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Servizi pubblici locali - Sentenza della Corte Costituzionale n.  325/2010
 

CARLO RAPICAVOLI*

 


La Corte Costituzionale con sentenza n. 325/2010 del 3 novembre 2010 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 23-bis, comma 10, lettera a), prima parte, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria) – articolo aggiunto dalla legge di conversione 6 agosto 2008, n. 133 – sia nel testo originario, sia in quello modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee), convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, limitatamente alle parole: «l’assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno e».
Ha invece dichiarato inammissibili o non fondate tutte le altre questioni di illegittimità costituzionale sollevate da varie Regioni sull’art. 23-bis, dichiarando viceversa l’illegittimità di alcune norme regionali della Campania e della Liguria.

LE DISPOSIZIONI STATALI ESAMINATE DALLA CORTE
Le disposizioni esaminate dalla Corte introducono novità normative rilevanti nella disciplina delle modalità di affidamento dei servizi pubblici locali (SPL) e del diritto transitorio degli affidamenti già in corso.

In particolare, si prevede che:

a) l’affidamento del SPL in via ordinaria, mediante procedure competitive ad evidenza pubblica, riguarda non solo le società di capitali – come nella previgente normativa – ma, piú in generale, gli «imprenditori o […] società in qualunque forma costituite» (comma 2 del testo originario e del testo vigente dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008);
b) l’affidamento diretto – cioè senza gara ad evidenza pubblica – della gestione del SPL a società miste il cui socio privato sia scelto mediante procedure competitive ad evidenza pubblica costituisce un caso di conferimento della gestione «in via ordinaria», alla duplice condizione che la procedura di gara riguardi non solo la qualità di socio, ma anche l’attribuzione di «specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio» e che al socio privato sia attribuita una partecipazione non inferiore al 40% (comma 2 del testo attualmente vigente dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008);
c) l’affidamento diretto «in deroga» ai conferimenti effettuati in via ordinaria richiede una previa «pubblicità adeguata» e una motivazione di detta scelta da parte dell’ente in base ad un’«analisi di mercato», oltre alla trasmissione di una «relazione» dall’ente affidante alle autorità di settore, ove costituite (testo originario dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008), ovvero all’Autorità garante della concorrenza e del mercato – AGCM (testo vigente dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008), per un parere obbligatorio ma non vincolante, che deve essere reso entro 60 giorni dalla ricezione;
d) l’affidamento diretto deve – ai sensi dei commi 3 e 4 del testo originario dell’art. 23-bis del decreto legge n. 112 del 2008 – «avvenire nel rispetto dei princípi della disciplina comunitaria», con l’ulteriore presupposto che sussistano «situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato»;
e) lo stesso affidamento deve, invece, avvenire – ai sensi dei commi 3 e 4 del testo attualmente vigente del medesimo art. 23-bis – con le forme della gestione in house, nel rispetto delle condizioni richieste dal diritto comunitario, previo parere della sola AGCM, con l’ulteriore presupposto della sussistenza di «situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato»;
f) i bacini di gara per i diversi servizi sono definiti, nel rispetto delle normative settoriali, dalle Regioni e dagli enti locali d’intesa con la Conferenza unificata di cui all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 (comma 7 dell’art. 23-bis, sia nella versione originaria che in quella vigente);
g) è abrogato, nelle parti incompatibili con la nuova disciplina, l’art. 113 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico sugli enti locali), in seguito indicato come TUEL, concernente l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica (comma 11 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, sia nella versione originaria che in quella vigente);
h) il Governo ha il potere di adottare regolamenti di delegificazione sia nelle materie di cui al comma 10 dell’art. 23-bis (come disposto nella versione originaria ed in quella vigente dell’art. 23-bis), sia per la determinazione delle soglie minime oltre le quali gli affidamenti «assumono rilevanza ai fini dell’espressione del parere» dell’AGCM (come disposto dal comma 4-bis nella versione vigente dell’art. 23-bis);
i) gli affidamenti diretti già in essere al momento dell’entrata in vigore della nuova normativa cessano al 31 dicembre 2010 (versione originaria del comma 8 dell’art. 23-bis) o in date successive, a partire dal 31 dicembre 2011, a seconda delle diverse tipologie degli affidamenti stessi (versione vigente del comma 8 dell’art. 23-bis);
j) «Tutte le forme di affidamento della gestione del servizio idrico integrato di cui all’articolo 23-bis del citato decreto-legge n. 112 del 2008 […] devono avvenire nel rispetto dei princípi di autonomia gestionale del soggetto gestore e di piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche, in particolare in ordine alla qualità e prezzo del servizio, in conformità a quanto previsto dal decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, garantendo il diritto alla universalità ed accessibilità del servizio» (comma 1-ter, dell’art. 15 del decreto-legge n. 135 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 166 del 2009).

LE PRINCIPALI QUESTIONI TRATTATE DALLA CORTE COSTITUZIONALE

1. – RAPPORTO CON LA NORMATIVA COMUNITARIA

Il primo tema attiene al rapporto tra le disposizioni censurate e la disciplina dei SPL desumibile dall’ordinamento dell’Unione europea e dalla Carta europea dell’autonomia locale.

Secondo alcune ricorrenti, le suddette disposizioni, ponendosi in contrasto con la normativa comunitaria ed internazionale, violano il primo comma dell’art. 117 Cost., là dove questo vincola la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni al rispetto dell’ordinamento comunitario e degli obblighi internazionali.

Secondo la difesa dello Stato, invece, la stessa formulazione del comma 1 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 («le disposizioni del presente articolo disciplinano l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, in applicazione della disciplina comunitaria […]») evidenzia che le disposizioni oggetto di censura, in particolare quelle relative all’affidamento in house dei servizi pubblici locali, costituiscono un’obbligatoria applicazione del diritto dell’Unione e non contrastano con la citata Carta europea dell’autonomia locale.

Nessuna di tali due opposte prospettazioni viene condivisa dalla Corte, perché le disposizioni censurate dalle ricorrenti non costituiscono né una violazione né un’applicazione necessitata della richiamata normativa comunitaria ed internazionale, ma sono semplicemente con questa compatibili, integrando una delle diverse discipline possibili della materia che il legislatore avrebbe potuto legittimamente adottare senza violare l’evocato primo comma dell’art. 117 Cost.

Tale conclusione viene argomentata procedendo al raffronto delle disposizioni censurate sia con la normativa comunitaria che con quella internazionale evocate a parametro interposto.

In àmbito comunitario non viene mai utilizzata l’espressione «servizio pubblico locale di rilevanza economica», ma solo quella di «servizio di interesse economico generale» (SIEG), rinvenibile, in particolare, negli artt. 14 e 106 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE).

Detti articoli non fissano le condizioni di uso di tale ultima espressione, ma, in base alle interpretazioni elaborate al riguardo dalla giurisprudenza comunitaria (ex multis, Corte di giustizia UE, 18 giugno 1998, C-35/96, Commissione c. Italia) e dalla Commissione europea (in specie, nelle Comunicazioni in tema di servizi di interesse generale in Europa del 26 settembre 1996 e del 19 gennaio 2001; nonché nel Libro verde su tali servizi del 21 maggio 2003), emerge con chiarezza che la nozione comunitaria di SIEG, ove limitata all’àmbito locale, e quella interna di SPL di rilevanza economica hanno «contenuto omologo».

Lo stesso denunciato comma 1 dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 – nel dichiarato intento di disciplinare i «servizi pubblici locali di rilevanza economica» per favorire la piú ampia diffusione dei princípi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti «gli operatori economici interessati alla gestione di servizi pubblici di interesse generale in ambito locale» – conferma tale interpretazione, attribuendo espressamente ai SPL di rilevanza economica un significato corrispondente a quello di «servizi di interesse generale in àmbito locale» di rilevanza economica, di evidente derivazione comunitaria.

