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Reg. n. 197 del 19/07/2006 - ISSN 1974-9562
Servizi pubblici locali - Sentenza della Corte Costituzionale n. 325/2010
CARLO RAPICAVOLI*
La Corte Costituzionale con sentenza n. 325/2010 del 3 novembre 2010 ha
dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 23-bis, comma 10,
lettera a), prima parte, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni
urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la
stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria) – articolo
aggiunto dalla legge di conversione 6 agosto 2008, n. 133 – sia nel testo
originario, sia in quello modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge 25
settembre 2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi
comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle
Comunità europee), convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009,
n. 166, limitatamente alle parole: «l’assoggettamento dei soggetti affidatari
diretti di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno e».
Ha invece dichiarato inammissibili o non fondate tutte le altre questioni di
illegittimità costituzionale sollevate da varie Regioni sull’art. 23-bis,
dichiarando viceversa l’illegittimità di alcune norme regionali della Campania e
della Liguria.
LE DISPOSIZIONI STATALI ESAMINATE DALLA CORTE
Le disposizioni esaminate dalla Corte introducono novità normative rilevanti
nella disciplina delle modalità di affidamento dei servizi pubblici locali (SPL)
e del diritto transitorio degli affidamenti già in corso.
In particolare, si prevede che:
a) l’affidamento del SPL in via ordinaria, mediante procedure competitive ad
evidenza pubblica, riguarda non solo le società di capitali – come nella
previgente normativa – ma, piú in generale, gli «imprenditori o […] società in
qualunque forma costituite» (comma 2 del testo originario e del testo vigente
dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008);
b) l’affidamento diretto – cioè senza gara ad evidenza pubblica – della gestione
del SPL a società miste il cui socio privato sia scelto mediante procedure
competitive ad evidenza pubblica costituisce un caso di conferimento della
gestione «in via ordinaria», alla duplice condizione che la procedura di gara
riguardi non solo la qualità di socio, ma anche l’attribuzione di «specifici
compiti operativi connessi alla gestione del servizio» e che al socio privato
sia attribuita una partecipazione non inferiore al 40% (comma 2 del testo
attualmente vigente dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008);
c) l’affidamento diretto «in deroga» ai conferimenti effettuati in via ordinaria
richiede una previa «pubblicità adeguata» e una motivazione di detta scelta da
parte dell’ente in base ad un’«analisi di mercato», oltre alla trasmissione di
una «relazione» dall’ente affidante alle autorità di settore, ove costituite
(testo originario dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008),
ovvero all’Autorità garante della concorrenza e del mercato – AGCM (testo
vigente dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008), per un
parere obbligatorio ma non vincolante, che deve essere reso entro 60 giorni
dalla ricezione;
d) l’affidamento diretto deve – ai sensi dei commi 3 e 4 del testo originario
dell’art. 23-bis del decreto legge n. 112 del 2008 – «avvenire nel
rispetto dei princípi della disciplina comunitaria», con l’ulteriore presupposto
che sussistano «situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche,
sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento,
non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato»;
e) lo stesso affidamento deve, invece, avvenire – ai sensi dei commi 3 e 4 del
testo attualmente vigente del medesimo art. 23-bis – con le forme della
gestione in house, nel rispetto delle condizioni richieste dal diritto
comunitario, previo parere della sola AGCM, con l’ulteriore presupposto della
sussistenza di «situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche
economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di
riferimento, non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato»;
f) i bacini di gara per i diversi servizi sono definiti, nel rispetto delle
normative settoriali, dalle Regioni e dagli enti locali d’intesa con la
Conferenza unificata di cui all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997,
n. 281 (comma 7 dell’art. 23-bis, sia nella versione originaria che in
quella vigente);
g) è abrogato, nelle parti incompatibili con la nuova disciplina, l’art. 113 del
decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico sugli enti locali), in
seguito indicato come TUEL, concernente l’affidamento e la gestione dei servizi
pubblici locali di rilevanza economica (comma 11 dell’art. 23-bis del
decreto-legge n. 112 del 2008, sia nella versione originaria che in quella
vigente);
h) il Governo ha il potere di adottare regolamenti di delegificazione sia nelle
materie di cui al comma 10 dell’art. 23-bis (come disposto nella versione
originaria ed in quella vigente dell’art. 23-bis), sia per la
determinazione delle soglie minime oltre le quali gli affidamenti «assumono
rilevanza ai fini dell’espressione del parere» dell’AGCM (come disposto dal
comma 4-bis nella versione vigente dell’art. 23-bis);
i) gli affidamenti diretti già in essere al momento dell’entrata in vigore della
nuova normativa cessano al 31 dicembre 2010 (versione originaria del comma 8
dell’art. 23-bis) o in date successive, a partire dal 31 dicembre 2011, a
seconda delle diverse tipologie degli affidamenti stessi (versione vigente del
comma 8 dell’art. 23-bis);
j) «Tutte le forme di affidamento della gestione del servizio idrico integrato
di cui all’articolo 23-bis del citato decreto-legge n. 112 del 2008 […]
devono avvenire nel rispetto dei princípi di autonomia gestionale del soggetto
gestore e di piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, il cui
governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche, in particolare in
ordine alla qualità e prezzo del servizio, in conformità a quanto previsto dal
decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, garantendo il diritto alla
universalità ed accessibilità del servizio» (comma 1-ter, dell’art. 15 del
decreto-legge n. 135 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 166
del 2009).
LE PRINCIPALI QUESTIONI TRATTATE DALLA CORTE COSTITUZIONALE
1. – RAPPORTO CON LA NORMATIVA COMUNITARIA
Il primo tema attiene al rapporto tra le disposizioni censurate e la disciplina
dei SPL desumibile dall’ordinamento dell’Unione europea e dalla Carta europea
dell’autonomia locale.
Secondo alcune ricorrenti, le suddette disposizioni, ponendosi in contrasto con
la normativa comunitaria ed internazionale, violano il primo comma dell’art. 117
Cost., là dove questo vincola la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni
al rispetto dell’ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali.
Secondo la difesa dello Stato, invece, la stessa formulazione del comma 1
dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 («le disposizioni del
presente articolo disciplinano l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici
locali di rilevanza economica, in applicazione della disciplina comunitaria
[…]») evidenzia che le disposizioni oggetto di censura, in particolare quelle
relative all’affidamento in house dei servizi pubblici locali,
costituiscono un’obbligatoria applicazione del diritto dell’Unione e non
contrastano con la citata Carta europea dell’autonomia locale.
Nessuna di tali due opposte prospettazioni viene condivisa dalla Corte, perché
le disposizioni censurate dalle ricorrenti non costituiscono né una violazione
né un’applicazione necessitata della richiamata normativa comunitaria ed
internazionale, ma sono semplicemente con questa compatibili, integrando una
delle diverse discipline possibili della materia che il legislatore avrebbe
potuto legittimamente adottare senza violare l’evocato primo comma dell’art. 117
Cost.
Tale conclusione viene argomentata procedendo al raffronto delle disposizioni
censurate sia con la normativa comunitaria che con quella internazionale evocate
a parametro interposto.
In àmbito comunitario non viene mai utilizzata l’espressione «servizio pubblico
locale di rilevanza economica», ma solo quella di «servizio di interesse
economico generale» (SIEG), rinvenibile, in particolare, negli artt. 14 e 106
del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE).
Detti articoli non fissano le condizioni di uso di tale ultima espressione, ma,
in base alle interpretazioni elaborate al riguardo dalla giurisprudenza
comunitaria (ex multis, Corte di giustizia UE, 18 giugno 1998, C-35/96,
Commissione c. Italia) e dalla Commissione europea (in specie, nelle
Comunicazioni in tema di servizi di interesse generale in Europa del 26
settembre 1996 e del 19 gennaio 2001; nonché nel Libro verde su tali servizi del
21 maggio 2003), emerge con chiarezza che la nozione comunitaria di SIEG, ove
limitata all’àmbito locale, e quella interna di SPL di rilevanza economica hanno
«contenuto omologo».
