsi l'esempio einaudiano del servizio postale, nel
quale si sottolineava il rischio che, ove l'estensione della prestazione di
tale servizio fosse lasciata alla sola legge di mercato del profitto
maggiore dei costi, essa sarebbe limitata ai soli centri abitati di
dimensioni redditizie, lasciando privo di copertura l'esemplificativo
"paesino di montagna" (Einaudi, 1945).
Una volta venuti meno o raggiunti gli obiettivi di cui si diceva in
precedenza, gli Stati europei, sotto lo stimolo comunitario, stanno tuttora
procedendo alla liberalizzazione e privatizzazione degli ex-monopolisti.
Non solo: l'energia è stata, è e sarà il fulcro della nostra vita, il
sinonimo per antonomasia di sviluppo, di crescita, di qualità della vita. In
quanto variabile strategica, ogni stato è intervenuto e dovrà intervenire
nel settore (si pensi alla politica ed alla programmazione energetica) per
garantirsi la stessa sopravvivenza.
Infine l'energia, in quanto sistema a rete, è vincolata ad una
infrastruttura di trasporto. Tale rete, peraltro, è da considerarsi come una
di quelle fasi della filiera energetica che costituisce un monopolio
naturale, cioè è economicamente impensabile che un privato possa duplicarla
costruendone una nuova. Che essa sia pubblica o privata, la sua gestione
(l'accesso degli operatori) è requisito essenziale per il funzionamento
dell'intero sistema, pertanto l'accesso a tale infrastruttura deve essere
comunque regolamentata onde permettere lo sviluppo di un mercato.
Ancora, le infrastrutture energetiche creano notevoli problemi d'impatto
ambientale e come ovvio queste sono l'emblema stesso delle esternalità
negative. In considerazione di tutto ciò, è indispensabile l'intervento
pubblico nel settore energetico.
2. La teoria del decentramento
La teoria del decentramento è una branca della teoria dell'Economia
pubblica, e fa quindi parte di quella che in Italia è nota come Scienza
delle finanze. Sviluppatasi a partire dal secondo dopoguerra, l'argomento di
studio è l'intervento pubblico nell'economia, visto solitamente da un lato
come fornitura di beni pubblici e dall'altro come imposizione fiscale.
L'obiettivo è la comprensione di quale possa essere la migliore struttura di
un governo e il livello ottimale al quale affidare gli interventi in ambito
economico.
Nella teoria del decentramento vengono individuati tre modelli di governo
territoriale:
Il sistema funzionale, detto anche della deconcentrazione, è tipico degli
stati fortemente centralizzati. Secondo tale sistema, il settore pubblico è
strutturato in vari enti che hanno competenza sull'intero territorio
nazionale e sono dotati di una singola funzione o responsabilità. La
fissazione di standard, di qualunque genere, è definita uniformemente
sull'intero territorio nazionale. Nei paesi dove sono presenti enti locali
autonomi, come comuni e province, il sistema della deconcentrazione li
utilizza alla stregua delle diramazioni locali dei ministeri. Gli enti
locali sono quindi agenti del governo nazionale, dato che ne sono sottoposti
ai controlli e ne attuano le direttive.
L'obiettivo principale di questo sistema è quello di garantire sull'intero
territorio nazionale sia l'efficienza, sia l'uniformità delle prestazioni,
ma ci si deve scontrare con la complessità del sistema, con il difficoltoso
controllo dell'operato degli organismi periferici e con la limitata
possibilità di adattare le performance alla realtà delle diverse zone del
paese, quindi alle preferenze dei cittadini che le abitano.
Esistono due varianti del sistema della deconcentrazione: quello
prefettizio, utilizzato fino al 1981 in Francia, dove il prefetto esercitava
poteri di indirizzo e controllo sugli uffici locali dei vari ministeri, e
quello funzionale, applicato prima del 1970 in Italia, dove il prefetto
aveva poteri più limitati occupandosi quasi esclusivamente di ordine
pubblico.
Il sistema della decentralizzazione spaziale, detto anche della
devoluzione, è basato sulla ripartizione fra organi di diverso livello di
governo delle competenze nelle varie materie. Legittimati dall'elezione
popolare dei vari organi, i governi sub-nazionali hanno competenza su una
determinata area territoriale e su determinate materie, disponendo di un
bilancio e di entrate proprie. "Le unità locali, sono autonome, indipendenti
e considerate chiaramente come livelli separati di governo, sui quali le
autorità centrali esercitano un esiguo livello di controllo, quando lo
esercitano"5.