Entrambe le suddette nozioni, interna e comunitaria, fanno riferimento infatti ad un servizio che:

a) è reso mediante un’attività economica (in forma di impresa pubblica o privata), intesa in senso ampio, come «qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato» (come si esprimono sia la citata sentenza della Corte di giustizia UE, 18 giugno 1998, C-35/96, Commissione c. Italia, sia le sentenze della stessa Corte 10 gennaio 2006, C-222/04, Ministero dell’economia e delle finanze, e 16 marzo 2004, cause riunite C-264/01, C-306/01, C-354/01 e C-355/01, AOK Bundesverband, nonché il Libro verde sui servizi di interesse generale del 21 maggio 2003, al paragrafo 2.3, punto 44);
b) fornisce prestazioni considerate necessarie (dirette, cioè, a realizzare anche “fini sociali”) nei confronti di una indifferenziata generalità di cittadini, a prescindere dalle loro particolari condizioni (Corte di giustizia UE, 21 settembre 1999, C-67/96, Albany International BV).

Le due nozioni, inoltre, assolvono l’identica funzione di identificare i servizi la cui gestione deve avvenire di regola, al fine di tutelare la concorrenza, mediante affidamento a terzi secondo procedure competitive ad evidenza pubblica.

Per quanto qui interessa, la disciplina comunitaria del SIEG e quella censurata del SPL divergono, invece, in ordine all’individuazione delle eccezioni alla suddetta regola.

Occorre pertanto accertare se le differenze tra le due discipline siano tali da far venir meno, come sostengono le Regioni ricorrenti, la loro compatibilità.

Una prima differenza è rappresentata dalla gestione diretta del SPL da parte dell’autorità pubblica. La normativa comunitaria la ammette nel caso in cui lo Stato nazionale ritenga che l’applicazione delle regole di concorrenza (e, quindi, anche della regola della necessità dell’affidamento a terzi mediante una gara ad evidenza pubblica) ostacoli, in diritto od in fatto, la «speciale missione» dell’ente pubblico (art. 106 TFUE; ex plurimis, sentenze della Corte di giustizia UEE 11 gennaio 2005, C-26/03, Stadt Halle, punti 48 e 49, e 10 settembre 2009, C-573/07, Sea s.r.l.).
In tale ipotesi l’ordinamento comunitario, rispettoso dell’ampia sfera discrezionale attribuita in proposito agli Stati membri, si riserva solo di sindacare se la decisione dello Stato sia frutto di un “errore manifesto”.

La censurata disciplina nazionale, invece, rappresenta uno sviluppo del diverso principio generale costituito dal divieto della gestione diretta del SPL da parte dell’ente locale; divieto introdotto dai non censurati art. 35 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2002) e art. 14 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326.

Da quanto precede, è dunque evidente che:

a) la normativa comunitaria consente, ma non impone, agli Stati membri di prevedere, in via di eccezione e per alcuni casi determinati, la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell’ente locale;
b) lo Stato italiano, facendo uso della sfera di discrezionalità attribuitagli dall’ordinamento comunitario al riguardo, ha effettuato la sua scelta nel senso di vietare di regola la gestione diretta dei SPL ed ha, perciò, emanato una normativa che pone tale divieto.

Una seconda differenza riguarda l’affidamento della gestione del servizio alle società miste, cioè con capitale in parte pubblico ed in parte privato (cosiddetto PPP, partenariato pubblico e privato).

La normativa comunitaria consente l’affidamento diretto del servizio (cioè senza una gara ad evidenza pubblica per la scelta dell’affidatario) alle società miste nelle quali si sia svolta una gara ad evidenza pubblica per la scelta del socio privato e richiede sostanzialmente che tale socio sia un socio «industriale» e non meramente «finanziario» (in tal senso, in particolare, il Libro verde della Commissione del 30 aprile 2004), senza espressamente richiedere alcun limite, minimo o massimo, della partecipazione del socio privato.

Il testo originario dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 non prevede una disciplina specifica per tale tipo di affidamento e dà per scontato che la suddetta modalità di scelta del socio rientri nella regola comunitaria dell’affidamento mediante gara ad evidenza pubblica, restando irrilevante che tale gara abbia ad oggetto la scelta del socio privato invece dell’affidatario.

La disciplina interna e quella comunitaria sul punto sono, dunque, identiche.

Anche il testo vigente dello stesso art. 23-bis è conforme alla normativa comunitaria, nella parte in cui consente l’affidamento diretto della gestione del servizio,«in via ordinaria», ad una società mista, alla doppia condizione che la scelta del socio privato «avvenga mediante procedure competitive ad evidenza pubblica» e che a tale
socio siano attribuiti «specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio» (cosiddetta gara ad evidenza pubblica a doppio oggetto: scelta del socio e attribuzione degli specifici compiti operativi).

La stessa nuova formulazione dell’art. 23-bis si discosta, però, dal diritto comunitario nella parte in cui pone l’ulteriore condizione, al fine del suddetto affidamento diretto, che al socio privato sia attribuita «una partecipazione non inferiore al 40 per cento».

Tale misura minima della partecipazione (non richiesta dal diritto comunitario, come sopra ricordato, ma neppure vietata) si risolve in una restrizione dei casi eccezionali di affidamento diretto del servizio e, quindi, la sua previsione perviene al risultato di far espandere i casi in cui deve essere applicata la regola generale comunitaria di affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica. Ne consegue, anche in questo caso, la piena compatibilità della
normativa interna con quella comunitaria.

Una terza differenza attiene alle ipotesi di affidamento diretto del servizio «in deroga» alle ipotesi di affidamento in via ordinaria (versione originaria dell’art. 23-bis), che si identificano nella gestione denominata in house (come chiarito dalla versione vigente dello stesso art. 23-bis).

Secondo la normativa comunitaria, le condizioni integranti tale tipo di gestione ed alle quali è subordinata la possibilità del suo affidamento diretto (capitale totalmente pubblico; controllo esercitato dall’aggiudicante sull’affidatario di «contenuto analogo» a quello esercitato dall’aggiudicante stesso sui propri uffici; svolgimento della parte piú importante dell’attività dell’affidatario in favore dell’aggiudicante) debbono essere interpretate restrittivamente, costituendo l’in house providing un’eccezione rispetto alla regola generale dell’affidamento a terzi mediante gara ad evidenza pubblica.

Tale eccezione viene giustificata dal diritto comunitario con il rilievo che la sussistenza delle suddette condizioni esclude che l’in house contract configuri, nella sostanza, un rapporto contrattuale intersoggettivo tra aggiudicante ed affidatario, perché quest’ultimo è, in realtà, solo la longa manus del primo. Nondimeno, la giurisprudenza comunitaria non pone ulteriori requisiti per procedere a tale tipo di affidamento diretto, ma si limita a chiarire via via la concreta portata delle suddette tre condizioni.

Viceversa, il legislatore nazionale, nella versione vigente dell’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, non soltanto richiede espressamente, per l’affidamento diretto in house, la sussistenza delle suddette tre condizioni poste dal diritto comunitario, ma esige il concorso delle seguenti ulteriori condizioni:
a) una previa «pubblicità adeguata» e una motivazione della scelta di tale tipo di affidamento da parte dell’ente in base ad un’«analisi di mercato», con successiva trasmissione di una «relazione» dall’ente affidante alle autorità di settore, ove costituite (testo originario dell’art. 23-bis), ovvero all’AGCM (testo vigente dell’art. 23-bis), per un parere preventivo e obbligatorio, ma non vincolante, che deve essere reso entro 60 giorni dalla ricezione;
b) la sussistenza di «situazioni che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento» (commi 3 e 4 del testo originario dell’art. 23-bis), ovvero di «situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento» (commi 3 e 4 del testo vigente del medesimo art. 23-bis), «non permettono un efficace ed utile ricorso al mercato».

