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Le nuove regole dei SPL alla luce della disciplina attuativa introdotta dal d.P.R. n. 168/2010
GERARDO GUZZO*
SOMMARIO: 1. Premessa. 2. Le novità introdotte dal regolamento di attuazione. 3. Il regime delle deroghe e delle scadenze. 4. Le novità introdotte dall’articolo 14, comma 32, della legge n. 122/2010. 4.1. La deliberazione della Corte dei Conti/Puglia n. 76 del 22 luglio 2010 e il problema della costituzione di nuove società pubbliche. 5. La sentenza del T.a.r. Calabria, Sezione di Reggio Calabria, n. 561 del 16 giugno 2010. 5.1. Il parere dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici n. 3/2010. 6. Considerazioni finali.
1. Premessa.
L’odierno lavoro vuole rappresentare una sorta di “punto di sintesi”
dell’attuale disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica,
recentemente portata a compimento a seguito del varo del regolamento di
attuazione n. 168/2010 previsto dal comma 10 dell’articolo 23-bis del d.l. n.
112/2008, convertito nella legge n. 133/2008, di seguito modificata
dall’articolo 15 del d.l. n. 135/2009, a sua volta convertito con modifiche
nella legge n. 166/2009. Com’è noto, il regolamento di attuazione è stato
licenziato dal Consiglio dei Ministri nella seduta n. 102 del 22 luglio 2010 ed
è stato pubblicato sulla G.U. del 12 ottobre 2010, n. 239/20101.
Tuttavia, nonostante i vari emendamenti, diverse sono state le critiche mosse al
testo, soprattutto dal Consiglio di Stato. Successivamente, a riprova della
particolare vischiosità della materia dei servizi pubblici, per le ovvie
ricadute che questa genera sulle dinamiche economiche e sociali, il legislatore
del 2010 ha trovato il modo nella legge contenente la manovra finanziaria per
l’anno 2011 di intervenire nuovamente sull’argomento, introducendo significativi
divieti di costituzione di società pubbliche per i Comuni con meno di 30.000
abitanti, ponendo un problema di raccordo con l’articolo 3, comma 27, della
legge n. 244/2007 (finanziaria 2008). In questo solco, si colloca l’importante
determinazione della Corte dei Conti/Puglia, n. 76, del 22 luglio 2010, di poco
precedente la pubblicazione in G.U. della legge di conversione (n. 122) del d.l.
n. 78/2010, risalente al 30 luglio 2010. Tra i punti più controversi della
riforma dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, un posto a parte
merita la vexata quaestio dell’extraterritorialità delle società miste.
Il tema è stato rigorosamente approfondito da una importante sentenza del T.a.r.
Calabria, Sezione di Reggio Calabria, che ha risolto positivamente la questione.
Altro aspetto particolarmente spinoso è quello del divieto posto dall’articolo
23-bis, comma 9, della legge n. 133/2008 e s. m. e integrazioni. A tal
proposito, si segnala il parere n. 3/2009 dell’Autorità di vigilanza sui
contratti pubblici di lavori, servizi e forniture che offre una chiave di
lettura destinata ad entrare in rotta di collisione con la più recente
giurisprudenza amministrativa. Com’è noto, la norma in parola riguarda il
divieto per i titolari della gestione di servizi pubblici locali non affidati
con gara e per i soggetti cui è affidata la gestione delle reti di acquisire la
gestione di servizi ulteriori o in ambiti territoriali diversi, oltre che di
svolgere servizi o altre attività per altri enti pubblici o privati, sia
direttamente che tramite loro controllanti o altre società che siano da essi
controllate o partecipate, oppure partecipando a gare. Sul punto, come
anticipato, sembra essersi aperto una sorta di conflitto tra la giurisprudenza
amministrativa e la posizione assunta dall’Authority - soprattutto con
riferimento alla operatività extraterritoriale delle società miste - che si
cercherà di approfondire nel corso della trattazione.