I sistemi regionali esistenti ad oggi in paesi come l'Italia, la Spagna e la
Francia, rientrano in questa categoria. La regionalizzazione ha devoluto
poteri legislativi ed amministrativi che prima erano di competenza centrale
ad un livello intermedio dotato di una dimensione comunque rilevante.
Il modello della devoluzione, pone quindi l'accento sulla responsabilità e
sulla soddisfazione delle preferenze dei cittadini.
Il sistema federale, che nasce da un accordo tra stati (appunto,
federati), assegna ad essi maggiori competenze che in un sistema di
decentralizzazione spaziale, offrendo loro maggiore autonomia ed anche
maggiori garanzie sulla stabilità del quadro delle competenze.
Prescindendo dal modello di decentramento prescelto, la decentralizzazione
presenta molti vantaggi, diversamente enfatizzati dalle diverse dottrine
politiche, sociali, economiche.
Innanzitutto si potrebbe affermare che un governo decentralizzato è, per
l'organizzazione politica, ciò che un mercato è per l'economia (Brosio,
2003): un sistema che offre ai cittadini maggiori opportunità di scelta e
alle istituzioni spazi e stimoli per la competizione. Inoltre è da notarsi
come la decentralizzazione renda il governo più vicino al popolo, favorendo
il coinvolgimento dei cittadini nella gestione degli affari pubblici e
rafforzando le possibilità di controllo sui governanti. Ma non basta,
infatti, un sistema decentrato offre maggiori tutele delle minoranze in
società piuttosto differenziate, anche se sul piano pratico spesso ciò si
traduce nella prevaricazione da parte di potenti minoranze e in
comportamenti egoistici.
Altri teorici, legati alla teoria sociologica dell'organizzazione,
sostenevano che vi fossero evidenti limiti alla capacità amministrativa di
un governo centrale, pertanto la decentralizzazione era un modo quasi
obbligato per aumentare l'efficienza amministrativa. I progressi fatti nelle
comunicazioni, nel trasporto e nel trattamento delle informazioni, hanno
innalzato la dimensione minima efficiente (i piccoli governi multifunzionali
sono storicamente inefficienti), anche se le catene di comando sono più
corte e quindi meglio gestibili e controllabili nei governi di piccole
dimensioni.
Un'altra motivazione che rende interessante il decentramento a favore di
governi locali, è la maggiore possibilità di sperimentare, e quindi
innovare, nelle politiche svolte. Ci si riferisce in questo caso sia al
ragionamento banale che sottolinea la molteplicità-numerosità dei governi
locali, sia all'implicita possibilità che i trasferimenti dal governo
centrale contengano incentivi a comportamenti innovatori.
Per i teorici del federalismo competitivo, invece, il vantaggio di un
sistema di governo decentralizzato deriva dalla competizione tra poteri e
dai conseguenti effetti benefici sul funzionamento del settore pubblico nel
suo complesso. Ciò si verifica perché un cittadino, nel tentativo di
soddisfare una propria necessità, può rivolgersi di volta in volta o al
governo centrale o a quello locale, oppure può mettere a confronto l'operato
del proprio governo locale con quello di un'altra città o regione. In questo
modo si mette in competizione il governo nazionale con quelli locali o i
governi locali tra di loro. Il primo tipo di confronto determina una
competizione verticale che trae origine dalla sovrapposizione degli effetti
di politiche diverse affidate a governi diversi; nel secondo caso si ha una
concorrenza orizzontale che induce alla mobilità e al confronto politico. Il
fenomeno della mobilità può essere illustrato con il modello di Tiebout: i
cittadini insoddisfatti delle politiche attuate dai propri governi locali
andranno a risiedere in altre località, provocando in tal modo, competizione
tra i governi attraverso il meccanismo noto come "voto con i piedi". Su
questo modello si basa la competizione per lo sviluppo locale: i governi
cercheranno di attrarre sul proprio territorio le attività economiche, vista
la mobilità delle imprese e, più in generale, del capitale. Il secondo
modello, meno noto ma più realistico per quanto riguarda il comportamento
della cittadinanza, è stato inizialmente sviluppato da Pierre Salmon.