Siffatte ulteriori condizioni, sulle quali si appuntano particolarmente le censure delle ricorrenti, si risolvono in una restrizione delle ipotesi in cui è consentito il ricorso alla gestione in house del servizio e, quindi, della possibilità di derogare alla regola comunitaria concorrenziale dell’affidamento del servizio stesso mediante gara pubblica.

Ciò comporta, evidentemente, un’applicazione piú estesa di detta regola comunitaria, quale conseguenza di una precisa scelta del legislatore italiano.

Tale scelta, proprio perché reca una disciplina pro concorrenziale piú rigorosa rispetto a quanto richiesto dal diritto comunitario, non è da questo imposta – e, dunque, non è costituzionalmente obbligata, ai sensi del primo comma dell’art. 117 Cost., come sostenuto dallo Stato –, ma neppure si pone in contrasto – come sostenuto, all’opposto, dalle ricorrenti – con la citata normativa comunitaria, che, in quanto diretta a favorire l’assetto concorrenziale del mercato, costituisce solo un minimo inderogabile per gli Stati membri. È infatti innegabile l’esistenza di un “margine di apprezzamento” del legislatore nazionale rispetto a princípi di tutela, minimi ed indefettibili, stabiliti dall’ordinamento comunitario con riguardo ad un valore ritenuto meritevole di specifica protezione, quale la tutela della concorrenza “nel” mercato e “per” il mercato.

Ne deriva, in particolare, che al legislatore italiano non è vietato adottare una disciplina che preveda regole concorrenziali – come sono quelle in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento di servizi pubblici – di applicazione piú ampia rispetto a quella richiesta dal diritto comunitario. L’identità del “verso” delle discipline interna e
comunitaria esclude, pertanto, ogni contrasto od incompatibilità anche per quanto riguarda la indicata terza differenza.


2. – COMPETENZA STATALE O REGIONALE

Il secondo tema attiene all’individuazione della sfera di competenza in cui, secondo la Costituzione, deve collocarsi la normativa denunciata. In particolare, la Corte ha verificato se tale normativa rientra nell’àmbito costituzionale della competenza esclusiva statale e, segnatamente, della tutela della concorrenza; o di quello della competenza regionale residuale e, segnatamente, della materia dei servizi pubblici locali; o, ancora, nell’àmbito della potestà regolamentare degli enti locali di cui all’art. 117, sesto comma, Cost.; o, infine, se si tratti di un’ipotesi di concorso di competenze.

In proposito, la Corte ha ribadito che la disciplina concernente le modalità dell’affidamento della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica:
a) non è riferibile alla competenza legislativa statale in tema di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» (art. 117, secondo comma, lettera m, Cost.), perché riguarda, appunto, i servizi di rilevanza economica e non attiene, comunque, alla determinazione di livelli essenziali (sentenza n. 272 del 2004);
b) non può essere ascritta neppure all’àmbito delle «funzioni fondamentali dei Comuni, delle Province e Città metropolitane» (art. 117, secondo comma, lettera p, Cost.), perché «la gestione dei predetti servizi non può certo considerarsi esplicazione di una funzione propria ed indefettibile dell’ente locale» (sentenza n. 272 del 2004) e, quindi, «non riguarda […] profili funzionali degli enti locali» (sentenza n. 307 del 2009, al punto 6.1.);
c) va ricondotta, invece, all’àmbito della materia, di competenza legislativa esclusiva dello Stato, «tutela della concorrenza», prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., tenuto conto degli aspetti strutturali e funzionali suoi propri e della sua diretta incidenza sul mercato (ex plurimis, sentenze n. 314, n. 307, n. 304 e n. 160 del 2009; n. 326 del 2008; n. 401 del 2007; n. 80 e n. 29 del 2006; n. 272 del 2004).

Di conseguenza, con riguardo alla concreta disciplina censurata, la competenza statale viene a prevalere sulle invocate competenze legislative regionali e regolamentari degli enti locali e, in particolare, su quella in materia di servizi pubblici locali, proprio perché l’oggetto e gli scopi che caratterizzano detta disciplina attengono in via primaria alla tutela e alla promozione della concorrenza (sentenze n. 142 del 2010, n. 246 e n. 148 del 2009, n. 411 e n. 322 del 2008).

Tali conclusioni risultano avvalorate dalla «nozione comunitaria di concorrenza», che si riflette su quella di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., anche per il tramite del primo comma dello stesso art. 117 e dell’art. 11 Cost.; nozione richiamata anche dall’art. 1, comma 4, della legge 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato).

Secondo tale nozione, la concorrenza presuppone «la piú ampia apertura al mercato a tutti gli operatori economici del settore in ossequio ai principi comunitari della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi» (sentenza n. 401 del 2007). Essa pertanto – come affermato in numerose pronunce della Corte (sentenze n. 270, n. 232 e n. 45 del 2010; n. 314 del 2009 e n. 148 del 2009; n. 63 del2008; n. 430 e n. 401 del 2007; n. 272 del 2004) – può essere tutelata mediante tipi diversi di interventi regolatori, quali:
1) «misure legislative di tutela in senso proprio, che hanno ad oggetto gli atti ed i comportamenti delle imprese che influiscono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati» (misure antitrust);
2) misure legislative di promozione, «che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese» (per lo piú dirette a tutelare la concorrenza “nel” mercato);
3) misure legislative che perseguono il fine di assicurare procedure concorsuali di garanzia mediante la strutturazione di tali procedure in modo da realizzare «la piú ampia apertura del mercato a tutti gli operatori economici» (dirette a tutelare la concorrenza “per” il mercato).

Nell’àmbito di tali misure e, in particolare, di quelle al punto 3), rientra espressamente la previsione di procedure concorsuali competitive di evidenza pubblica volte – come quelle di specie – a garantire il rispetto, per un verso, dei princípi di parità di trattamento, di non discriminazione, di proporzionalità e di trasparenza e, per l’altro, delle regole dell’efficacia e dell’efficienza dell’attività dei pubblici poteri, al fine di assicurare la piena attuazione degli interessi pubblici in relazione al bene o al servizio oggetto dell’aggiudicazione.

Anche tali rilievi, basati sul diritto comunitario, confermano pertanto che la disciplina delle modalità di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali rientra nella materia «tutela della concorrenza» e che la concreta disciplina in esame prevale su altre competenze (sentenze n. 270 del 2010; n. 307 e n. 283 del 2009; n. 320 e n. 51 del
2008; n.430 e n. 401 del 2007; n. 272 del 2004).

Con riferimento, poi, allo specifico settore del servizio idrico integrato, la Corte – in applicazione dei suddetti princípi e scrutinando la disciplina della determinazione della tariffa d’àmbito territoriale ottimale − ha stabilito che la normativa riguardante l’individuazione di un’unica Autorità d’àmbito e alla determinazione della tariffa del servizio secondo un meccanismo di price cap (art. 148 del d.lgs. n. 152 del 2006) attiene all’esercizio delle competenze legislative esclusive statali nelle materie della tutela della concorrenza (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.) e dell’ambiente (art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.), materie che hanno prevalenza su eventuali competenze regionali, che ne risultano cosí corrispondentemente limitate.

Ciò in quanto tale disciplina, finalizzata al superamento della frammentazione della gestione delle risorse idriche, consente la razionalizzazione del mercato ed è quindi diretta a garantire la concorrenzialità e l’efficienza del mercato stesso (sentenze n. 142 e n. 29 del 2010; n. 246 del 2009).