Lo stesso denunciato comma 1 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112
del 2008 – nel dichiarato intento di disciplinare i «servizi pubblici locali di
rilevanza economica» per favorire la piú ampia diffusione dei princípi di
concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di
tutti «gli operatori economici interessati alla gestione di servizi pubblici di
interesse generale in ambito locale» – conferma tale interpretazione,
attribuendo espressamente ai SPL di rilevanza economica un significato
corrispondente a quello di «servizi di interesse generale in àmbito locale» di
rilevanza economica, di evidente derivazione comunitaria.
Entrambe le suddette nozioni, interna e comunitaria, fanno riferimento infatti
ad un servizio che:
a) è reso mediante un’attività economica (in forma di impresa pubblica o
privata), intesa in senso ampio, come «qualsiasi attività che consista
nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato» (come si esprimono sia la
citata sentenza della Corte di giustizia UE, 18 giugno 1998, C-35/96,
Commissione c. Italia, sia le sentenze della stessa Corte 10 gennaio 2006,
C-222/04, Ministero dell’economia e delle finanze, e 16 marzo 2004, cause
riunite C-264/01, C-306/01, C-354/01 e C-355/01, AOK Bundesverband, nonché il
Libro verde sui servizi di interesse generale del 21 maggio 2003, al paragrafo
2.3, punto 44);
b) fornisce prestazioni considerate necessarie (dirette, cioè, a realizzare
anche “fini sociali”) nei confronti di una indifferenziata generalità di
cittadini, a prescindere dalle loro particolari condizioni (Corte di giustizia
UE, 21 settembre 1999, C-67/96, Albany International BV).
Le due nozioni, inoltre, assolvono l’identica funzione di identificare i servizi
la cui gestione deve avvenire di regola, al fine di tutelare la concorrenza,
mediante affidamento a terzi secondo procedure competitive ad evidenza pubblica.
Per quanto qui interessa, la disciplina comunitaria del SIEG e quella censurata
del SPL divergono, invece, in ordine all’individuazione delle eccezioni alla
suddetta regola.
Occorre pertanto accertare se le differenze tra le due discipline siano tali da
far venir meno, come sostengono le Regioni ricorrenti, la loro compatibilità.
Una prima differenza è rappresentata dalla gestione diretta del SPL da parte
dell’autorità pubblica. La normativa comunitaria la ammette nel caso in cui lo
Stato nazionale ritenga che l’applicazione delle regole di concorrenza (e,
quindi, anche della regola della necessità dell’affidamento a terzi mediante una
gara ad evidenza pubblica) ostacoli, in diritto od in fatto, la «speciale
missione» dell’ente pubblico (art. 106 TFUE; ex plurimis, sentenze della Corte
di giustizia UEE 11 gennaio 2005, C-26/03, Stadt Halle, punti 48 e 49, e 10
settembre 2009, C-573/07, Sea s.r.l.).
In tale ipotesi l’ordinamento comunitario, rispettoso dell’ampia sfera
discrezionale attribuita in proposito agli Stati membri, si riserva solo di
sindacare se la decisione dello Stato sia frutto di un “errore manifesto”.
La censurata disciplina nazionale, invece, rappresenta uno sviluppo del diverso
principio generale costituito dal divieto della gestione diretta del SPL da
parte dell’ente locale; divieto introdotto dai non censurati art. 35 della legge
28 dicembre 2001, n. 448 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e
pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2002) e art. 14 del decreto-legge 30
settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la
correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni,
dalla legge 24 novembre 2003, n. 326.
Da quanto precede, è dunque evidente che:
a) la normativa comunitaria consente, ma non impone, agli Stati membri di
prevedere, in via di eccezione e per alcuni casi determinati, la gestione
diretta del servizio pubblico da parte dell’ente locale;
b) lo Stato italiano, facendo uso della sfera di discrezionalità attribuitagli
dall’ordinamento comunitario al riguardo, ha effettuato la sua scelta nel senso
di vietare di regola la gestione diretta dei SPL ed ha, perciò, emanato una
normativa che pone tale divieto.
Una seconda differenza riguarda l’affidamento della gestione del servizio alle
società miste, cioè con capitale in parte pubblico ed in parte privato
(cosiddetto PPP, partenariato pubblico e privato).
La normativa comunitaria consente l’affidamento diretto del servizio (cioè senza
una gara ad evidenza pubblica per la scelta dell’affidatario) alle società miste
nelle quali si sia svolta una gara ad evidenza pubblica per la scelta del socio
privato e richiede sostanzialmente che tale socio sia un socio «industriale» e
non meramente «finanziario» (in tal senso, in particolare, il Libro verde della
Commissione del 30 aprile 2004), senza espressamente richiedere alcun limite,
minimo o massimo, della partecipazione del socio privato.
Il testo originario dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008
non prevede una disciplina specifica per tale tipo di affidamento e dà per
scontato che la suddetta modalità di scelta del socio rientri nella regola
comunitaria dell’affidamento mediante gara ad evidenza pubblica, restando
irrilevante che tale gara abbia ad oggetto la scelta del socio privato invece
dell’affidatario.
La disciplina interna e quella comunitaria sul punto sono, dunque, identiche.
Anche il testo vigente dello stesso art. 23-bis è conforme alla normativa
comunitaria, nella parte in cui consente l’affidamento diretto della gestione
del servizio,«in via ordinaria», ad una società mista, alla doppia condizione
che la scelta del socio privato «avvenga mediante procedure competitive ad
evidenza pubblica» e che a tale
socio siano attribuiti «specifici compiti operativi connessi alla gestione del
servizio» (cosiddetta gara ad evidenza pubblica a doppio oggetto: scelta del
socio e attribuzione degli specifici compiti operativi).
La stessa nuova formulazione dell’art. 23-bis si discosta, però, dal
diritto comunitario nella parte in cui pone l’ulteriore condizione, al fine del
suddetto affidamento diretto, che al socio privato sia attribuita «una
partecipazione non inferiore al 40 per cento».
Tale misura minima della partecipazione (non richiesta dal diritto comunitario,
come sopra ricordato, ma neppure vietata) si risolve in una restrizione dei casi
eccezionali di affidamento diretto del servizio e, quindi, la sua previsione
perviene al risultato di far espandere i casi in cui deve essere applicata la
regola generale comunitaria di affidamento a terzi mediante gara ad evidenza
pubblica. Ne consegue, anche in questo caso, la piena compatibilità della
normativa interna con quella comunitaria.
Una terza differenza attiene alle ipotesi di affidamento diretto del servizio
«in deroga» alle ipotesi di affidamento in via ordinaria (versione originaria
dell’art. 23-bis), che si identificano nella gestione denominata in
house (come chiarito dalla versione vigente dello stesso art. 23-bis).
Secondo la normativa comunitaria, le condizioni integranti tale tipo di gestione
ed alle quali è subordinata la possibilità del suo affidamento diretto (capitale
totalmente pubblico; controllo esercitato dall’aggiudicante sull’affidatario di
«contenuto analogo» a quello esercitato dall’aggiudicante stesso sui propri
uffici; svolgimento della parte piú importante dell’attività dell’affidatario in
favore dell’aggiudicante) debbono essere interpretate restrittivamente,
costituendo l’in house providing un’eccezione rispetto alla regola
generale dell’affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica.
Tale eccezione viene giustificata dal diritto comunitario con il rilievo che la
sussistenza delle suddette condizioni esclude che l’in house contract
configuri, nella sostanza, un rapporto contrattuale intersoggettivo tra
aggiudicante ed affidatario, perché quest’ultimo è, in realtà, solo la longa
manus del primo. Nondimeno, la giurisprudenza comunitaria non pone ulteriori
requisiti per procedere a tale tipo di affidamento diretto, ma si limita a
chiarire via via la concreta portata delle suddette tre condizioni.