Secondo l'autore i cittadini non spostano la propria residenza, ma valutano
i diversi enti politici confrontando le prestazioni percepite e modificando
il proprio voto politico sulla base di tale confronto. La valutazione in
questione può riguardare sia governi locali di diverso colore politico, sia
i programmi dei diversi partiti su base nazionale. Tutti questi modelli,
essendo di tipo concorrenziale, sono basati sulle ipotesi neoclassiche
richiamate nel primo paragrafo, di particolare importanza risulta pertanto
l'assenza di esternalità.
Secondo la teoria contrattualista, il governo è visto come il risultato di
uno specifico ed implicito contratto tra cittadini e politici, i cui
elementi sono le promesse elettorali dei politici e la promessa dei
cittadini di rieleggerli, in caso di soddisfazione. Tale contratto dovrebbe
portare i politici ad impegnarsi esattamente per ottenere la rielezione, ma
i contratti in essere sono incompleti, nel senso che alcuni parametri
rilevanti sono non osservabili e non certificabili. Normalmente in simili
casi gli esiti del contratto possono essere differenti, dipendendo anche
dalla parte cui viene attribuito il diritto di intraprendere determinate
azioni dipendenti dalle informazioni non certificabili, ad esempio se sono
gli elettori locali o nazionali che hanno il diritto di eleggere il governo.
La scelta tra un governo centrale o decentralizzato è quindi pensabile come
l'attribuzione del diritto di decidere la rielezione del governo a livello
locale o nazionale, e tali governi sono pertanto caratterizzati da un
diverso grado di controllabilità da parte degli elettori. Esiste quindi un
trade-off tra benefici del coordinamento ed i costi sociali derivanti della
mancanza di responsabilità nei confronti delle singole comunità. Va altresì
sottolineato che la presenza o meno di particolari fattori casuali, come
l'omogeneità nazionale delle preferenze o eventuali difficoltà di percezione
degli elettori, potrebbe spingere un governo centrale a non differenziare
territorialmente le proprie politiche; così come, al contrario, la sempre
maggiore importanza che rivestono le elezioni nazionali potrebbe spingere il
governo centrale ad una sorta di iperattivismo nei confronti delle diverse
realtà locali.
2.1 I modelli
Di seguito sono illustrati i modelli fondamentali della teoria del
decentramento. Sono tutti caratterizzati dall'assegnazione
all'amministrazione pubblica del compito della fornitura di beni pubblici,
spesso di carattere locale.
Si rimanda, invece, al paragrafo conclusivo per le considerazioni relative
al problema dell'attribuzione delle competenze politiche ed amministrative
tra i diversi livelli di governo.
2.1.1 Il teorema di decentramento di Oates
Nel modello sviluppato da Oates (1972), la decentralizzazione trae la
principale giustificazione dalla sua capacità di soddisfare le preferenze di
un numero maggiore di cittadini rispetto ad un sistema centralizzato. Ci
sono alcune e decisive ipotesi sottostanti:
il governo nazionale non è in grado di differenziare territorialmente le
proprie politiche;
le preferenze all'interno delle singole comunità locali sono omogenee;
le politiche pubbliche non creano effetti di spillover tra le
giurisdizioni;
la produzione dei beni pubblici locali avviene a costi costanti.
In un siffatto modello, composto magari da solo due comunità locali, il
governo centrale soddisferà con le proprie politiche una fittizia preferenza
media nazionale, non soddisfacendo in realtà nessuna delle due (salvo il
caso di totale uniformità delle preferenze); al contrario i due governi
locali, andrebbero a soddisfare esattamente la totalità della popolazione, "fittando"
con precisione le curve di preferenza locali.
La soluzione decentralizzata sembra quindi permettere, consentendo di
massimizzare la rendita dei consumatori, la soddisfazione delle preferenze
di un maggiore numero di persone rispetto a quella centralizzata, che
risulta pertanto inefficiente.