2. Le novità introdotte dal regolamento di attuazione
Con il varo del regolamento di attuazione dell’articolo 23-bis della
legge n. 133/2008 e s. m. e integrazioni viene finalmente definito l’assetto dei
servizi pubblici locali di rilevanza economica. Si tratta di un passaggio
estremamente delicato in quanto orienta nella sostanza l’atteggiamento che le
pubbliche amministrazioni dovranno assumere in specie riguardo al fenomeno degli
affidamenti in house. Entrando nel merito del provvedimento, è agevole
scorgere come l’articolato in parola non trovi applicazione nei confronti: a)
del servizio di distribuzione di gas naturale, di cui al decreto legislativo 23
maggio 2000, n. 164; b) del servizio di distribuzione di energia
elettrica, di cui al decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79 e alla legge 23
agosto 2004, n. 239; c) del servizio di trasporto ferroviario regionale,
di cui al decreto legislativo 19 novembre 1997, n. 422; d) della gestione
delle farmacie comunali, di cui alla legge 2 aprile 1968, n. 475; e) dei
servizi strumentali all’attività o al funzionamento degli enti affidanti di cui
all’articolo 13, comma 1, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito,
con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, e successive
modificazioni. Per quanto concerne la gestione del servizio idrico integrato, lo
stesso testo di legge stabilisce che restano ferme l’autonomia gestionale del
soggetto gestore, la piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse
idriche, nonché la spettanza esclusiva alle istituzioni pubbliche del governo
delle risorse stesse, ai sensi dell’articolo 15, comma 1-ter, del
decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, convertito, con modificazioni, nella
legge 20 novembre 2009, n. 166. L’articolo 2 introduce, a sua volta, un elemento
di novità: la delibera quadro. Si tratta di uno strumento attraverso il quale
gli enti locali sono chiamati a verificare “(…) la realizzabilità di una
gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali, limitando l’attribuzione di
diritti di esclusiva, ove non diversamente previsto dalla legge, ai casi in cui,
in base ad una analisi di mercato, la libera iniziativa economica privata non
risulti idonea, secondo criteri di proporzionalità, sussidiarietà orizzontale ed
efficienza, a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità, e
liberalizzando in tutti gli altri casi le attività economiche compatibilmente
con le caratteristiche di universalità ed accessibilità del servizio (…)”. In
altre parole, le delibera quadro “(…) evidenzia, per i settori sottratti alla
liberalizzazione, i fallimenti del sistema concorrenziale e i benefici per la
stabilizzazione, lo sviluppo e l’equità all’interno della comunità locale
derivanti dal mantenimento di un regime di esclusiva del servizio (…)”. Si
tratta di una verifica che, ai sensi dell’articolo 2 del regolamento, deve
essere compiuta dagli enti locali una prima volta entro dodici mesi dall’entrata
in vigore dello stesso e successivamente, in modo periodico, secondo quanto
previsto dai rispettivi ordinamenti; comunque, prima di procedere al
conferimento e al rinnovo della gestione dei servizi. La delibera quadro,
dunque, può essere considerata, a giusto titolo, un documento all’interno del
quale scorgere una puntuale analisi di mercato con la conseguenza che
l’affidamento della gestione in house diventi espressione di una precisa
strategia gestionale rinvenibile in una deliberazione ad hoc del
consiglio comunale. Particolarmente importante sembra essere l’articolo 3 del
regolamento che detta le norme generali applicabili agli affidamenti. La norma
in parola stabilisce, al comma 2, il principio della partecipazione delle
società a capitale interamente pubblico alle procedure competitive ad evidenza
pubblica previste dall’articolo 23-bis, comma 2, lett. a), a
condizione, però, che non vi siano particolari preclusioni imposte dal
legislatore, cioè che non si tratti di società strumentali del tipo, ad esempio,
di quelle previste dall’articolo 13 del d.l. n. 223/2006 e s. m. e integrazioni.
Il successivo comma 4, invece, affronta il tema dell’affidamento della gestione
del servizio ai moduli societari misti, sempre che le procedure competitive
abbiano ad oggetto “(…) al tempo stesso, la qualità di socio e l'attribuzione di
specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio (…)”. In tali
casi, è espressamente previsto che il bando di gara assicuri che: a) i
criteri di valutazione delle offerte, basati su qualità e corrispettivo del
servizio, prevalgano di norma su quelli riferiti al prezzo delle quote
societarie; b) il socio privato selezionato svolga gli specifici compiti
operativi connessi alla gestione del servizio per l’intera durata del servizio
stesso e che, ove ciò non si verifichi, si proceda a un nuovo affidamento ai
sensi dell’articolo 23-bis, comma 2 e c) siano previsti criteri e
modalità di liquidazione del socio privato alla cessazione della gestione. In
sostanza, la disciplina di dettaglio ha integralmente recepito i principi
codificati dalla corposa elaborazione giurisprudenziale e solo accennati nella
disciplina generale. L’articolo 4 del testo in commento, a sua volta, definisce
i casi in cui è richiesto il parere dell’Agcom prima di procedere ad un
affidamento in house. La ratio della norma sembra essere quella di voler
sottrarre l’affidamento delle gestioni di minore importanza al vaglio
dell’Authority, residuando il relativo parere in capo ai soli affidamenti di
valore superiore ai duecentomila euro2.