Viceversa, il legislatore nazionale, nella versione vigente dell’art. 23-bis
del decreto-legge n. 112 del 2008, non soltanto richiede espressamente, per
l’affidamento diretto in house, la sussistenza delle suddette tre condizioni
poste dal diritto comunitario, ma esige il concorso delle seguenti ulteriori
condizioni:
a) una previa «pubblicità adeguata» e una motivazione della scelta di tale tipo
di affidamento da parte dell’ente in base ad un’«analisi di mercato», con
successiva trasmissione di una «relazione» dall’ente affidante alle autorità di
settore, ove costituite (testo originario dell’art. 23-bis), ovvero all’AGCM
(testo vigente dell’art. 23-bis), per un parere preventivo e
obbligatorio, ma non vincolante, che deve essere reso entro 60 giorni dalla
ricezione;
b) la sussistenza di «situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche
economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di
riferimento» (commi 3 e 4 del testo originario dell’art. 23-bis), ovvero
di «situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche,
sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento»
(commi 3 e 4 del testo vigente del medesimo art. 23-bis), «non permettono
un efficace ed utile ricorso al mercato».
Siffatte ulteriori condizioni, sulle quali si appuntano particolarmente le
censure delle ricorrenti, si risolvono in una restrizione delle ipotesi in cui è
consentito il ricorso alla gestione in house del servizio e, quindi, della
possibilità di derogare alla regola comunitaria concorrenziale dell’affidamento
del servizio stesso mediante gara pubblica.
Ciò comporta, evidentemente, un’applicazione piú estesa di detta regola
comunitaria, quale conseguenza di una precisa scelta del legislatore italiano.
Tale scelta, proprio perché reca una disciplina pro concorrenziale piú rigorosa
rispetto a quanto richiesto dal diritto comunitario, non è da questo imposta –
e, dunque, non è costituzionalmente obbligata, ai sensi del primo comma
dell’art. 117 Cost., come sostenuto dallo Stato –, ma neppure si pone in
contrasto – come sostenuto, all’opposto, dalle ricorrenti – con la citata
normativa comunitaria, che, in quanto diretta a favorire l’assetto
concorrenziale del mercato, costituisce solo un minimo inderogabile per gli
Stati membri. È infatti innegabile l’esistenza di un “margine di apprezzamento”
del legislatore nazionale rispetto a princípi di tutela, minimi ed
indefettibili, stabiliti dall’ordinamento comunitario con riguardo ad un valore
ritenuto meritevole di specifica protezione, quale la tutela della concorrenza
“nel” mercato e “per” il mercato.
Ne deriva, in particolare, che al legislatore italiano non è vietato adottare
una disciplina che preveda regole concorrenziali – come sono quelle in tema di
gara ad evidenza pubblica per l’affidamento di servizi pubblici – di
applicazione piú ampia rispetto a quella richiesta dal diritto comunitario.
L’identità del “verso” delle discipline interna e
comunitaria esclude, pertanto, ogni contrasto od incompatibilità anche per
quanto riguarda la indicata terza differenza.
2. – COMPETENZA STATALE O REGIONALE
Il secondo tema attiene all’individuazione della sfera di competenza in cui,
secondo la Costituzione, deve collocarsi la normativa denunciata. In
particolare, la Corte ha verificato se tale normativa rientra nell’àmbito
costituzionale della competenza esclusiva statale e, segnatamente, della tutela
della concorrenza; o di quello della competenza regionale residuale e,
segnatamente, della materia dei servizi pubblici locali; o, ancora, nell’àmbito
della potestà regolamentare degli enti locali di cui all’art. 117, sesto comma,
Cost.; o, infine, se si tratti di un’ipotesi di concorso di competenze.
In proposito, la Corte ha ribadito che la disciplina concernente le modalità
dell’affidamento della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza
economica:
a) non è riferibile alla competenza legislativa statale in tema di
«determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti
civili e sociali» (art. 117, secondo comma, lettera m, Cost.), perché riguarda,
appunto, i servizi di rilevanza economica e non attiene, comunque, alla
determinazione di livelli essenziali (sentenza n. 272 del 2004);
b) non può essere ascritta neppure all’àmbito delle «funzioni fondamentali dei
Comuni, delle Province e Città metropolitane» (art. 117, secondo comma, lettera
p, Cost.), perché «la gestione dei predetti servizi non può certo considerarsi
esplicazione di una funzione propria ed indefettibile dell’ente locale»
(sentenza n. 272 del 2004) e, quindi, «non riguarda […] profili funzionali degli
enti locali» (sentenza n. 307 del 2009, al punto 6.1.);
c) va ricondotta, invece, all’àmbito della materia, di competenza legislativa
esclusiva dello Stato, «tutela della concorrenza», prevista dall’art. 117,
secondo comma, lettera e), Cost., tenuto conto degli aspetti strutturali e
funzionali suoi propri e della sua diretta incidenza sul mercato (ex plurimis,
sentenze n. 314, n. 307, n. 304 e n. 160 del 2009; n. 326 del 2008; n. 401 del
2007; n. 80 e n. 29 del 2006; n. 272 del 2004).
Di conseguenza, con riguardo alla concreta disciplina censurata, la competenza
statale viene a prevalere sulle invocate competenze legislative regionali e
regolamentari degli enti locali e, in particolare, su quella in materia di
servizi pubblici locali, proprio perché l’oggetto e gli scopi che caratterizzano
detta disciplina attengono in via primaria alla tutela e alla promozione della
concorrenza (sentenze n. 142 del 2010, n. 246 e n. 148 del 2009, n. 411 e n. 322
del 2008).
Tali conclusioni risultano avvalorate dalla «nozione comunitaria di
concorrenza», che si riflette su quella di cui all’art. 117, secondo comma,
lettera e), Cost., anche per il tramite del primo comma dello stesso art. 117 e
dell’art. 11 Cost.; nozione richiamata anche dall’art. 1, comma 4, della legge
10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato).
Secondo tale nozione, la concorrenza presuppone «la piú ampia apertura al
mercato a tutti gli operatori economici del settore in ossequio ai principi
comunitari della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento
e della libera prestazione dei servizi» (sentenza n. 401 del 2007). Essa
pertanto – come affermato in numerose pronunce della Corte (sentenze n. 270, n.
232 e n. 45 del 2010; n. 314 del 2009 e n. 148 del 2009; n. 63 del2008; n. 430 e
n. 401 del 2007; n. 272 del 2004) – può essere tutelata mediante tipi diversi di
interventi regolatori, quali:
1) «misure legislative di tutela in senso proprio, che hanno ad oggetto gli atti
ed i comportamenti delle imprese che influiscono negativamente sull’assetto
concorrenziale dei mercati» (misure antitrust);
2) misure legislative di promozione, «che mirano ad aprire un mercato o a
consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando
vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione
tra imprese» (per lo piú dirette a tutelare la concorrenza “nel” mercato);
3) misure legislative che perseguono il fine di assicurare procedure concorsuali
di garanzia mediante la strutturazione di tali procedure in modo da realizzare
«la piú ampia apertura del mercato a tutti gli operatori economici» (dirette a
tutelare la concorrenza “per” il mercato).
Nell’àmbito di tali misure e, in particolare, di quelle al punto 3), rientra
espressamente la previsione di procedure concorsuali competitive di evidenza
pubblica volte – come quelle di specie – a garantire il rispetto, per un verso,
dei princípi di parità di trattamento, di non discriminazione, di
proporzionalità e di trasparenza e, per l’altro, delle regole dell’efficacia e
dell’efficienza dell’attività dei pubblici poteri, al fine di assicurare la
piena attuazione degli interessi pubblici in relazione al bene o al servizio
oggetto dell’aggiudicazione.
Anche tali rilievi, basati sul diritto comunitario, confermano pertanto che la
disciplina delle modalità di affidamento della gestione dei servizi pubblici
locali rientra nella materia «tutela della concorrenza» e che la concreta
disciplina in esame prevale su altre competenze (sentenze n. 270 del 2010; n.
307 e n. 283 del 2009; n. 320 e n. 51 del
2008; n.430 e n. 401 del 2007; n. 272 del 2004).
Con riferimento, poi, allo specifico settore del servizio idrico integrato, la
Corte – in applicazione dei suddetti princípi e scrutinando la disciplina della
determinazione della tariffa d’àmbito territoriale ottimale − ha stabilito che
la normativa riguardante l’individuazione di un’unica Autorità d’àmbito e alla
determinazione della tariffa del servizio secondo un meccanismo di price cap
(art. 148 del d.lgs. n. 152 del 2006) attiene all’esercizio delle competenze
legislative esclusive statali nelle materie della tutela della concorrenza (art.