Secondo le regole decisionali presenti nelle moderne democrazie, che
affidano a ciascun cittadino uguale potere decisionale, cioè un voto, la
forma di governo decentralizzata risulta quindi superiore. Ma i nostri
sistemi democratici non tengono conto del possibile interesse più intenso
che un cittadino, rispetto ad un altro, può avere nei confronti di una
determinata materia. Il benessere collettivo è quindi considerato solo in
termini molto approssimativi dai sistemi elettorali democratici e, se il
benessere individuale potesse essere calcolato, il sistema di governo
decentralizzato sarebbe preferibile soltanto in presenza di omogeneità delle
preferenze all'interno delle comunità locali. Si può quindi affermare che il
criterio democratico interpretato in base alla percentuale di persone
soddisfatte propende per la soluzione decentralizzata; il criterio
economico-utilitaristico consistente nella massimizzazione del benessere
favorisce la soluzione centralizzata se la disomogeneità media delle
preferenze è maggiore all'interno delle giurisdizioni locali che a livello
nazionale.
2.1.2 Il modello di Tiebout
Il modello di Tiebout, esposto in un saggio pionieristico del 1956 (quindi
prima che Oates costruisse il proprio), è basato sul federalismo
concorrenziale che prevede la perfetta mobilità dei cittadini.
In precedenza Samuelson (1954), analizzando il problema della fornitura dei
beni pubblici, aveva dimostrato che non esisteva alcun sistema
decentralizzato dei prezzi che potesse servire a determinarne, in modo
ottimale, i livelli di consumo collettivo. In una siffatta situazione
pertanto, l'allocazione dei beni pubblici non può essere affidata al
mercato, ma va guidata attraverso un meccanismo di scelta pubblica. In virtù
delle esternalità di tali beni pubblici, i cittadini possono godere dei
benefici anche senza contribuire al loro finanziamento ed hanno quindi un
incentivo a non rivelare le proprie preferenze.
Per Tiebout il problema della non rivelazione delle preferenze si poneva
solo per i beni ed i servizi pubblici che richiedono l'intervento del
governo centrale. Tali beni, infatti, necessitano di un procedimento
politico (una votazione) per verificare quale sia la domanda espressa dagli
elettori. Al contrario, per i beni pubblici locali, è ipotizzabile che i
cittadini manifestino le proprie preferenze attraverso il meccanismo della
mobilità residenziale. Così scriveva Tiebout: "allo stesso modo in cui è
possibile visualizzare il consumatore nell'atto di spostarsi verso un
negozio privato per acquistare i beni di cui necessita e i cui prezzi sono
fissati, così possiamo immaginare lo stesso consumatore dirigersi verso una
comunità locale ove i prezzi (le imposte) dei servizi forniti sono
ugualmente fissati. Ambedue i movimenti conducono il consumatore al mercato.
In un'economia di tipo spaziale non vi è possibilità alcuna, per il
cittadino, di non rivelare le proprie preferenze. La mobilità spaziale
costituisce, nel settore dei beni pubblici locali, quel che è il fare gli
acquisti nel mercato dei beni privati"6.
Tiebout immagina così una federazione come un mercato dei beni pubblici
locali, all'interno del quale ogni cittadino può sceglierne il paniere che
preferisce semplicemente spostandosi dove esso viene fornito. Essenziale è a
questo punto l'esistenza di un buon numero di giurisdizioni che competono
nell'offrire beni e servizi locali ai cittadini. Maggiore è tale numero, più
elevata è la probabilità che il cittadino individui la comunità che meglio
risponde alle proprie esigenze, che vada a risiedervi e che l'allocazione
delle risorse finisca con l'essere tanto efficiente quanto lo è in un
mercato di beni privati.
Per raggiungere tali obiettivi, è necessario però che siano soddisfatte
alcune ipotesi:
i consumatori sono perfettamente mobili e razionali, si spostano cioè
nelle comunità dove l'offerta di beni e servizi locali soddisfa al meglio le
proprie preferenze;
i cittadini dispongono di una perfetta informazione, sia relativamente ai
panieri di beni e servizi offerti, sia sulle imposte necessarie per il loro
finanziamento;
i cittadini guadagnano redditi non da lavoro (dividendi), pertanto non
esistono restrizioni alla mobilità individuale derivante da problemi
occupazionali;
esiste un numero di giurisdizioni sufficiente da soddisfare le preferenze
di tutti i cittadini. Non vi sono pertanto barriere alla costituzione di
nuove comunità;
non esistono effetti di spillover tra comunità confinanti;
ogni giurisdizione produce beni in base ad una funzione caratterizzata da
costi unitari costanti.