Nella citata sentenza n. 246 del 2009 è stato ulteriormente precisato che la forma di gestione del servizio idrico integrato e le procedure di affidamento dello stesso, disciplinate dall’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006, sono da ricondurre alla materia della tutela della concorrenza, di competenza legislativa esclusiva statale, trattandosi di regole «dirette ad assicurare la concorrenzialità nella gestione del servizio idrico integrato, disciplinando le modalità del suo conferimento e i requisiti soggettivi del gestore, al precipuo scopo di garantire la trasparenza, l’efficienza, l’efficacia e l’economicità della gestione medesima».

In conclusione, secondo la giurisprudenza costituzionale, le regole che concernono l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica − ivi compreso il servizio idrico – ineriscono essenzialmente alla materia «tutela della concorrenza», di competenza esclusiva statale, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost.


3. – PRINCIPIO DI RAGIONEVOLEZZA

Il terzo tema, posto dalle questioni promosse dalle Regioni in ordine alle censurate discipline sia a regime che transitorie, attiene al principio di ragionevolezza.

Al riguardo, le ricorrenti richiamano la giurisprudenza costituzionale, secondo cui l’esercizio della potestà normativa esclusiva dello Stato in tema di tutela della concorrenza è legittimo – in particolare, in caso di concorso con competenze regionali – alla condizione del rispetto, da parte del legislatore statale, del principio di ragionevolezza, sotto il profilo della proporzionalità e dell’adeguatezza (sentenza n. 272 del 2004, cui possono aggiungersi le sentenze n. 148 del 2009; n. 326 del 2008; n. 452 e n. 401 del 2007; n. 345, n. 272 del 2004).

Per quanto riguarda la disciplina a regime, alcune ricorrenti assumono che essa, anche se ascrivibile alla materia «tutela della concorrenza», lede comunque la competenza residuale innominata delle Regioni in materia di servizi pubblici locali.

In particolare, le ricorrenti deducono che la normativa censurata, nella parte in cui limita i casi in cui è consentito l’affidamento diretto in house, non è ragionevole, proporzionale o adeguata, perché:
a) è normativa autoapplicativa e di dettaglio;
b) pone vincoli ulteriori – e perciò ingiustificati – rispetto a quelli previsti dall’ordinamento comunitario per l’affidamento in house.

Nessuno di tali rilievi è condiviso dalla Corte.

Quanto al primo rilievo, la Corte sostiene che l’emanazione, nell’esercizio di una competenza esclusiva dello Stato, di una norma auto applicativa e di dettaglio non integra alcuna violazione dei criteri di riparto costituzionale delle competenze legislative.

Al riguardo, la Corte ribadisce che:

a) «l’attribuzione delle misure [a tutela della concorrenza] alla competenza legislativa esclusiva dello Stato comporta sia l’inderogabilità delle disposizioni nelle quali si esprime, sia che queste legittimamente incidono, nei limiti della loro specificità e dei contenuti normativi che di esse sono proprie, sulla totalità degli àmbiti materiali entro i quali si applicano»;
b) una volta ricondotta una norma nell’àmbito della «tutela della concorrenza», «non si tratta […] di valutare se essa sia o meno di estremo dettaglio, utilizzando princípi e regole riferibili alla disciplina della competenza legislativa concorrente delle Regioni, ma occorre invece accertare se, alla stregua del succitato scrutinio, la disposizione sia strumentale ad eliminare limiti e barriere all’accesso al mercato ed alla libera esplicazione della capacità imprenditoriale».

Neppure può affermarsi – come sostenuto da alcune ricorrenti – che le norme sull’affidamento e le modalità di gestione dei servizi pubblici locali sono di per sé irragionevoli, perché intervengono in materia di tutela della concorrenza con discipline di dettaglio e autoapplicative.

Infatti la Corte ha piú volte rilevato che è ragionevole che norme in materia di tutela della concorrenza, al fine di meglio tutelare le finalità pro concorrenziali loro proprie, possano essere dettagliate ed autoapplicative (sentenze n.
148 del 2009; n. 320 del 2008; n. 431 del 2007).

Quanto al secondo profilo, non viene accolto l’assunto delle ricorrenti, secondo cui l’unica disciplina della concorrenza che possa considerarsi proporzionale e adeguata è quella che non pone limiti (che non siano quelli evidenziati dalla giurisprudenza comunitaria) all’affidamento in house di servizi pubblici locali di rilevanza economica.

Al riguardo, va innanzitutto osserva la Corte che non appare irragionevole, anche se non costituzionalmente obbligata, una disciplina, quale quella di specie, intesa a restringere ulteriormente – rispetto al diritto comunitario – i casi di affidamento diretto in house (cioè i casi in cui l’affidatario costituisce la longa manus di un ente pubblico che lo controlla pienamente e totalmente).

Tale normativa si innesta coerentemente in un sistema normativo interno in cui già vige il divieto della gestione diretta mediante azienda speciale o in economia (introdotto dai non censurati artt. 35 della legge n. 448 del 2001 e 14 del decreto-legge n. 269 del 2003) e nel quale, pertanto, i casi di affidamento in house, quale modello organizzativo succedaneo della (vietata) gestione diretta da parte dell’ente pubblico, debbono essere eccezionali e tassativamente previsti.

In secondo luogo, la Corte rileva che le norme censurate dalle ricorrenti non possono essere considerate sproporzionate od inadeguate solo perché, attraverso la riduzione delle ipotesi di eccezionale affidamento diretto dei servizi pubblici locali, rafforzano la generale regola pro concorrenziale, prescelta dal legislatore, che impone l’obbligo di procedere all’affidamento solo mediante procedure competitive ad evidenza pubblica.

La possibilità, secondo l’ordinamento comunitario, di affidamenti in house anche in casi in cui detti affidamenti sono vietati dalle denunciate disposizioni nazionali non rende queste ultime irragionevoli in relazione agli indicati profili, perché l’ordinamento comunitario, in tema di tutela della concorrenza e, in particolare, in tema di affidamento della gestione dei servizi pubblici, costituisce solo un minimo inderogabile per il legislatore degli Stati membri e, pertanto, non osta a che la legislazione interna disciplini piú rigorosamente, nel senso di favorire l’assetto concorrenziale di un mercato, le modalità di tale affidamento.

Pertanto, il legislatore nazionale ha piena libertà di scelta tra una pluralità di discipline ugualmente legittime.

In terzo luogo, secondo la Corte deve essere sottolineato che la normativa censurata non impedisce del tutto all’ente pubblico la gestione di un servizio locale di rilevanza economica, negandogli ogni possibilità di svolgere la sua «speciale missione» pubblica (come si esprime il diritto comunitario), ma trova, tra i molti possibili, un punto di equilibrio rispetto ai diversi interessi operanti nella materia in esame. In proposito, va ricordato che, secondo la giurisprudenza della Corte, la sfera di autonomia privata e la concorrenza non ricevono «dall’ordinamento una protezione assoluta» e possono, quindi, subire limitazioni ed essere sottoposte al coordinamento necessario «a consentire il soddisfacimento contestuale di una pluralità di interessi costituzionalmente rilevanti» (sentenza n. 279 del 2006; analogamente, ordinanza n. 162 del 2009).

La stessa giurisprudenza ha tuttavia evidenziato che «una regolazione strumentale a garantire la tutela anche di interessi diversi rispetto a quelli correlati all’assetto concorrenziale del mercato garantito» ha carattere «derogatorio e per ciò stesso eccezionale» e deve costituire «la sola misura in grado di garantire al giusto la tutela di quegli interessi» (sentenza n. 270 del 2010).

Nella specie, intendendo contemperare la regola della massima tutela della concorrenza con le eccezioni derivanti dal concorrenza; dall’altro, quello specifico degli enti locali a gestire il SPL (tramite l’affidamento in house) nell’ipotesi in cui sia «efficace ed utile» il ricorso al mercato e non solo quando esso non sia possibile.