117, secondo comma, lettera e, Cost.) e dell’ambiente (art. 117, secondo comma,
lettera s, Cost.), materie che hanno prevalenza su eventuali competenze
regionali, che ne risultano cosí corrispondentemente limitate.
Ciò in quanto tale disciplina, finalizzata al superamento della frammentazione
della gestione delle risorse idriche, consente la razionalizzazione del mercato
ed è quindi diretta a garantire la concorrenzialità e l’efficienza del mercato
stesso (sentenze n. 142 e n. 29 del 2010; n. 246 del 2009).
Nella citata sentenza n. 246 del 2009 è stato ulteriormente precisato che la
forma di gestione del servizio idrico integrato e le procedure di affidamento
dello stesso, disciplinate dall’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006, sono da
ricondurre alla materia della tutela della concorrenza, di competenza
legislativa esclusiva statale, trattandosi di regole «dirette ad assicurare la
concorrenzialità nella gestione del servizio idrico integrato, disciplinando le
modalità del suo conferimento e i requisiti soggettivi del gestore, al precipuo
scopo di garantire la trasparenza, l’efficienza, l’efficacia e l’economicità
della gestione medesima».
In conclusione, secondo la giurisprudenza costituzionale, le regole che
concernono l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza
economica − ivi compreso il servizio idrico – ineriscono essenzialmente alla
materia «tutela della concorrenza», di competenza esclusiva statale, ai sensi
dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.
3. – PRINCIPIO DI RAGIONEVOLEZZA
Il terzo tema, posto dalle questioni promosse dalle Regioni in ordine alle
censurate discipline sia a regime che transitorie, attiene al principio di
ragionevolezza.
Al riguardo, le ricorrenti richiamano la giurisprudenza costituzionale, secondo
cui l’esercizio della potestà normativa esclusiva dello Stato in tema di tutela
della concorrenza è legittimo – in particolare, in caso di concorso con
competenze regionali – alla condizione del rispetto, da parte del legislatore
statale, del principio di ragionevolezza, sotto il profilo della proporzionalità
e dell’adeguatezza (sentenza n. 272 del 2004, cui possono aggiungersi le
sentenze n. 148 del 2009; n. 326 del 2008; n. 452 e n. 401 del 2007; n. 345, n.
272 del 2004).
Per quanto riguarda la disciplina a regime, alcune ricorrenti assumono che essa,
anche se ascrivibile alla materia «tutela della concorrenza», lede comunque la
competenza residuale innominata delle Regioni in materia di servizi pubblici
locali.
In particolare, le ricorrenti deducono che la normativa censurata, nella parte
in cui limita i casi in cui è consentito l’affidamento diretto in house, non è
ragionevole, proporzionale o adeguata, perché:
a) è normativa autoapplicativa e di dettaglio;
b) pone vincoli ulteriori – e perciò ingiustificati – rispetto a quelli previsti
dall’ordinamento comunitario per l’affidamento in house.
Nessuno di tali rilievi è condiviso dalla Corte.
Quanto al primo rilievo, la Corte sostiene che l’emanazione, nell’esercizio di
una competenza esclusiva dello Stato, di una norma auto applicativa e di
dettaglio non integra alcuna violazione dei criteri di riparto costituzionale
delle competenze legislative.
Al riguardo, la Corte ribadisce che:
a) «l’attribuzione delle misure [a tutela della concorrenza] alla competenza
legislativa esclusiva dello Stato comporta sia l’inderogabilità delle
disposizioni nelle quali si esprime, sia che queste legittimamente incidono, nei
limiti della loro specificità e dei contenuti normativi che di esse sono
proprie, sulla totalità degli àmbiti materiali entro i quali si applicano»;
b) una volta ricondotta una norma nell’àmbito della «tutela della concorrenza»,
«non si tratta […] di valutare se essa sia o meno di estremo dettaglio,
utilizzando princípi e regole riferibili alla disciplina della competenza
legislativa concorrente delle Regioni, ma occorre invece accertare se, alla
stregua del succitato scrutinio, la disposizione sia strumentale ad eliminare
limiti e barriere all’accesso al mercato ed alla libera esplicazione della
capacità imprenditoriale».
Neppure può affermarsi – come sostenuto da alcune ricorrenti – che le norme
sull’affidamento e le modalità di gestione dei servizi pubblici locali sono di
per sé irragionevoli, perché intervengono in materia di tutela della concorrenza
con discipline di dettaglio e autoapplicative.
Infatti la Corte ha piú volte rilevato che è ragionevole che norme in materia di
tutela della concorrenza, al fine di meglio tutelare le finalità pro
concorrenziali loro proprie, possano essere dettagliate ed autoapplicative
(sentenze n.
148 del 2009; n. 320 del 2008; n. 431 del 2007).
Quanto al secondo profilo, non viene accolto l’assunto delle ricorrenti, secondo
cui l’unica disciplina della concorrenza che possa considerarsi proporzionale e
adeguata è quella che non pone limiti (che non siano quelli evidenziati dalla
giurisprudenza comunitaria) all’affidamento in house di servizi pubblici locali
di rilevanza economica.
Al riguardo, va innanzitutto osserva la Corte che non appare irragionevole,
anche se non costituzionalmente obbligata, una disciplina, quale quella di
specie, intesa a restringere ulteriormente – rispetto al diritto comunitario – i
casi di affidamento diretto in house (cioè i casi in cui l’affidatario
costituisce la longa manus di un ente pubblico che lo controlla pienamente e
totalmente).
Tale normativa si innesta coerentemente in un sistema normativo interno in cui
già vige il divieto della gestione diretta mediante azienda speciale o in
economia (introdotto dai non censurati artt. 35 della legge n. 448 del 2001 e 14
del decreto-legge n. 269 del 2003) e nel quale, pertanto, i casi di affidamento
in house, quale modello organizzativo succedaneo della (vietata) gestione
diretta da parte dell’ente pubblico, debbono essere eccezionali e tassativamente
previsti.
In secondo luogo, la Corte rileva che le norme censurate dalle ricorrenti non
possono essere considerate sproporzionate od inadeguate solo perché, attraverso
la riduzione delle ipotesi di eccezionale affidamento diretto dei servizi
pubblici locali, rafforzano la generale regola pro concorrenziale, prescelta dal
legislatore, che impone l’obbligo di procedere all’affidamento solo mediante
procedure competitive ad evidenza pubblica.
La possibilità, secondo l’ordinamento comunitario, di affidamenti in house anche
in casi in cui detti affidamenti sono vietati dalle denunciate disposizioni
nazionali non rende queste ultime irragionevoli in relazione agli indicati
profili, perché l’ordinamento comunitario, in tema di tutela della concorrenza
e, in particolare, in tema di affidamento della gestione dei servizi pubblici,
costituisce solo un minimo inderogabile per il legislatore degli Stati membri e,
pertanto, non osta a che la legislazione interna disciplini piú rigorosamente,
nel senso di favorire l’assetto concorrenziale di un mercato, le modalità di
tale affidamento.
Pertanto, il legislatore nazionale ha piena libertà di scelta tra una pluralità
di discipline ugualmente legittime.
In terzo luogo, secondo la Corte deve essere sottolineato che la normativa
censurata non impedisce del tutto all’ente pubblico la gestione di un servizio
locale di rilevanza economica, negandogli ogni possibilità di svolgere la sua
«speciale missione» pubblica (come si esprime il diritto comunitario), ma trova,
tra i molti possibili, un punto di equilibrio rispetto ai diversi interessi
operanti nella materia in esame. In proposito, va ricordato che, secondo la
giurisprudenza della Corte, la sfera di autonomia privata e la concorrenza non
ricevono «dall’ordinamento una protezione assoluta» e possono, quindi, subire
limitazioni ed essere sottoposte al coordinamento necessario «a consentire il
soddisfacimento contestuale di una pluralità di interessi costituzionalmente
rilevanti» (sentenza n. 279 del 2006; analogamente, ordinanza n. 162 del 2009).
La stessa giurisprudenza ha tuttavia evidenziato che «una regolazione
strumentale a garantire la tutela anche di interessi diversi rispetto a quelli
correlati all’assetto concorrenziale del mercato garantito» ha carattere
«derogatorio e per ciò stesso eccezionale» e deve costituire «la sola misura in
grado di garantire al giusto la tutela di quegli interessi» (sentenza n. 270 del
2010).