2.1.3 La teoria dei club
La teoria dei club è stata sviluppata da Buchanan (1965) per illustrare un
meccanismo efficiente di fornitura dei beni pubblici impuri, cioè
escludibili e la cui godibilità dipende da un effetto di congestione. Il
club deve risolvere due problemi di ottimalità fra loro indipendenti: la
dimensione del club, data dai suoi membri e il livello di produzione del
paniere di beni.
L'esempio, diventato poi modello per spiegare come può nascere il club, è
quello della piscina. Dato che i singoli cittadini, ad eccezione di quelli
molto ricchi, non potrebbero sostenere la spesa per costruirsi una piscina,
si possono associare in un club per beneficiare delle conseguenti economie
di scala. La teoria dei club assume le seguenti ipotesi:
il costo per la discriminazione nei confronti dei non soci è zero;
i costi e benefici sono suddivisi in maniera eguale tra tutti i soci;
tutti i soci massimizzano una funzione dell'utilità del tipo: maxUi(Bip,C,G)
In tale funzione d'utilità il terzo argomento, che rappresenta la dimensione
del club, internalizza nella funzione medesima eventuali congestioni o
economie di scala, mentre i primi due argomenti rappresentano il consumo di
beni privati e del bene fornito dal club.
Ovviamente la quantità ottima da produrre è quella che massimizza la rendita
dei consumatori e che quindi avviene ai costi medi minimi. Data la forma
della curva dei costi, nel punto di costo minimo sono state colte tutte le
economie di scala consentite e gli effetti negativi del congestionamento non
hanno ancora preso il sopravvento.
L'equilibrio viene raggiunto se esiste un numero ottimale di club i cui
componenti massimizzino la loro funzione di utilità, in modo che nessuno
abbia la convenienza a spostarsi dal club dove è inserito. In un tale
stadio, ogni club sarebbe ottimamente dimensionato e tutti godrebbero dello
stesso livello di benessere data l'ipotesi d'omogeneità delle preferenze.
2.1.4 Il modello senza mobilità (la concorrenza orizzontale)
I modelli elaborati da Tiebout e Buchanan, sebbene abbiano raggiunto fama e
trovato posto sui libri di testo, non sono poi così credibili nella loro
ipotesi di perfetta mobilità dei contribuenti, soci o elettori: non è
possibile pensare ad una mobilità così totale da costituire un mercato. Un
modello competitivo che prescinde da tale ipotesi è stato elaborato in due
versioni simili, nel 1987 da due economisti: Breton, canadese e Salmon,
francese.
Come nel modello di Tiebout, anche in questo caso si ritrova l'assunzione di
un mercato virtuale, cioè privo di una sua precisa collocazione spaziale, ma
ora gli enti locali (i club) avrebbero un marketing più aggressivo. Si
immagina infatti che gli amministratori degli enti locali entrino in
competizione per soddisfare meglio le preferenze dell'elettore. Questi viene
posto al centro del mercato politico virtuale come se perdesse il suo
specifico radicamento nel territorio.
La differenza col modello di Tiebout è semplice: nel modello di metà anni
cinquanta il "voto con i piedi", cioè un meccanismo "implicito" di
rivelazione delle preferenze, sostituiva quello formale delle scelte
collettive. Invece nel modello Breton-Salmon permane la necessità di
procedure formali di scelta collettiva che pertanto devono essere precisate;
inoltre la concorrenza si sposta più chiaramente dal lato dell'offerta.
Il decentramento è quindi augurabile in quanto capace, analogamente al
mercato perfettamente concorrenziale, di rilevare meglio le preferenze dei
cittadini (e dei consumatori) grazie ad un più efficiente meccanismo
decentrato di decisioni.
Breton e Salmon non si collocano però nell'ambito del puro neo-classicismo,
non riferendosi alla concorrenza basata sull'imprenditore autonomo e
distinto da ogni altro che opera in un contesto competitivo di prezzo su
prodotti uguali o simili. Al contrario si riferiscono all'imprenditore
schumpeteriano che introduce innovazioni, nuove tecnologie, offre nuovi
beni, attacca frontalmente l'impresa esistente cercando di travolgerla
secondo lo schema della "distruzione creatrice".