Il bilanciamento tra tali interessi è stato attuato, in concreto, in modo non irragionevole, per un verso, consentendo alle società a capitale (interamente o parzialmente) pubblico, quando non ricorrano le condizioni per l’affidamento diretto, di partecipare alle gare ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione del servizio, al pari di ogni altro imprenditore o società (comma 1 dell’art. 23-bis); per altro verso, limitando l’affidamento in house alle ipotesi in cui, pur in presenza di un SPL di rilevanza economica, il ricorso al mercato per la gestione del servizio non è «efficace e utile» (comma 2 dell’art. 23-bis).

Ciò è confermato dal comma 2 dell’art. 3 del d.P.R. 7 settembre 2010, n. 168 (Regolamento in materia di servizi pubblici locali di rilevanza economica, a norma dell’articolo 23-bis, comma 10, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133), il quale stabilisce espressamente che le «società a capitale interamente pubblico possono partecipare alle procedure competitive ad evidenza pubblica di cui all’articolo 23-bis, comma 2, lettera a), sempre che non vi siano specifici divieti previsti dalla legge».

Tali conclusioni relative alla disciplina a regime influiscono sulla soluzione della questione posta dalle ricorrenti circa l’adeguatezza e la proporzionalità − dunque, la ragionevolezza − del regime transitorio stabilito dalla normativa denunciata.

La relativa censura non può essere accolta secondo la Corte, oltre che per le considerazioni generali svolte nel punto precedente, anche per i seguenti ulteriori argomenti, concernenti specificamente la disciplina transitoria.

Al riguardo, anche a non voler considerare che, in caso di successione di leggi, il legislatore ha ampia discrezionalità di modulare nel tempo la disciplina introdotta, con l’unico limite della ragionevolezza (ex plurimis, sentenza n. 376 del 2008; ordinanze n. 40 del 2009 e n. 9 del 2006), va comunque rilevato che, nel caso di specie, il margine temporale concesso dalla normativa censurata per la cessazione degli affidamenti diretti esistenti è congruo e proporzionato all’entità ed agli effetti delle modifiche normative introdotte e, dunque, ragionevole.

A tale conclusione si perviene agevolmente considerando la seguente successione cronologica delle disposizioni di legge oggetto di censura.

Con riferimento al servizio idrico integrato, il comma 8 del testo originario dell’art. 23-bis (entrato in vigore il 22 agosto 2008) prevedeva la cessazione alla data del 31 dicembre 2010 delle concessioni per le quali non sussistevano le peculiari caratteristiche di cui al comma 3.
Con riferimento ai settori diversi dal servizio idrico integrato, lo stesso comma demandava la fissazione di una disciplina transitoria ai regolamenti di delegificazione da adottare ai sensi della lettera e) del comma 10, ma che non sono stati mai emanati. Il vigente comma 8 dell’art. 23-bis (entrato in vigore il 26 settembre 2009) disciplina ora il regime transitorio degli affidamenti non conformi a quanto previsto dai commi 2 e 3 dello stesso articolo, con una cadenza differenziata, a seconda delle varie ipotesi, a partire dal 31 dicembre 2010 e sino al 31 dicembre 2012, termine, quest’ultimo, successivamente modificato, a decorrere dal 25 novembre 2009, in quello del 31 dicembre 2015.

Tali ampi margini temporali assicurano una concreta possibilità di attenuare le conseguenze economiche negative della cessazione anticipata della gestione e, pertanto, escludono la possibilità di invocare quell’incolpevole affidamento del gestore nella durata naturale del contratto di servizio che, solo, potrebbe determinare una possibile irragionevolezza della norma.


4. – DETERMINAZIONE DELLA RILEVANZA ECONOMICA DEI SPL


Il quarto tema trattato attiene all’individuazione della competenza legislativa regionale o statale nella determinazione della rilevanza economica dei SPL.

Infatti, una volta accertato che la disciplina delle modalità di affidamento della gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica rientra nell’àmbito della competenza legislativa esclusiva dello Stato, resta ancora da verificare se allo Stato competa, in via esclusiva, anche il potere di indicare le condizioni per le quali debba ritenersi sussistente detta «rilevanza economica» oppure se la decisione di attribuire al servizio locale una siffatta qualificazione sia riservata, dal diritto comunitario o comunque dalla Costituzione, alla Regione od all’ente locale.

A tal fine è necessario, innanzitutto, valutare la portata della nozione di «rilevanza economica» nel sistema della normativa statale sui SPL; successivamente, individuare il fondamento costituzionale di tale nozione e, infine, trarre le conclusioni in ordine alla competenza a determinare la sussistenza dell’indicata «rilevanza».

Quanto al primo profilo, la Corte osserva che né il censurato art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, in entrambe le sue versioni, né l’art. 113 TUEL, nel disciplinare l’affidamento e la gestione dei servizi pubblici locali «di rilevanza economica», forniscono una esplicita definizione di tale «rilevanza».

Tuttavia, lo stesso art. 23-bis fornisce all’interprete alcuni elementi utili per giungere a tale definizione, precisando che:
a) l’articolo ha come fine (tra l’altro) di favorire la piú ampia diffusione dei princípi di concorrenza, di libertà di stabilimento e di libera prestazione dei servizi di tutti «gli operatori economici interessati alla gestione di servizi pubblici di interesse generale in ambito locale» (comma 1);
b) la presenza di situazioni tali da non permettere – in relazione alle caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento – «un efficace ed utile ricorso al mercato del servizio», non rende il servizio stesso privo di rilevanza economica, ma ne consente solo l’affidamento della gestione con modalità derogatorie rispetto a quelle ordinarie (comma 3);
c) la «rilevanza economica» dei servizi non ha nulla a che vedere con le soglie oltre le quali gli affidamenti dei medesimi servizi «assumono rilevanza» ai fini dell’espressione del parere preventivo che l’AGCM deve rendere in ordine alla scelta dell’ente locale di affidare la gestione di un servizio pubblico «di rilevanza economica» secondo modalità derogatorie rispetto a quelle ordinarie (commi 4 e 4-bis, nella versione vigente).

Dall’evidente omologia posta da tale articolo tra «servizi pubblici locali di rilevanza economica» e «servizi pubblici di interesse generale in ambito locale» si desume, innanzitutto, che la nozione di «servizio pubblico locale di rilevanza economica» rimanda a quella, piú ampia, di «servizio di interesse economico generale» (SIEG), impiegata nell’ordinamento comunitario.

Del resto, la Corte, con la sentenza n. 272 del 2004, aveva già sottolineato l’omologia esistente anche tra la nozione di «rilevanza economica», utilizzata nell’art. 113-bis TUEL (relativo ai servizi pubblici locali «privi di rilevanza economica» e dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla stessa sentenza), e quella comunitaria di «interesse economico generale», interpretata anche dalla Commissione europea nel Libro verde sui servizi di interesse generale del 21 maggio 2003.
In particolare, secondo le indicazioni fornite dalla giurisprudenza comunitaria e dalla Commissione europea, per «interesse economico generale» si intende un interesse che attiene a prestazioni dirette a soddisfare i bisogni di una indifferenziata generalità di utenti e, al tempo stesso, si riferisce a prestazioni da rendere nell’esercizio di un’attività economica, cioè di una «qualsiasi attività che consista nell’offrire beni o servizi su un determinato mercato», anche potenziale (sentenza Corte di giustizia UE, 18 giugno 1998, causa C-35/96, Commissione c. Italia, e Libro verde sui servizi di interesse generale del 21 maggio 2003, § 2.3, punto 44) e, quindi, secondo un metodo economico, finalizzato a raggiungere, entro un determinato lasso di tempo, quantomeno la copertura dei costi.