Nella specie, intendendo contemperare la regola della massima tutela della
concorrenza con le eccezioni derivanti dal concorrenza; dall’altro, quello
specifico degli enti locali a gestire il SPL (tramite l’affidamento in house)
nell’ipotesi in cui sia «efficace ed utile» il ricorso al mercato e non solo
quando esso non sia possibile.
Il bilanciamento tra tali interessi è stato attuato, in concreto, in modo non
irragionevole, per un verso, consentendo alle società a capitale (interamente o
parzialmente) pubblico, quando non ricorrano le condizioni per l’affidamento
diretto, di partecipare alle gare ad evidenza pubblica per l’affidamento della
gestione del servizio, al pari di ogni altro imprenditore o società (comma 1
dell’art. 23-bis); per altro verso, limitando l’affidamento in house alle
ipotesi in cui, pur in presenza di un SPL di rilevanza economica, il ricorso al
mercato per la gestione del servizio non è «efficace e utile» (comma 2 dell’art.
23-bis).
Ciò è confermato dal comma 2 dell’art. 3 del d.P.R. 7 settembre 2010, n. 168
(Regolamento in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica, a
norma dell’articolo 23-bis, comma 10, del decreto-legge 25 giugno 2008,
n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133), il
quale stabilisce espressamente che le «società a capitale interamente pubblico
possono partecipare alle procedure competitive ad evidenza pubblica di cui
all’articolo 23-bis, comma 2, lettera a), sempre che non vi siano
specifici divieti previsti dalla legge».
Tali conclusioni relative alla disciplina a regime influiscono sulla soluzione
della questione posta dalle ricorrenti circa l’adeguatezza e la proporzionalità
− dunque, la ragionevolezza − del regime transitorio stabilito dalla normativa
denunciata.
La relativa censura non può essere accolta secondo la Corte, oltre che per le
considerazioni generali svolte nel punto precedente, anche per i seguenti
ulteriori argomenti, concernenti specificamente la disciplina transitoria.
Al riguardo, anche a non voler considerare che, in caso di successione di leggi,
il legislatore ha ampia discrezionalità di modulare nel tempo la disciplina
introdotta, con l’unico limite della ragionevolezza (ex plurimis, sentenza n.
376 del 2008; ordinanze n. 40 del 2009 e n. 9 del 2006), va comunque rilevato
che, nel caso di specie, il margine temporale concesso dalla normativa censurata
per la cessazione degli affidamenti diretti esistenti è congruo e proporzionato
all’entità ed agli effetti delle modifiche normative introdotte e, dunque,
ragionevole.
A tale conclusione si perviene agevolmente considerando la seguente successione
cronologica delle disposizioni di legge oggetto di censura.
Con riferimento al servizio idrico integrato, il comma 8 del testo originario
dell’art. 23-bis (entrato in vigore il 22 agosto 2008) prevedeva la
cessazione alla data del 31 dicembre 2010 delle concessioni per le quali non
sussistevano le peculiari caratteristiche di cui al comma 3.
Con riferimento ai settori diversi dal servizio idrico integrato, lo stesso
comma demandava la fissazione di una disciplina transitoria ai regolamenti di
delegificazione da adottare ai sensi della lettera e) del comma 10, ma che non
sono stati mai emanati. Il vigente comma 8 dell’art. 23-bis (entrato in
vigore il 26 settembre 2009) disciplina ora il regime transitorio degli
affidamenti non conformi a quanto previsto dai commi 2 e 3 dello stesso
articolo, con una cadenza differenziata, a seconda delle varie ipotesi, a
partire dal 31 dicembre 2010 e sino al 31 dicembre 2012, termine, quest’ultimo,
successivamente modificato, a decorrere dal 25 novembre 2009, in quello del 31
dicembre 2015.
Tali ampi margini temporali assicurano una concreta possibilità di attenuare le
conseguenze economiche negative della cessazione anticipata della gestione e,
pertanto, escludono la possibilità di invocare quell’incolpevole affidamento del
gestore nella durata naturale del contratto di servizio che, solo, potrebbe
determinare una possibile irragionevolezza della norma.
4. – DETERMINAZIONE DELLA RILEVANZA ECONOMICA DEI SPL
Il quarto tema trattato attiene all’individuazione della competenza legislativa
regionale o statale nella determinazione della rilevanza economica dei SPL.
Infatti, una volta accertato che la disciplina delle modalità di affidamento
della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica rientra nell’àmbito
della competenza legislativa esclusiva dello Stato, resta ancora da verificare
se allo Stato competa, in via esclusiva, anche il potere di indicare le
condizioni per le quali debba ritenersi sussistente detta «rilevanza economica»
oppure se la decisione di attribuire al servizio locale una siffatta
qualificazione sia riservata, dal diritto comunitario o comunque dalla
Costituzione, alla Regione od all’ente locale.
A tal fine è necessario, innanzitutto, valutare la portata della nozione di
«rilevanza economica» nel sistema della normativa statale sui SPL;
successivamente, individuare il fondamento costituzionale di tale nozione e,
infine, trarre le conclusioni in ordine alla competenza a determinare la
sussistenza dell’indicata «rilevanza».
Quanto al primo profilo, la Corte osserva che né il censurato art. 23-bis
del decreto-legge n. 112 del 2008, in entrambe le sue versioni, né l’art. 113
TUEL, nel disciplinare l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali
«di rilevanza economica», forniscono una esplicita definizione di tale
«rilevanza».
Tuttavia, lo stesso art. 23-bis fornisce all’interprete alcuni elementi
utili per giungere a tale definizione, precisando che:
a) l’articolo ha come fine (tra l’altro) di favorire la piú ampia diffusione dei
princípi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei
servizi di tutti «gli operatori economici interessati alla gestione di servizi
pubblici di interesse generale in ambito locale» (comma 1);
b) la presenza di situazioni tali da non permettere – in relazione alle
caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto
territoriale di riferimento – «un efficace ed utile ricorso al mercato del
servizio», non rende il servizio stesso privo di rilevanza economica, ma ne
consente solo l’affidamento della gestione con modalità derogatorie rispetto a
quelle ordinarie (comma 3);
c) la «rilevanza economica» dei servizi non ha nulla a che vedere con le soglie
oltre le quali gli affidamenti dei medesimi servizi «assumono rilevanza» ai fini
dell’espressione del parere preventivo che l’AGCM deve rendere in ordine alla
scelta dell’ente locale di affidare la gestione di un servizio pubblico «di
rilevanza economica» secondo modalità derogatorie rispetto a quelle ordinarie
(commi 4 e 4-bis, nella versione vigente).
Dall’evidente omologia posta da tale articolo tra «servizi pubblici locali di
rilevanza economica» e «servizi pubblici di interesse generale in ambito locale»
si desume, innanzitutto, che la nozione di «servizio pubblico locale di
rilevanza economica» rimanda a quella, piú ampia, di «servizio di interesse
economico generale» (SIEG), impiegata nell’ordinamento comunitario.
Del resto, la Corte, con la sentenza n. 272 del 2004, aveva già sottolineato
l’omologia esistente anche tra la nozione di «rilevanza economica», utilizzata
nell’art. 113-bis TUEL (relativo ai servizi pubblici locali «privi di
rilevanza economica» e dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla stessa
sentenza), e quella comunitaria di «interesse economico generale», interpretata
anche dalla Commissione europea nel Libro verde sui servizi di interesse
generale del 21 maggio 2003.
In particolare, secondo le indicazioni fornite dalla giurisprudenza comunitaria
e dalla Commissione europea, per «interesse economico generale» si intende un
interesse che attiene a prestazioni dirette a soddisfare i bisogni di una
indifferenziata generalità di utenti e, al tempo stesso, si riferisce a
prestazioni da rendere nell’esercizio di un’attività economica, cioè di una
«qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato
mercato», anche potenziale (sentenza Corte di giustizia UE, 18 giugno 1998,
causa C-35/96, Commissione c. Italia, e Libro verde sui servizi di interesse
generale del 21 maggio 2003, § 2.3, punto 44) e, quindi, secondo un metodo
economico, finalizzato a raggiungere, entro un determinato lasso di tempo,
quantomeno la copertura dei costi.