Questo tipo di concorrenza è simile a quella che si svolge in gare e tornei,
ma Salmon è interessato a quella fra grandi città o fra regioni, che non
implica che esse competano per l'approvazione dello stesso elettorato,
competendo così in un torneo dove il partecipante, se vince, ottiene
innanzitutto l'approvazione del proprio collegio e se perde può non essere
riconfermato. In un simile contesto esistono tre tipi di concorrenza in uno
stato centralizzato:
la concorrenza tra i politici per ottenere il voto;
la concorrenza tra le giurisdizioni per attirare residenti e imprese;
la concorrenza come rivalità per il potere o per avere responsabilità.
La concorrenza fra politici e/o partiti per accaparrarsi il consenso degli
elettori non si svolge su un mercato unico, come nel modello di Tiebout,
bensì su diversi mercati. Anzi, Salmon sostiene addirittura la possibilità
che tale concorrenza possa svolgersi anche senza mercato, in un contesto nel
quale i cittadini tengono conto delle promesse elettorali, del comportamento
passato dei politici, ecc. Sembra pertanto si possa quasi trattare di
concorrenza per il mercato, anziché nel mercato o, ancora, della concorrenza
nel mercato del lavoro, che fa emergere lo sforzo produttivo messo in atto
da ciascun lavoratore che partecipa al torneo e aiuta a superare
l'asimmetria informativa.
L'argomento a favore del pluralismo dei livelli di governo permane la sua
capacità di ridurre i problemi di asimmetria informativa e di adeguamento
dei meccanismi incentivanti. I limiti principali che si riscontrano sono
invece:
l'assunzione che i partecipanti partano da posizioni paritarie, poiché se
ci fossero concorrenti più e meno forti, allora i più deboli potrebbero non
partecipare al torneo. Ne deriverebbe la necessità di meccanismi perequativi
sia di tipo orizzontale che verticale;
la natura incompleta del contratto che lega eletti ed elettori, in quanto
si ha ambiguità nella motivazione del politico locale e difficoltà nel
percepire l'effettivo operato a fronte di operazioni d'immagine.
2.1.4 La competizione verticale e il federalismo cooperativo
La competizione verticale si sviluppa a partire dall'inevitabile
sovrapposizione degli effetti causati dalle diverse politiche affidate a
livelli di governo differenti. L'esempio tipico italiano, a riguardo, è
l'attribuzione al governo centrale della politica industriale e alle regioni
italiane della politica ambientale. Gli effetti delle due politiche si
sovrappongono ed i cittadini possono scegliere quale sia la soluzione
preferita rivolgendosi ad uno dei due livelli di governo, mettendoli così in
competizione.
C'è però chi fa notare che così come esistono nel mercato di beni privati
accordi di coordinamento e integrazione, si ha qualcosa di simile anche per
la produzione di beni pubblici tra i diversi livelli di governo. Si può cioè
avere una forte cooperazione tra livelli di governo in un assetto federale
dove i vari livelli dovrebbero tendere a specializzarsi in attività che sono
complementari.
Inoltre la concorrenza dei candidati alle cariche pubbliche di vario livello
e la concorrenza post-elettorale per la migliore offerta di un dato servizio
sono differenti. La concorrenza verticale si svolge infatti per guadagnare o
mantenere il favore dello stesso elettorato. Ma due elementi sono
fondamentali:
i concorrenti competono sì per lo stesso elettorato, ma hanno anche
mandati diversi e non facilmente paragonabile;
forse non esistono vere e proprie funzioni esclusive, ma si tratta più di
funzioni pubbliche condivise.
A partire da tali ragionamenti si è sviluppato il filone di pensiero del
federalismo cooperativo, che non considera la competizione come l'unico
strumento per ricercare l'efficienza. Infatti, nel settore pubblico i
privati cooperano più di quanto non facciano in un mercato; inoltre il
settore pubblico ha spesso proprio il compito di offrire beni e servizi che
un mercato privato non può proprio offrire (a causa dei fallimenti di
mercato).
Banale nonché famosissimo esempio a supportare l'idea che la cooperazione in
taluni casi e nel settore pubblico in particolare sia più importante e più
utile della competizione, è il dilemma del prigioniero. Come si sa in questo
tipo di gioco, i due giocatori/prigionieri scelgono di non cooperare proprio
per inseguire il massimo interesse in termini egoistici, salvo ottenere un
risultato inefficiente poiché se avessero collaborato entrambi avrebbero
potuto raggiungere un miglior risultato.