Il valore annuo del servizio viene calcolato sommando tutte le entrate del
gestore, tra le quali vanno sicuramente incluse le tariffe riscosse, eventuali
corrispettivi parziali del servizio e contributi ottenuti per realizzare degli
investimenti. I parametri così fissati, invero, rischiano di penalizzare gli
affidamenti ai moduli societari multi-service proprio in ragione
dell’unitarietà dell’oggetto dell’affidamento che, di fatto, potrebbe generare
il rischio di un agevole superamento della soglia dei duecentomila euro l’anno.
Va detto che il Consiglio di Stato, in sede di stesura del parere n. 2415/2010
sul regolamento di attuazione, aveva suggerito che il parere di cui all’articolo
23-bis, comma 4, fosse obbligatorio se il valore economico del servizio
oggetto dell’affidamento superava la somma complessiva di: a) 200.000,00
euro annui, qualora la popolazione interessata fosse superiore a 50.000 unità;
b) 50.000 euro annui, qualora la popolazione interessata non fosse
superiore a 50.000 unità. Il testo definitivo della norma, invece, si è limitato
ad espungere l’intero secondo periodo che compariva nella versione originale
dell’articolo 4 e che prevedeva che “(…) il detto parere è comunque richiesto, a
prescindere dal valore economico del servizio, qualora la popolazione
interessata sia superiore a 50.000 unità (…)”. L’articolo 5 affronta un tema
particolarmente delicato quale quello dell’estensione del patto di stabilità
interno alle società partecipate dagli enti locali. La norma stabilisce che “(…)
al patto di stabilità interno sono assoggettati gli affidatari in house
di servizi pubblici locali ai sensi dell’articolo 23-bis, commi 3 e 4 (…)”: vale
a dire tutti quei casi di affidamenti in house di valore superiore (se
autorizzati) o inferiore ai duecentomila euro. Nonostante l’apparente linearità
della norma regolamentare, la questione dell’applicazione del patto di stabilità
alle società partecipate appare lontana da un’auspicabile risoluzione. Le
difficoltà nascono da due contraddittorie disposizioni, entrambe contenute nella
legge n. 133/2008: l’articolo 18, comma 2-bis, e l’articolo 23-bis.
Infatti, l’articolo 18 estende l’applicazione del patto di stabilità a tutte le
società controllate, affidatarie dirette del servizio - ivi comprese le società
miste che – una volta scelto il socio operativo, svolgano servizi di natura
strumentale3.
L’articolo 23-bis, invece, stabilisce che sono soggette al patto di
stabilità soltanto le società in house chiamate a gestire servizi
pubblici di rilevanza economica. Il regolamento di attuazione non ha sciolto il
dubbio, nonostante nella primitiva versione della norma comparisse un chiaro
riferimento (poi scomparso) a tutti i soggetti individuati con il decreto
interministeriale di cui all’articolo 18, comma 2-bis, del decreto-legge
25 giugno 2008, n. 112. Nella versione definitiva, l’articolo 5, al comma 2, si
limita a stabilire che “(…) Le modalità e la modulistica per l’assoggettamento
al patto di stabilità interno dei soggetti di cui al comma 1 sono definite in
sede di attuazione di quanto previsto dall’articolo 2, comma 2, lett. h),
della legge 5 maggio 2009, n. 42, e successive modificazioni, in materia di
bilancio consolidato (…)”, senza alcun riferimento al decreto interministeriale
originariamente evocato. A ben vedere, la norma in parola “depotenzia” il ruolo
degli gli enti locali in materia di osservanza del patto di stabilità in quanto
si limita a prevedere che questi ultimi vigilino soltanto, senza essere
minimamente responsabili per il verificarsi di eventuali scostamenti. Inoltre,
l’ultimo comma dell’articolo 5 rinvia a tutto quanto previsto in sede di
attuazione “(…) dall’articolo 2, comma 2, lett. h), della legge 5 maggio
2009, n. 42 (legge sul federalismo), e successive modificazioni, in materia di
bilancio consolidato (…)” degli enti locali. Proprio il riferimento al bilancio
consolidato esprime plasticamente l’errore in cui è incorso il legislatore
delegato. Infatti, com’è stato attentamente osservato4,
il bilancio consolidato segue una logica completamente diversa da quella del
patto di stabilità ed ha un’estensione tale da investire non solo le aziende
controllate ma anche le società. Ne consegue che il riferimento contenuto
nell’articolo 5 avrà un’estensione longitudinale ben più ampia non solo della
previsione contenuta nell’articolo 23-bis ma anche di quella rinvenibile
nell’articolo 18. Tale confusione, inevitabilmente, rischia di riverberarsi
sulla liquidazione delle società pubbliche alla luce delle scadenze previste
dalla legge n. 122/2010. Perché ciò avvenga, com’è stato attentamente osservato,
è indispensabile attenuare l’impatto fiscale e quello sul patto perché
diversamente operando i comuni non saranno più in grado di assorbire il debito e
i dipendenti delle aziende interessate e nulla verrà cambiato5.