Si tratta dunque di una nozione oggettiva di interesse economico, riferita alla
possibilità di immettere una specifica attività nel mercato corrispondente,
reale o potenziale.
Se si ragiona sulla base di una siffatta ampia nozione comunitaria di interesse
economico, è agevole rilevare che gli indici empirici di tale interesse – come
lo scopo lucrativo, l’assunzione dei rischi dell’attività, l’incidenza del
finanziamento pubblico – talvolta impiegati dalla Corte di giustizia UE
(sentenza 22 maggio 2003, C-18/2001, Korhonen e.a.) e richiamati anche da
questa Corte (sentenza n. 272 del 2004) possono essere utili solo con
riferimento ad un servizio già esistente sul mercato, per accertare se
l’attività svolta sia da considerare economica.
Ciò però non significa che l’economicità dell’interesse si debba determinare ex
post, esclusivamente in base a tali indici, e cioè a séguito di una scelta
discrezionale dell’ente locale competente circa le modalità di gestione del
servizio.
Al contrario, nel diverso caso in cui si debba immettere nel mercato un servizio
pubblico – e, quindi, si debba accertare se e come applicare le regole
concorrenziali e concorsuali comunitarie per l’affidamento della sua gestione –
occorre necessariamente prendere in considerazione la possibilità dell’apertura
di un mercato, obiettivamente valutata secondo un giudizio di concreta
realizzabilità, a prescindere da ogni soggettiva determinazione dell’ente al
riguardo.
È vero che il diritto comunitario lascia qualche spazio in materia alla scelta
degli Stati membri, riservando loro, sia pure in via di eccezione, il potere di
derogare alle regole del Trattato relative alla concorrenza e agli aiuti di
Stato, ove tali regole – salvo errori manifesti da parte degli Stati stessi –
siano ritenute ostative al perseguimento della speciale missione e delle
finalità sociali del servizio.
Tuttavia, il potere di deroga presuppone la sussistenza dell’interesse economico
del servizio stesso, esercitandosi tale potere proprio nell’àmbito dei SIEG, e
cioè di servizi che sono, per definizione ed obiettivamente, di
«interesse economico» perché idonei ad influenzare un assetto concorrenziale in
atto o in fieri.
Analogamente a quanto visto a proposito del diritto comunitario, le disposizioni
censurate non fanno esclusivo riferimento ad un servizio locale operante in un
mercato già esistente, ma riguardano servizi dotati di mera «rilevanza»
economica e, quindi, anche servizi ancora da organizzare e da immettere sul
mercato.
Infatti, esse, in armonia con l’indicata nozione comunitaria di interesse
economico, evidenziano le due seguenti fondamentali caratteristiche della
nozione di «rilevanza» economica:
a) che l’immissione del servizio possa avvenire in un mercato anche solo
potenziale, nel senso che, per l’applicazione dell’art. 23-bis, è
condizione sufficiente che il gestore possa immettersi in un mercato ancora non
esistente, ma che abbia effettive possibilità di aprirsi e di accogliere,
perciò, operatori che agiscano secondo criteri di economicità;
b) che l’esercizio dell’attività avvenga con metodo economico, nel senso che
essa, considerata nella sua globalità, deve essere svolta in vista quantomeno
della copertura, in un determinato periodo di tempo, dei costi mediante i ricavi
(di qualsiasi natura questi siano, ivi compresi gli eventuali finanziamenti
pubblici).
Tale impostazione − consequenziale alla scelta legislativa di promuovere la
concorrenza “per” il mercato della gestione dei servizi – emerge nettamente, in
particolare, dai commi 3, 4 e 4-bis, dell’art. 23-bis, i quali
possono essere interpretati soltanto nel senso che i servizi pubblici locali non
cessano di avere «rilevanza economica» per il solo fatto che sia formulabile una
prognosi di inefficacia o inutilità del semplice ricorso al mercato, con
riferimento agli obiettivi pubblici perseguiti dall’ente locale.
Evidentemente, anche per il legislatore nazionale, come per quello comunitario,
la rilevanza economica sussiste pure quando, per superare le particolari
difficoltà del contesto territoriale di riferimento e garantire prestazioni di
qualità anche ad una platea di utenti in qualche modo svantaggiati, non sia
sufficiente l’automaticità del mercato, ma sia necessario un pubblico intervento
o finanziamento compensativo degli obblighi di servizio pubblico posti a carico
del gestore, sempre che sia concretamente possibile creare un «mercato a monte»,
e cioè un mercato «in cui le imprese contrattano con le autorità pubbliche la
fornitura di questi servizi» agli utenti.
Dall’evidenziata portata oggettiva delle nozioni in esame e dalla indicata
sufficienza di un mercato solo potenziale consegue l’erroneità delle
interpretazioni volte a dare alle medesime nozioni un carattere meramente
soggettivo e, in particolare, di quell’interpretazione – fatta propria da alcune
ricorrenti – secondo cui si avrebbe rilevanza economica solo alla duplice
condizione che un mercato del servizio sussista effettivamente e che l’ente
locale decida a sua discrezione di finanziare il servizio con gli utili ricavati
dall’esercizio di impresa in quel mercato.
Quanto al secondo profilo esaminato, relativo al fondamento costituzionale della
legge statale che fissa il contenuto della suddetta nozione oggettiva di
«rilevanza economica», la Corte afferma che va preso atto che detta nozione, al
pari di quella omologa di «interesse economico» propria del diritto comunitario,
va utilizzata, nell’àmbito della disciplina del mercato dei servizi pubblici,
quale criterio discretivo per l’applicazione delle norme concorrenziali e
concorsuali comunitarie in materia di affidamento della gestione di tali servizi
(come, del resto, esplicitamente affermato dal comma 1 dell’art. 23-bis).
Ne deriva che, proprio per tale suo àmbito di utilizzazione, la determinazione
delle condizioni di rilevanza economica è riservata alla competenza legislativa
esclusiva dello Stato in tema di «tutela della concorrenza», ai sensi del
secondo comma, lettera e), dell’art. 117 Cost. Poiché l’ordinamento comunitario
esclude che gli Stati membri, ivi
compresi gli enti infrastatuali, possano soggettivamente e a loro discrezione
decidere sulla sussistenza dell’interesse economico del servizio,
conseguentemente il legislatore statale si è adeguato a tale principio
dell’ordinamento comunitario nel promuovere l’applicazione delle regole
concorrenziali e ha escluso che gli enti infrastatuali possano
soggettivamente e a loro discrezione decidere sulla sussistenza della rilevanza
economica del servizio (rilevanza che, come piú volte sottolineato, corrisponde
per il diritto interno all’interesse economico considerato dal diritto
comunitario).
5. – VIOLAZIONE DELL’OBBLIGO DI MOTIVAZIONE
Il quinto tema affrontato si riferisce alla dedotta violazione degli artt. 3 e
97 Cost., sotto il profilo dell’obbligo di motivazione degli atti
amministrativi.
In particolare, la Regione Piemonte impugna i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis,
sia nel testo originario (ricorso n. 77 del 2008) che nel testo vigente (ricorso
n. 16 del 2010), sul rilievo che essi violano gli evocati parametri, perché:
a) la disciplina dell’affidamento del servizio pubblico locale nella forma
organizzativa dell’in house providing contenuta nelle disposizioni censurate
risulta lesiva della «competenza delle regioni e degli enti locali ove la
s’intenda come disciplina ulteriore rispetto a quella generale sul procedimento
amministrativo che da tempo prevede il dovere di motivazione degli atti
amministrativi (art. 3, legge 7 agosto 1990, n. 241), secondo molti posto in
attuazione del principio costituzionale di motivazione delle scelte della
amministrazioni pubbliche quanto meno nella cura di pubblici interessi»;
b) «non è ravvisabile nel caso in esame alcun interesse pubblico prevalente
capace di fondare sia l’esenzione dal generale dovere di motivazione per
l’affidamento ad imprese terze (art. 23-bis, secondo comma), sia
viceversa la limitazione dei casi sui quali può essere portata la motivazione a
fondamento di altre soluzioni organizzative».