Questo è comunque il destino dei giochi one shot, dove tende a prevalere la
strategia egoistica di breve periodo. Con i supergiochi, cioè i giochi
ripetuti più volte nel tempo (meglio se indefinitamente), la cooperazione
tende a prevalere e fu Axelrod a dimostrare che la migliore strategia in un
gioco di questo tipo e quella nota come tit for tat. Tale semplicissima
strategia è infatti caratterizzata dal replicare al proprio avversario la
stessa mossa che egli ha fatto immediatamente in precedenza.
La cooperazione è quindi auspicabile anche in una situazione di mercato, si
veda l'applicazione della teoria dei giochi all'economia industriale per
quel che riguarda le concentrazioni ed i cartelli. Anzi in alcuni casi la
cooperazione è strettamente necessaria: solo il settore pubblico può
permettersi di fornire i beni pubblici che non sarebbero convenienti per i
privati, si voglia per i problemi di free riding, si voglia per
l'impossibilità di raggiungere importanti economie di scala. In alcuni casi
la cooperazione nasce spontaneamente, in altri va incentivata e/o
organizzata.
È poi utile notare che in tempi recenti diversi economisti e filosofi hanno
iniziato a criticare il principio del self-interest, con le critiche
all'utilitarismo, con le teorie della scelta pubbliche, con la teoria
economica della giustizia e con il neo-istituzionalismo. Ciò che emerge è
quindi che le scelte degli individui possono basarsi non unicamente sulla
massimizzazione del proprio benessere, o meglio ancora per rendere il
boccone meno amaro al main-stream neoclassico, che nella funzione d'utilità
individuale possano rientrare elementi non economici o non legati al consumo
del bene in questione. Sempre per rimanere nell'ambito di esempi banali,
tutti sanno che in Italia ci sono molti evasori fiscali, ma non per questo e
neanche solo per i controlli della Guardia di Finanza, l'intera popolazione
italiana cerca di non pagare le tasse.
Se per alcuni studiosi potrebbe quindi non esservi differenza tra uno stato
centralizzato ed uno federale; se si guarda alle possibilità di meglio
rispettare le preferenze dei cittadini nei vari contesti in cui essi si
trovano ad operare, il governo federale appare come un modello di democrazia
più avanzato, dove i cittadini possono partecipare più attivamente alla
formazione delle scelte pubbliche.
Allo stesso modo, anche il modello cooperativo presuppone una maggiore
partecipazione dei cittadini e dovrebbe pertanto ritenersi superiore ai
modelli competitivi. Inoltre in una teoria di ampio successo come quella di
Rawls, la cooperazione è implicitamente introdotta con il "velo d'ignoranza"
che riporta tutti gli agenti ad una "posizione originaria" di totale
eguaglianza.
Ancora, in uno stato federale o decentrato, niente garantisce che via sia
armonia tra i vari obiettivi e che non vi sia conflittualità tra gli
strumenti dei vari livelli di governo. Anzi, dato che esistono dei trade-off
tra i vari fini, occorre che gli organismi di governo cooperino per
bilanciare costantemente gli obiettivi, calibrare al meglio gli strumenti a
tali obiettivi e prevedere meccanismi perequativi sia verticali sia
orizzontali.
3. Un breve commento
In riferimento al problema dell'attribuzione delle competenze tra i diversi
livelli di governo, è necessario porre attenzione innanzitutto al confronto
tra la dimensione della giurisdizione (i suoi confini) e l'area entro la
quale sono percepibili gli effetti di una sua politica. Per il principio
d'equivalenza, si può affermare che una qualunque funzione è svolta al
livello efficiente se tali due aree geografiche coincidono. In caso
contrario l'efficienza non è raggiunta per la presenza, a seconda del tipo
di politica implementata e di quale dei due concetti-grandezza sia
superiore, di esternalità positive o negative.