Il successivo articolo 6 affronta il tema della disciplina applicabile agli
acquisti di beni e servizi da parte delle società in house e di quelle
miste. La norma fissa un principio di ordine generale: l’applicabilità delle
disposizioni contenute nel d.lgs. n. 163/2006 e s. m. e integrazioni. Il comma 2
subordina l’applicazione dell’articolo 32, comma 3, del d.lgs. n. 163/2006,
limitatamente alla gestione del servizio per il quale le società di cui al comma
1, lettera c), del medesimo articolo sono state specificamente
costituite, alla scelta del socio privato, nel rispetto di quanto previsto
dall’articolo 23-bis, comma 2, lettera b). Di assoluto rilievo è il tema
trattato dall’articolo 7 del regolamento di attuazione interamente dedicato all’assunzione
del personale da parte delle società in house e delle società miste. La
questione dell’assunzione del personale viene affrontata dalla legge n. 133/2008
negli articoli 18 e 23-bis, comma 10, lett. a). L’articolo 18 si
riferiva al reclutamento del personale delle società a totale partecipazione
pubblica che gestiscono servizi pubblici locali (non necessariamente di
rilevanza economica). Si indicavano quali criteri guida della selezione i
principi contenuti nel comma 3 dell’articolo 35 del d.lgs. n. 165/2001 oltre che
quelli di derivazione comunitaria, di trasparenza, di pubblicità ed imparzialità
per le altre società pubbliche6.
L’articolo 23-bis, a sua volta, faceva espressamente riferimento alle
società miste e agli affidamenti in house codificando il meccanismo
selettivo costruito sulle procedure di evidenza pubblica quale regola generale.
Il testo finale dell’articolo 7, recependo integralmente le osservazioni
formulate dal Consiglio di Sato con il parere n. 2415 del 24 maggio 2010,
depositato il 14 giugno successivo, prevede che “(…) le società a partecipazione
pubblica che gestiscono servizi pubblici locali adottano, con propri
provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il
conferimento degli incarichi nel rispetto dei principi di cui al comma 3
dell’articolo 35 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (…)”. I criteri
richiamati sono: a) adeguata pubblicità della selezione e modalità di
svolgimento che garantiscano l'imparzialità e assicurino economicità e celerità
di espletamento, ricorrendo, ove è opportuno, all'ausilio di sistemi
automatizzati, diretti anche a realizzare forme di preselezione; b)
adozione di meccanismi oggettivi e trasparenti, idonei a verificare il possesso
dei requisiti attitudinali e professionali richiesti in relazione alla posizione
da ricoprire; c) rispetto delle pari opportunità tra lavoratrici e
lavoratori; d) decentramento delle procedure di reclutamento; e)
composizione delle commissioni esclusivamente con esperti di provata competenza
nelle materie di concorso, scelti tra funzionari delle amministrazioni, docenti
ed estranei alle medesime, che non siano componenti dell'organo di direzione
politica dell'amministrazione, che non ricoprano cariche politiche e che non
siano rappresentanti sindacali o designati dalle confederazioni ed
organizzazioni sindacali o dalle associazioni professionali. In sintesi,
l’articolo 7 del regolamento di attuazione demanda all’ente pubblico il compito
di vigilare sulla corretta individuazione dei criteri e delle modalità di
reclutamento del personale senza, tuttavia, essere responsabili in caso di non
adeguata vigilanza. In questo senso, la norma rischia una sostanziale
disapplicazione appena temperata dall’obbligo per le partecipate di osservare i
parametri fissati dal patto di stabilità. L’articolo 8 del regolamento attuativo
fissa alcuni divieti ed incompatibilità che colpiscono taluni soggetti. In
particolare, il comma 1 dell’articolo 8 prevede che “(…) Gli amministratori, i
dirigenti e i responsabili degli uffici o dei servizi dell’ente locale, nonché
degli altri organismi che espletano funzioni di stazione appaltante, di
regolazione, di indirizzo e di controllo di servizi pubblici locali, non possono
svolgere incarichi inerenti la gestione dei servizi affidati da parte dei
medesimi soggetti. Il divieto si applica anche nel caso in cui le dette funzioni
sono state svolte nei tre anni precedenti il conferimento dell’incarico inerente
la gestione dei servizi pubblici locali. Alle società quotate nei mercati