Si tratta dunque di una nozione oggettiva di interesse economico, riferita alla possibilità di immettere una specifica attività nel mercato corrispondente, reale o potenziale.

Se si ragiona sulla base di una siffatta ampia nozione comunitaria di interesse economico, è agevole rilevare che gli indici empirici di tale interesse – come lo scopo lucrativo, l’assunzione dei rischi dell’attività, l’incidenza del finanziamento pubblico – talvolta impiegati dalla Corte di giustizia UE (sentenza 22 maggio 2003, C-18/2001, Korhonen e.a.) e richiamati anche da questa Corte (sentenza n. 272 del 2004) possono essere utili solo con riferimento ad un servizio già esistente sul mercato, per accertare se l’attività svolta sia da considerare economica.

Ciò però non significa che l’economicità dell’interesse si debba determinare ex post, esclusivamente in base a tali indici, e cioè a séguito di una scelta discrezionale dell’ente locale competente circa le modalità di gestione del servizio.

Al contrario, nel diverso caso in cui si debba immettere nel mercato un servizio pubblico – e, quindi, si debba accertare se e come applicare le regole concorrenziali e concorsuali comunitarie per l’affidamento della sua gestione – occorre necessariamente prendere in considerazione la possibilità dell’apertura di un mercato, obiettivamente valutata secondo un giudizio di concreta realizzabilità, a prescindere da ogni soggettiva determinazione dell’ente al riguardo.

È vero che il diritto comunitario lascia qualche spazio in materia alla scelta degli Stati membri, riservando loro, sia pure in via di eccezione, il potere di derogare alle regole del Trattato relative alla concorrenza e agli aiuti di Stato, ove tali regole – salvo errori manifesti da parte degli Stati stessi – siano ritenute ostative al perseguimento della speciale missione e delle finalità sociali del servizio.

Tuttavia, il potere di deroga presuppone la sussistenza dell’interesse economico del servizio stesso, esercitandosi tale potere proprio nell’àmbito dei SIEG, e cioè di servizi che sono, per definizione ed obiettivamente, di
«interesse economico» perché idonei ad influenzare un assetto concorrenziale in atto o in fieri.

Analogamente a quanto visto a proposito del diritto comunitario, le disposizioni censurate non fanno esclusivo riferimento ad un servizio locale operante in un mercato già esistente, ma riguardano servizi dotati di mera «rilevanza» economica e, quindi, anche servizi ancora da organizzare e da immettere sul mercato.

Infatti, esse, in armonia con l’indicata nozione comunitaria di interesse economico, evidenziano le due seguenti fondamentali caratteristiche della nozione di «rilevanza» economica:
a) che l’immissione del servizio possa avvenire in un mercato anche solo potenziale, nel senso che, per l’applicazione dell’art. 23-bis, è condizione sufficiente che il gestore possa immettersi in un mercato ancora non esistente, ma che abbia effettive possibilità di aprirsi e di accogliere, perciò, operatori che agiscano secondo criteri di economicità;
b) che l’esercizio dell’attività avvenga con metodo economico, nel senso che essa, considerata nella sua globalità, deve essere svolta in vista quantomeno della copertura, in un determinato periodo di tempo, dei costi mediante i ricavi (di qualsiasi natura questi siano, ivi compresi gli eventuali finanziamenti pubblici).

Tale impostazione − consequenziale alla scelta legislativa di promuovere la concorrenza “per” il mercato della gestione dei servizi – emerge nettamente, in particolare, dai commi 3, 4 e 4-bis, dell’art. 23-bis, i quali possono essere interpretati soltanto nel senso che i servizi pubblici locali non cessano di avere «rilevanza economica» per il solo fatto che sia formulabile una prognosi di inefficacia o inutilità del semplice ricorso al mercato, con riferimento agli obiettivi pubblici perseguiti dall’ente locale.

Evidentemente, anche per il legislatore nazionale, come per quello comunitario, la rilevanza economica sussiste pure quando, per superare le particolari difficoltà del contesto territoriale di riferimento e garantire prestazioni di qualità anche ad una platea di utenti in qualche modo svantaggiati, non sia sufficiente l’automaticità del mercato, ma sia necessario un pubblico intervento o finanziamento compensativo degli obblighi di servizio pubblico posti a carico del gestore, sempre che sia concretamente possibile creare un «mercato a monte», e cioè un mercato «in cui le imprese contrattano con le autorità pubbliche la fornitura di questi servizi» agli utenti.

Dall’evidenziata portata oggettiva delle nozioni in esame e dalla indicata sufficienza di un mercato solo potenziale consegue l’erroneità delle interpretazioni volte a dare alle medesime nozioni un carattere meramente soggettivo e, in particolare, di quell’interpretazione – fatta propria da alcune ricorrenti – secondo cui si avrebbe rilevanza economica solo alla duplice condizione che un mercato del servizio sussista effettivamente e che l’ente locale decida a sua discrezione di finanziare il servizio con gli utili ricavati dall’esercizio di impresa in quel mercato.

Quanto al secondo profilo esaminato, relativo al fondamento costituzionale della legge statale che fissa il contenuto della suddetta nozione oggettiva di «rilevanza economica», la Corte afferma che va preso atto che detta nozione, al pari di quella omologa di «interesse economico» propria del diritto comunitario, va utilizzata, nell’àmbito della disciplina del mercato dei servizi pubblici, quale criterio discretivo per l’applicazione delle norme concorrenziali e concorsuali comunitarie in materia di affidamento della gestione di tali servizi (come, del resto, esplicitamente affermato dal comma 1 dell’art. 23-bis).

Ne deriva che, proprio per tale suo àmbito di utilizzazione, la determinazione delle condizioni di rilevanza economica è riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in tema di «tutela della concorrenza», ai sensi del secondo comma, lettera e), dell’art. 117 Cost. Poiché l’ordinamento comunitario esclude che gli Stati membri, ivi
compresi gli enti infrastatuali, possano soggettivamente e a loro discrezione decidere sulla sussistenza dell’interesse economico del servizio, conseguentemente il legislatore statale si è adeguato a tale principio dell’ordinamento comunitario nel promuovere l’applicazione delle regole concorrenziali e ha escluso che gli enti infrastatuali possano
soggettivamente e a loro discrezione decidere sulla sussistenza della rilevanza economica del servizio (rilevanza che, come piú volte sottolineato, corrisponde per il diritto interno all’interesse economico considerato dal diritto comunitario).

5. – VIOLAZIONE DELL’OBBLIGO DI MOTIVAZIONE

Il quinto tema affrontato si riferisce alla dedotta violazione degli artt. 3 e 97 Cost., sotto il profilo dell’obbligo di motivazione degli atti amministrativi.

In particolare, la Regione Piemonte impugna i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis, sia nel testo originario (ricorso n. 77 del 2008) che nel testo vigente (ricorso n. 16 del 2010), sul rilievo che essi violano gli evocati parametri, perché:
a) la disciplina dell’affidamento del servizio pubblico locale nella forma organizzativa dell’in house providing contenuta nelle disposizioni censurate risulta lesiva della «competenza delle regioni e degli enti locali ove la s’intenda come disciplina ulteriore rispetto a quella generale sul procedimento amministrativo che da tempo prevede il dovere di motivazione degli atti amministrativi (art. 3, legge 7 agosto 1990, n. 241), secondo molti posto in attuazione del principio costituzionale di motivazione delle scelte della amministrazioni pubbliche quanto meno nella cura di pubblici interessi»;
b) «non è ravvisabile nel caso in esame alcun interesse pubblico prevalente capace di fondare sia l’esenzione dal generale dovere di motivazione per l’affidamento ad imprese terze (art. 23-bis, secondo comma), sia viceversa la limitazione dei casi sui quali può essere portata la motivazione a fondamento di altre soluzioni organizzative».