La ricorrente lamenta, in sostanza, che le norme impugnate stabiliscono per
l’ente affidante l’obbligo di motivare, in base ad un’analisi di mercato, solo
la scelta di procedere all’affidamento in house del servizio pubblico (art. 23-bis,
comma 3) e non quella di procedere all’affidamento mediante procedure
competitive ad evidenza pubblica (art. 23-bis, comma 2); obbligo che
sarebbe in contrasto con gli evocati parametri, perché ulteriore rispetto al
generale obbligo di motivazione degli atti amministrativi.
La questione è dichiarata inammissibile.
Secondo la giurisprudenza della Corte, le Regioni sono legittimate a censurare
le leggi dello Stato, mediante impugnazione in via principale, esclusivamente
per questioni attinenti alla lesione del sistema di riparto delle competenze
legislative, ammettendosi la deducibilità di altri parametri costituzionali
soltanto ove la loro violazione comporti una compromissione delle attribuzioni
regionali costituzionalmente garantite (ex plurimis, sentenze n. 156 e n. 52 del
2010; n. 289 e n. 216 del 2008).
Ne deriva – in relazione al caso di specie – l’inammissibilità della questione
proposta, perché la prospettata violazione dell’obbligo di motivazione di cui
agli artt. 3 e 97 Cost. non comporta una compromissione delle attribuzioni
regionali costituzionalmente garantite, né ridonda sul riparto di competenze
legislative tra Stato e Regioni. E ciò, a prescindere dalla considerazione che i
parametri evocati non vietano che il legislatore stabilisca specifici obblighi
di motivazione per le sole deroghe fondate sulle peculiari situazioni di fatto
di cui al comma 3 e non per le situazioni ordinarie di cui al comma 2.
6. – IRRAGIONEVOLE DIVERSITÀ DI DISCIPLINA TRA IL SERVIZIO IDRICO E GLI ALTRI
SPL
Il sesto tema riguarda l’asserita irragionevole diversità di disciplina fra il
servizio idrico integrato e gli altri servizi pubblici locali.
La Regione Piemonte (ricorso n. 77 del 2008) censura – sempre in riferimento
agli artt. 3 e 97 Cost. – il comma 10 dell’art. 23-bis, nel testo
originario, sul rilievo che esso rinvia a regolamenti governativi la disciplina
transitoria dei servizi pubblici locali diversi da quello idrico, «con una
irragionevole differenza di trattamento che non appare giustificata […] per il
servizio idrico integrato per il quale la legge statale indica senz’altro in via
generale ed astratta la data di scadenza fissa del 31 dicembre 2010, mentre per
gli altri servizi pubblici consente al regolamento la previsione di adeguati
“tempi differenziati” in ragione di eterogeneità dei servizi presi in
considerazione».
Anche tale questione è dichiarata inammissibile, perché la ricorrente non ha
dedotto alcuna lesione della propria sfera di competenza, ma si è limitata a
lamentare l’irragionevolezza della disposizione censurata.
7. – VIOLAZIONE DELL’AUTONOMIA FINANZIARIA DELLE REGIONI
Al settimo tema attinente alla lamentata violazione dell’autonomia finanziaria
delle Regioni e degli enti locali, sono riconducibili alcune questioni poste
dalle Regioni Marche, Liguria, Umbria ed Emilia- Romagna.
Le ricorrenti impugnano il comma 8 dell’art. 23-bis, nel testo modificato
dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, sostenendo che esso
víola l’art. 119, sesto comma, Cost., perché impone «alle Amministrazioni
pubbliche di liberarsi di una quota del proprio patrimonio societario a
prescindere dalla convenienza economica dell’operazione, e quindi dalla
considerazione in concreto del tempo, delle modalità, della quantità,
valutazioni indispensabili ad evitare che si produca una svendita coatta di
capitali pubblici».
La questione è dichiarata non fondata.
Il parametro costituzionale evocato, infatti, garantisce alle Regioni e agli
enti locali un patrimonio, precisando però che esso è «attribuito secondo i
principi generali determinati dalla legge dello Stato». L’autonomia patrimoniale
delle Regioni e degli enti locali non è, dunque incondizionata, ma si conforma
ai princípi che il legislatore statale fissa nelle materie di sua competenza
legislativa, fra cui va certamente ricompreso quella della tutela della
concorrenza, disciplinata, nel caso in esame, proprio dalle norme censurate.
8. – PATTO DI STABILITÀ
La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 23-bis,
comma 10, lettera a), prima parte, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112
(Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la
competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione
tributaria) – articolo aggiunto dalla legge di conversione 6 agosto 2008, n. 133
– sia nel testo originario, sia in quello modificato dall’art. 15, comma 1, del
decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l’attuazione
di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia
delle Comunità europee), convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre
2009, n. 166, limitatamente alle parole: «l’assoggettamento dei soggetti
affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno e».
La Corte ha ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale in
riferimento alla prima parte della lettera a) del comma 10 – in cui si prevede
che la potestà regolamentare dello Stato prescriva l’assoggettamento dei
soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto di stabilità
interno –, in quanto l’àmbito di applicazione del patto di stabilità interno
attiene alla materia del coordinamento della finanza pubblica (sentenze n. 284 e
n. 237 del 2009; n. 267 del 2006), di competenza legislativa concorrente, e non
a materie di competenza legislativa esclusiva statale, per le quali soltanto
l’art. 117, sesto comma, Cost. attribuisce allo Stato la potestà regolamentare.
9. – ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DELLA LEGGE REGIONALE DELLA CAMPANIA
La Presidenza del Consiglio dei ministri aveva sollevato la questione di
legittimità costituzionale in merito al comma 1 dell’art. 1 della legge della
Regione Campania n. 2 del 2010, il quale prevede la competenza della medesima
Regione a disciplinare il servizio idrico integrato regionale come servizio
privo di rilevanza economica ed a stabilire autonomamente sia le forme
giuridiche dei soggetti cui affidare il servizio sia il termine di decadenza
degli affidamenti in essere.
La difesa dello Stato ha lamentato che la disposizione víola l’art. 117, commi
primo e secondo, lettera e), Cost., nonché, quali norme interposte, gli artt.
141 e 154 del d.lgs. n. 152 del 2006, l’art. 23-bis del decreto-legge n.
112 del 2008, il decreto-legge n. 135 del 2009 e l’art. 113 TUEL – i quali
stabiliscono che il servizio idrico integrato ha rilevanza economica – perché:
a) prevede che la Regione disciplini il servizio predetto «come servizio privo
di rilevanza economica»;
b) regola in modo del tutto difforme dall’art. 23-bis del decreto-legge
n. 112 del 2008 le forme giuridiche dei soggetti cui affidare il servizio ed il
termine di decadenza degli affidamenti in essere, prevedendo che «tutte le forme
attualmente in essere di gestione del servizio idrico con società miste o
interamente private decadono a far data dalle scadenze dei contratti di servizio
in essere».
Entrambe le questioni sono state ritenute fondate dalla Corte, perché le
disposizioni censurate sono in contrasto con la normativa statale evocata quale
parametro interposto ed emanata nell’esercizio della competenza esclusiva dello
Stato nella materia «tutela della concorrenza».
In particolare, la questione di cui al punto a) è fondata, perché la
disposizione censurata si pone in evidente contrasto con le sopra indicate norme
statali interposte, le quali ricomprendono il servizio idrico integrato tra i
servizi dotati di rilevanza economica. Infatti, la disciplina statale pone una
nozione generale e oggettiva di rilevanza economica, alla quale le Regioni non
possono sostituire una nozione meramente soggettiva, incentrata cioè su una
valutazione discrezionale da parte dei singoli enti territoriali.
La questione di cui al punto b) è del pari fondata, perché la disposizione
censurata, che individua le figure soggettive cui conferire la gestione del
servizio idrico e determina un regime transitorio per la cessazione degli
affidamenti diretti già in essere, si pone in evidente contrasto con il regime
transitorio disciplinato dall’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del
2008, il quale non può essere oggetto di deroga da parte delle Regioni.
10. - ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DELLA LEGGE REGIONALE DELLA LIGURIA
La Presidenza del Consiglio dei Ministri ha impugnato i commi 1, 4, 5, 6 e 14
dell’art. 4 della legge della Regione Liguria n. 39 del 2008.