Le esternalità sono infatti un tipico caso di fallimento del mercato che
conducono il sistema verso l'inefficienza. Altro caso di fallimento dei
mercati interessante è quello dei beni pubblici, quei beni o servizi che per
le loro caratteristiche sono non rivali nel consumo e non escludibili. Per
estensione potremmo includere alcune delle politiche pubbliche all'interno
di tale categoria: si pensi, ad esempio, a tipici compiti pubblici
d'importanza differente quali la giustizia, la difesa militare, la tutela
ambientale, l'illuminazione pubblica,… Avvicinandoci al tema del federalismo
energetico, si pensi al perseguimento della sicurezza degli
approvvigionamenti energetici, al miglioramento della qualità dell'aria e
altro ancora. Certo né l'elettricità, né il gas naturale possono essere
considerati beni pubblici, ma data l'estensione del consumo e l'importanza
che questo riveste nel pieno godimento di diritti socio-economici, si
possono considerare come beni pubblici almeno alcune delle politiche del
settore.
Infine, quando l'economia si trova in una situazione di fallimento di
mercato, lo Stato può decidere se intervenire direttamente, ad esempio
attraverso un monopolio pubblico, od indirettamente. È questo il caso della
regolamentazione, attività attraverso la quale si riduce la libertà d'agire
sul mercato all'attività imprenditoriale attraverso: incentivi o
disincentivi, fissazione dei prezzi (o dei tetti alla loro crescita, o
ancora dei tassi di rendimento), imposizione di eventuali obblighi, …
Esempio di regolazione del mercato sono i servizi "universali", categoria di
beni studiata solo di recente e contrapposta alla coppia dicotomica "beni
pubblici - beni privati". In campo energetico si può citare il problema
della tutela dei "consumatori", cioè dei clienti/utenti sprovvisti di forza
negoziale sufficiente per stipulare contratti di acquisto/fornitura a
condizioni ritenute vantaggiose.
A riguardo è stato notato che "il diritto alla "prestazione minima" è ormai
da considerarsi principio generale di rango costituzionale"7
e l'esigenza di tutela dei consumatori si traduce, nei settori
dell'elettricità e del gas, nella disciplina del servizio pubblico e, in
particolare, del servizio universale ai "clienti vincolati".
La definizione di un servizio come "universale" implica l'imposizione di
obblighi, in capo alle imprese private fornitrici di tale servizio, volti a
garantire un servizio "minimo essenziale, a quasi tutti, a prezzi
abbordabili" (Clarich, 1998). Elementi necessari della disciplina del
servizio pubblico universale sono, dunque, l'obbligo di prestazione e la
disciplina "politica" della fissazione del prezzo. Nei settori di cui si
discute, di conseguenza, si prevede da un lato un obbligo espresso di
connettere chiunque ne faccia richiesta, nei limiti delle regole di
funzionamento efficiente del sistema8;
dall'altro, in riferimento al settore elettrico9,
la normativa vigente prevede espressamente l'obbligo di una tariffa unica
nazionale fissata dall'Autorità per l'Energia elettrica ed il gas per i
clienti vincolati10.
In definitiva, prescindendo dal tipo di bene e servizio fornito
dall'amministrazione pubblica, ogni livello di governo deve considerare i
possibili fenomeni di congestione, di free riding, di esternalità sia
positive sia negative, di economie di scala, di scopo e di apprendimento.
Sono tali fenomeni che, insieme alle caratteristiche del settore energetico,
devono essere valutati per decidere la ripartizione delle competenze fra i
differenti livelli di governo.
____________________
[1] Si tratta,
rispettivamente, delle direttive 96/92/CE e 98/30/CE
[2] l'equilibrio è
il migliore tra quelli raggiungibili e caratterizzato dall'efficienza
allocativa
[3] basata, cioè,
sui risultati finali indipendentemente dei processi seguiti
[4] tale
redistribuzione deve avvenire tramite i trasferimenti lump sum, strumenti
non distorsivi del mercato
[5] Rondinelli
D.A., Cheema G.S., "Decentralization and Development"
[6] Tiebout C.M.,
"A Pure Theory of Local Government Expenditures", Journal of Political
Economy, 1956
[7] Autorità
garante per la concorrenza ed il mercato, Segnalazione AS226
[8] decreto
legislativo n. 79/99, art. 9 e d. lgs. 124/00, art. 16
[9] infatti, dal 1
gennaio 2003 tutti i clienti del settore gas sono idonei
[10] d. lgs. N.
79/99, art. 9
__________________________
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