La ricorrente lamenta, in sostanza, che le norme impugnate stabiliscono per l’ente affidante l’obbligo di motivare, in base ad un’analisi di mercato, solo la scelta di procedere all’affidamento in house del servizio pubblico (art. 23-bis, comma 3) e non quella di procedere all’affidamento mediante procedure competitive ad evidenza pubblica (art. 23-bis, comma 2); obbligo che sarebbe in contrasto con gli evocati parametri, perché ulteriore rispetto al generale obbligo di motivazione degli atti amministrativi.

La questione è dichiarata inammissibile.

Secondo la giurisprudenza della Corte, le Regioni sono legittimate a censurare le leggi dello Stato, mediante impugnazione in via principale, esclusivamente per questioni attinenti alla lesione del sistema di riparto delle competenze legislative, ammettendosi la deducibilità di altri parametri costituzionali soltanto ove la loro violazione comporti una compromissione delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite (ex plurimis, sentenze n. 156 e n. 52 del 2010; n. 289 e n. 216 del 2008).
Ne deriva – in relazione al caso di specie – l’inammissibilità della questione proposta, perché la prospettata violazione dell’obbligo di motivazione di cui agli artt. 3 e 97 Cost. non comporta una compromissione delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite, né ridonda sul riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni. E ciò, a prescindere dalla considerazione che i parametri evocati non vietano che il legislatore stabilisca specifici obblighi di motivazione per le sole deroghe fondate sulle peculiari situazioni di fatto di cui al comma 3 e non per le situazioni ordinarie di cui al comma 2.

6. – IRRAGIONEVOLE DIVERSITÀ DI DISCIPLINA TRA IL SERVIZIO IDRICO E GLI ALTRI SPL

Il sesto tema riguarda l’asserita irragionevole diversità di disciplina fra il servizio idrico integrato e gli altri servizi pubblici locali.

La Regione Piemonte (ricorso n. 77 del 2008) censura – sempre in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. – il comma 10 dell’art. 23-bis, nel testo originario, sul rilievo che esso rinvia a regolamenti governativi la disciplina transitoria dei servizi pubblici locali diversi da quello idrico, «con una irragionevole differenza di trattamento che non appare giustificata […] per il servizio idrico integrato per il quale la legge statale indica senz’altro in via generale ed astratta la data di scadenza fissa del 31 dicembre 2010, mentre per gli altri servizi pubblici consente al regolamento la previsione di adeguati “tempi differenziati” in ragione di eterogeneità dei servizi presi in considerazione».

Anche tale questione è dichiarata inammissibile, perché la ricorrente non ha dedotto alcuna lesione della propria sfera di competenza, ma si è limitata a lamentare l’irragionevolezza della disposizione censurata.


7. – VIOLAZIONE DELL’AUTONOMIA FINANZIARIA DELLE REGIONI

Al settimo tema attinente alla lamentata violazione dell’autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti locali, sono riconducibili alcune questioni poste dalle Regioni Marche, Liguria, Umbria ed Emilia- Romagna.

Le ricorrenti impugnano il comma 8 dell’art. 23-bis, nel testo modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135 del 2009, sostenendo che esso víola l’art. 119, sesto comma, Cost., perché impone «alle Amministrazioni pubbliche di liberarsi di una quota del proprio patrimonio societario a prescindere dalla convenienza economica dell’operazione, e quindi dalla considerazione in concreto del tempo, delle modalità, della quantità, valutazioni indispensabili ad evitare che si produca una svendita coatta di capitali pubblici».

La questione è dichiarata non fondata.

Il parametro costituzionale evocato, infatti, garantisce alle Regioni e agli enti locali un patrimonio, precisando però che esso è «attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato». L’autonomia patrimoniale delle Regioni e degli enti locali non è, dunque incondizionata, ma si conforma ai princípi che il legislatore statale fissa nelle materie di sua competenza legislativa, fra cui va certamente ricompreso quella della tutela della concorrenza, disciplinata, nel caso in esame, proprio dalle norme censurate.

8. – PATTO DI STABILITÀ

La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 23-bis, comma 10, lettera a), prima parte, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria) – articolo aggiunto dalla legge di conversione 6 agosto 2008, n. 133 – sia nel testo originario, sia in quello modificato dall’art. 15, comma 1, del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee), convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166, limitatamente alle parole: «l’assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno e».

La Corte ha ritenuto fondata la questione di legittimità costituzionale in riferimento alla prima parte della lettera a) del comma 10 – in cui si prevede che la potestà regolamentare dello Stato prescriva l’assoggettamento dei soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto di stabilità interno –, in quanto l’àmbito di applicazione del patto di stabilità interno attiene alla materia del coordinamento della finanza pubblica (sentenze n. 284 e n. 237 del 2009; n. 267 del 2006), di competenza legislativa concorrente, e non a materie di competenza legislativa esclusiva statale, per le quali soltanto l’art. 117, sesto comma, Cost. attribuisce allo Stato la potestà regolamentare.

9. – ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DELLA LEGGE REGIONALE DELLA CAMPANIA

La Presidenza del Consiglio dei ministri aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale in merito al comma 1 dell’art. 1 della legge della Regione Campania n. 2 del 2010, il quale prevede la competenza della medesima Regione a disciplinare il servizio idrico integrato regionale come servizio privo di rilevanza economica ed a stabilire autonomamente sia le forme giuridiche dei soggetti cui affidare il servizio sia il termine di decadenza degli affidamenti in essere.

La difesa dello Stato ha lamentato che la disposizione víola l’art. 117, commi primo e secondo, lettera e), Cost., nonché, quali norme interposte, gli artt. 141 e 154 del d.lgs. n. 152 del 2006, l’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, il decreto-legge n. 135 del 2009 e l’art. 113 TUEL – i quali stabiliscono che il servizio idrico integrato ha rilevanza economica – perché:
a) prevede che la Regione disciplini il servizio predetto «come servizio privo di rilevanza economica»;
b) regola in modo del tutto difforme dall’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008 le forme giuridiche dei soggetti cui affidare il servizio ed il termine di decadenza degli affidamenti in essere, prevedendo che «tutte le forme attualmente in essere di gestione del servizio idrico con società miste o interamente private decadono a far data dalle scadenze dei contratti di servizio in essere».

Entrambe le questioni sono state ritenute fondate dalla Corte, perché le disposizioni censurate sono in contrasto con la normativa statale evocata quale parametro interposto ed emanata nell’esercizio della competenza esclusiva dello Stato nella materia «tutela della concorrenza».

In particolare, la questione di cui al punto a) è fondata, perché la disposizione censurata si pone in evidente contrasto con le sopra indicate norme statali interposte, le quali ricomprendono il servizio idrico integrato tra i servizi dotati di rilevanza economica. Infatti, la disciplina statale pone una nozione generale e oggettiva di rilevanza economica, alla quale le Regioni non possono sostituire una nozione meramente soggettiva, incentrata cioè su una valutazione discrezionale da parte dei singoli enti territoriali.

La questione di cui al punto b) è del pari fondata, perché la disposizione censurata, che individua le figure soggettive cui conferire la gestione del servizio idrico e determina un regime transitorio per la cessazione degli affidamenti diretti già in essere, si pone in evidente contrasto con il regime transitorio disciplinato dall’art. 23-bis del decreto-legge n. 112 del 2008, il quale non può essere oggetto di deroga da parte delle Regioni.


10. - ILLEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE DELLA LEGGE REGIONALE DELLA LIGURIA

La Presidenza del Consiglio dei Ministri ha impugnato i commi 1, 4, 5, 6 e 14 dell’art. 4 della legge della Regione Liguria n. 39 del 2008.