Il ricorrente impugna, in primo luogo, i commi 1 e 14 di detto articolo in
riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., anche per il tramite
dell’art. 161, comma 4, lettera c), del d.lgs. n. 152 del 2006.
Tale ultima disposizione prevede, tra l’altro, che sia il Comitato per la
vigilanza sull’uso delle risorse idriche e non la Giunta regionale a redigere il
contenuto di una o piú convenzioni-tipo da adottare con decreto del Ministro per
l’ambiente e per la tutela del territorio e del mare.
Ad avviso della difesa dello Stato, il censurato comma 1 – il quale affida alla
Giunta regionale la competenza ad approvare lo schema-tipo di contratto di
servizio e di convenzione di cui all’art. 151 del d.lgs. n. 152 del 2006 – si
pone in contrasto con il comma 4, lettera c), del nuovo testo dell’art. 161
dello stesso decreto legislativo, il quale ha «tacitamente abrogato» detto art.
151 ed ha attribuito al «Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse
idriche» – e non alla Giunta regionale – la competenza a redigere il contenuto
di una o piú delle suddette convenzioni-tipo; convenzioni da adottare con
decreto del Ministro per l’ambiente e per la tutela del territorio e del mare,
sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le
Province autonome di Trento e di Bolzano.
La Corte ha ritenuto la questione fondata nel merito in quanto la Regione è
intervenuta, nella materia «tutela
dell’ambiente», attribuendo all’Autorità d’àmbito una serie di competenze
amministrative spettanti, invece, al COVIRI (ora CONVIRI), ai sensi dell’art.
161, comma 4, lettera c), del d.lgs. n. 152 del 2006, ed ha pertanto violato
l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.
Il ricorrente ha censurato, altresí, il comma 4 del medesimo art. 4 della legge
della Regione Liguria n. 39 del 2008, il quale prevede la competenza
dell’Autorità d’àmbito a provvedere all’affidamento del servizio idrico
integrato, «nel rispetto dei criteri di cui all’articolo 113, comma 7, del
d.lgs. 267/2000 e delle modalità di cui agli articoli 150 e 172 del
d.lgs.152/2006».
La censura è proposta in relazione alla violazione dell’art. 117, secondo comma,
lettera e), della Costituzione, per il tramite dell’art. 23-bis, commi 2,
3 e 11, del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo originario.
La difesa dello Stato evidenzia che il comma denunciato, prevedendo che l’AATO
provvede all’affidamento del servizio idrico integrato, «nel rispetto dei
criteri di cui all’articolo 113, comma 7, del d.lgs. 267/2000 e delle modalità
di cui agli articoli 150 e 172 del d.lgs.152/2006», richiama l’art. 150 del
d.lgs. n. 152 del 2006, il quale consente all’Autorità d’àmbito di scegliere la
forma di gestione del servizio tra quelle elencate nell’art. 113, comma 5, TUEL.
Tale ultima disposizione prevede, a sua volta, che «L’erogazione del servizio
avviene secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa
dell’Unione europea, con conferimento della titolarità del servizio:
a) a società di capitali individuate attraverso l’espletamento di gare con
procedure ad evidenza pubblica;
b) a società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato
venga scelto attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza
pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie
in materia di concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità
competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche;
c) a società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti
pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo
analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la
parte piú importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che
la controllano».
Ad avviso della difesa dello Stato, la norma censurata, richiamando le forme di
gestione dei SPL di cui al citato art. 113, comma 5, TUEL, si pone in contrasto
con l’art. 23-bis, del decreto-legge n. 112 del 2008, il quale dispone,
invece, che le parti del citato art. 113 incompatibili con le prescrizioni dello
stesso art. 23-bis sono abrogate (comma 11), e prevede come regola per
l’affidamento dei servizi pubblici locali non piú quella fissata dagli artt. 150
del d.lgs. n. 152 del 2006 e 113 TUEL, bensí quella della procedura competitiva
ad evidenza pubblica (comma 2), ferma restando la possibilità di ricorrere
all’affidamento diretto solo in presenza delle condizioni di cui al comma 3 del
medesimo articolo.
La Corte ha ritenuto che la questione è fondata nel merito.
La norma censurata impone, infatti, l’applicazione del comma 5 dell’art. 113
TUEL, cioè di un comma abrogato per incompatibilità dal citato art. 23-bis,
con il quale, pertanto, si pone in contrasto.
L’art. 23-bis prevede infatti, come sopra osservato, che «l’art. 113 del
testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali di cui al decreto
legislativo 18 agosto 2000, n. 267 e successive modificazioni, è abrogato nelle
parti incompatibili con le disposizioni di cui al presente articolo» (comma 11).
In particolare, il citato comma 5 dell’art. 113 è palesemente incompatibile con
i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis, perché disciplina le modalità di
affidamento del SPL in modo difforme da quanto previsto da detti commi, evocati
come norme interposte.
Il ricorrente censura, in terzo luogo – per contrasto con l’art. 23-bis,
commi 8 e 9, del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo originario, e, di
conseguenza, con l’art. 117, secondo comma, lett. e), Cost. – i commi 5 e 6 del
medesimo art. 4 della legge della Regione Liguria n. 39 del 2008, i quali
prevedono, rispettivamente, che:
a) «Resta ferma la previsione di cui all’articolo 113, comma 15-bis, del
d.lgs. 267/2000; a tal fine l’AATO determina la data di cessazione delle
concessioni esistenti, avuto riguardo alla durata media delle concessioni
aggiudicate nello stesso settore a seguito di procedure ad evidenza pubblica,
salva la possibilità di determinare caso per caso la cessazione in una data
successiva, qualora la medesima risulti proporzionata ai tempi di recupero di
particolari investimenti effettuati dal gestore, fermi restando l’aggiornamento
e la rinegoziazione delle convenzioni in essere» (comma 5);
b) «L’AATO individua forme e modalità dirette all’integrazione del servizio di
gestione dei rifiuti e del servizio idrico, avuto riguardo agli affidamenti
esistenti che non risultano cessati nei termini di cui all’articolo 113, comma
15-bis, del d.lgs. 267/2000, al fine di pervenire al superamento della
frammentazione del servizio nel territorio dell’ambito» (comma 6).
A sua volta, il comma 15-bis dell’art. 113 TUEL – richiamato dalle
suddette disposizioni censurate – prevede, con un’articolata serie di eccezioni
soggettive, che «nel caso in cui le disposizioni previste per i singoli settori
non stabiliscano un congruo periodo di transizione […] le concessioni rilasciate
con procedure diverse dall’evidenza pubblica cessano comunque entro e non oltre
la data del 31 dicembre 2006, relativamente al solo servizio idrico integrato al
31 dicembre 2007, senza necessità di apposita deliberazione dell’ente
affidante».
Lo Stato lamenta che i commi censurati, disciplinando la cessazione delle
concessioni esistenti ed il relativo regime transitorio degli affidamenti del
servizio idrico integrato effettuati senza gara, attraverso il rinvio alle
disposizioni di cui all’art. 113, comma 15-bis, TUEL, contrastano con
l’art. 23-bis, commi 8 e 9, del decreto-legge n. 112 del 2008, che – come
visto – ha abrogato l’art. 113 citato nelle parti incompatibili con le sue
disposizioni e che fissa al 31 dicembre 2010 la data per la cessazione delle
concessioni esistenti rilasciate con procedure diverse dall’evidenza pubblica.
Anche tale questione è stata ritenuta fondata.
La norma censurata impone l’applicazione del comma 15-bis dell’art. 113
TUEL, abrogato per incompatibilità dall’art. 23-bis, con il quale,
pertanto, si pone in contrasto. Il citato comma 15-bis dell’art. 113 TUEL,
infatti, è incompatibile con il suddetto art. 23-bis, perché disciplina
il regime transitorio degli affidamenti diretti del servizio pubblico locale in
modo difforme da quanto previsto dal parametro interposto.
Ne deriva la violazione dell’art. 117, secondo comma, lett. e), Cost.
* Direttore Generale
e Dirigente del Settore Ambiente e Pianificazione Territoriale della Provincia
di Treviso
Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it
il 22/11/2010