Il ricorrente impugna, in primo luogo, i commi 1 e 14 di detto articolo in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., anche per il tramite dell’art. 161, comma 4, lettera c), del d.lgs. n. 152 del 2006.

Tale ultima disposizione prevede, tra l’altro, che sia il Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche e non la Giunta regionale a redigere il contenuto di una o piú convenzioni-tipo da adottare con decreto del Ministro per l’ambiente e per la tutela del territorio e del mare.

Ad avviso della difesa dello Stato, il censurato comma 1 – il quale affida alla Giunta regionale la competenza ad approvare lo schema-tipo di contratto di servizio e di convenzione di cui all’art. 151 del d.lgs. n. 152 del 2006 – si pone in contrasto con il comma 4, lettera c), del nuovo testo dell’art. 161 dello stesso decreto legislativo, il quale ha «tacitamente abrogato» detto art. 151 ed ha attribuito al «Comitato per la vigilanza sull’uso delle risorse idriche» – e non alla Giunta regionale – la competenza a redigere il contenuto di una o piú delle suddette convenzioni-tipo; convenzioni da adottare con decreto del Ministro per l’ambiente e per la tutela del territorio e del mare, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano.

La Corte ha ritenuto la questione fondata nel merito in quanto la Regione è intervenuta, nella materia «tutela
dell’ambiente», attribuendo all’Autorità d’àmbito una serie di competenze amministrative spettanti, invece, al COVIRI (ora CONVIRI), ai sensi dell’art. 161, comma 4, lettera c), del d.lgs. n. 152 del 2006, ed ha pertanto violato l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.

Il ricorrente ha censurato, altresí, il comma 4 del medesimo art. 4 della legge della Regione Liguria n. 39 del 2008, il quale prevede la competenza dell’Autorità d’àmbito a provvedere all’affidamento del servizio idrico integrato, «nel rispetto dei criteri di cui all’articolo 113, comma 7, del d.lgs. 267/2000 e delle modalità di cui agli articoli 150 e 172 del d.lgs.152/2006».

La censura è proposta in relazione alla violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, per il tramite dell’art. 23-bis, commi 2, 3 e 11, del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo originario.

La difesa dello Stato evidenzia che il comma denunciato, prevedendo che l’AATO provvede all’affidamento del servizio idrico integrato, «nel rispetto dei criteri di cui all’articolo 113, comma 7, del d.lgs. 267/2000 e delle modalità di cui agli articoli 150 e 172 del d.lgs.152/2006», richiama l’art. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006, il quale consente all’Autorità d’àmbito di scegliere la forma di gestione del servizio tra quelle elencate nell’art. 113, comma 5, TUEL.

Tale ultima disposizione prevede, a sua volta, che «L’erogazione del servizio avviene secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa dell’Unione europea, con conferimento della titolarità del servizio:
a) a società di capitali individuate attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica;
b) a società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato venga scelto attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche;
c) a società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte piú importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano».

Ad avviso della difesa dello Stato, la norma censurata, richiamando le forme di gestione dei SPL di cui al citato art. 113, comma 5, TUEL, si pone in contrasto con l’art. 23-bis, del decreto-legge n. 112 del 2008, il quale dispone, invece, che le parti del citato art. 113 incompatibili con le prescrizioni dello stesso art. 23-bis sono abrogate (comma 11), e prevede come regola per l’affidamento dei servizi pubblici locali non piú quella fissata dagli artt. 150 del d.lgs. n. 152 del 2006 e 113 TUEL, bensí quella della procedura competitiva ad evidenza pubblica (comma 2), ferma restando la possibilità di ricorrere all’affidamento diretto solo in presenza delle condizioni di cui al comma 3 del medesimo articolo.

La Corte ha ritenuto che la questione è fondata nel merito.

La norma censurata impone, infatti, l’applicazione del comma 5 dell’art. 113 TUEL, cioè di un comma abrogato per incompatibilità dal citato art. 23-bis, con il quale, pertanto, si pone in contrasto.

L’art. 23-bis prevede infatti, come sopra osservato, che «l’art. 113 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 e successive modificazioni, è abrogato nelle parti incompatibili con le disposizioni di cui al presente articolo» (comma 11). In particolare, il citato comma 5 dell’art. 113 è palesemente incompatibile con i commi 2, 3 e 4 dell’art. 23-bis, perché disciplina le modalità di affidamento del SPL in modo difforme da quanto previsto da detti commi, evocati come norme interposte.

Il ricorrente censura, in terzo luogo – per contrasto con l’art. 23-bis, commi 8 e 9, del decreto-legge n. 112 del 2008, nel testo originario, e, di conseguenza, con l’art. 117, secondo comma, lett. e), Cost. – i commi 5 e 6 del medesimo art. 4 della legge della Regione Liguria n. 39 del 2008, i quali prevedono, rispettivamente, che:
a) «Resta ferma la previsione di cui all’articolo 113, comma 15-bis, del d.lgs. 267/2000; a tal fine l’AATO determina la data di cessazione delle concessioni esistenti, avuto riguardo alla durata media delle concessioni aggiudicate nello stesso settore a seguito di procedure ad evidenza pubblica, salva la possibilità di determinare caso per caso la cessazione in una data successiva, qualora la medesima risulti proporzionata ai tempi di recupero di particolari investimenti effettuati dal gestore, fermi restando l’aggiornamento e la rinegoziazione delle convenzioni in essere» (comma 5);
b) «L’AATO individua forme e modalità dirette all’integrazione del servizio di gestione dei rifiuti e del servizio idrico, avuto riguardo agli affidamenti esistenti che non risultano cessati nei termini di cui all’articolo 113, comma 15-bis, del d.lgs. 267/2000, al fine di pervenire al superamento della frammentazione del servizio nel territorio dell’ambito» (comma 6).

A sua volta, il comma 15-bis dell’art. 113 TUEL – richiamato dalle suddette disposizioni censurate – prevede, con un’articolata serie di eccezioni soggettive, che «nel caso in cui le disposizioni previste per i singoli settori non stabiliscano un congruo periodo di transizione […] le concessioni rilasciate con procedure diverse dall’evidenza pubblica cessano comunque entro e non oltre la data del 31 dicembre 2006, relativamente al solo servizio idrico integrato al 31 dicembre 2007, senza necessità di apposita deliberazione dell’ente affidante».

Lo Stato lamenta che i commi censurati, disciplinando la cessazione delle concessioni esistenti ed il relativo regime transitorio degli affidamenti del servizio idrico integrato effettuati senza gara, attraverso il rinvio alle disposizioni di cui all’art. 113, comma 15-bis, TUEL, contrastano con l’art. 23-bis, commi 8 e 9, del decreto-legge n. 112 del 2008, che – come visto – ha abrogato l’art. 113 citato nelle parti incompatibili con le sue disposizioni e che fissa al 31 dicembre 2010 la data per la cessazione delle concessioni esistenti rilasciate con procedure diverse dall’evidenza pubblica.

Anche tale questione è stata ritenuta fondata.

La norma censurata impone l’applicazione del comma 15-bis dell’art. 113 TUEL, abrogato per incompatibilità dall’art. 23-bis, con il quale, pertanto, si pone in contrasto. Il citato comma 15-bis dell’art. 113 TUEL, infatti, è incompatibile con il suddetto art. 23-bis, perché disciplina il regime transitorio degli affidamenti diretti del servizio pubblico locale in modo difforme da quanto previsto dal parametro interposto.

Ne deriva la violazione dell’art. 117, secondo comma, lett. e), Cost.

 

* Direttore Generale e Dirigente del Settore Ambiente e Pianificazione Territoriale della Provincia di Treviso
 

 


Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it il 22/11/2010

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