regolamentati si applica la disciplina definita dagli organismi di controllo
competenti (…)”. Il successivo comma 2 chiarisce che tale divieto opera anche
nei confronti del coniuge, dei parenti e degli affini entro il quarto grado dei
soggetti indicati nel precedente comma 1, nonché nei confronti di coloro che
prestano, o hanno prestato nel triennio precedente, a qualsiasi titolo attività
di consulenza o collaborazione in favore degli enti locali o dei soggetti che
hanno affidato la gestione del servizio pubblico locale (…)”. I commi da 3 a 5
cristallizzano alcune cause di incompatibilità. In particolare, viene stabilito
non possono essere nominati amministratori di società partecipate da enti locali
coloro che nei tre anni precedenti alla nomina hanno ricoperto la carica di
amministratore, di cui all’articolo 77 del decreto legislativo 18 agosto 2000,
n. 267, e successive modificazioni, negli enti locali che detengono quote di
partecipazione al capitale della stessa società. Inoltre, i componenti della
commissione di gara per l’affidamento della gestione di servizi pubblici locali
non devono aver svolto né possono svolgere alcun’altra funzione o incarico
tecnico o amministrativo relativamente alla gestione del servizio di cui si
tratta. Parimenti, coloro che hanno rivestito, nel biennio precedente, la carica
di amministratore locale, di cui al comma 3, non possono essere nominati
componenti della commissione di gara relativamente a servizi pubblici locali da
affidare da parte del medesimo ente locale. I commi da 6 a 8, sempre riguardo la
composizione della commissione giudicatrice, prevedono una serie di ulteriori
prescrizioni interdittive. Infatti, viene stabilita l’esclusione da futuri
incarichi di commissario a carico di quegli amministratori di società
partecipate da enti locali che nei tre anni precedenti alla nomina hanno
ricoperto la carica di amministratore, di cui all’articolo 77 del decreto
legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni, negli enti
locali che detengono quote di partecipazione al capitale della stessa società. A
questo si aggiunga che i componenti della commissione di gara per l’affidamento
della gestione di servizi pubblici locali non devono aver svolto né possono
svolgere alcun’altra funzione o incarico tecnico o amministrativo relativamente
alla gestione del servizio di cui si tratta. Infine, per coloro che hanno
rivestito, nel biennio precedente, la carica di amministratore locale, scatta il
divieto di nomina a componenti della commissione di gara relativamente a servizi
pubblici locali da affidare da parte del medesimo ente locale. Tuttavia, le
disposizioni contenute nell’articolo 8 troveranno applicazione soltanto nei
confronti delle nomine e degli incarichi da conferire dopo il varo del
regolamento di attuazione facendo salve tutte le posizioni pregresse. L’articolo
9 fissa il principio di reciprocità prevedendo che le imprese estere che
appartengono a Stati dell’Ue possono essere ammesse alle procedure competitive
ad evidenza pubblica per l’affidamento di servizi pubblici locali a condizione
che documentino la possibilità per le imprese italiane di partecipare alle gare
indette negli Stati di provenienza per l’affidamento di omologhi servizi. Tanto
allo scopo di dare attuazione al principio di parità di trattamento e non
discriminazione di matrice comunitaria. Particolarmente significativo, invece, è
il successivo articolo 10 che disciplina la cessione dei beni in caso di
subentro. La norma, infatti, dispone che “(…) alla scadenza della gestione del
servizio pubblico locale o in caso di sua cessazione anticipata, il precedente
gestore cede al gestore subentrante i beni strumentali e le loro pertinenze
necessari, in quanto non duplicabili a costi socialmente sostenibili, per la
prosecuzione del servizio, come individuati, ai sensi dell’articolo 3, comma 3,
lettera f)7,
dall’ente affidante, a titolo gratuito e liberi da pesi e gravami (…)”. In
sostanza, viene fatto obbligo al precedente gestore di cedere al subentrante
tutti i beni e le pertinenze occorrenti per l’utile prosecuzione del servizio
senza oneri di vario genere (pesi o gravami). L’obbligo viene mitigato
nell’ipotesi in cui i costi di tali beni o accessori non sono stati ancora
ammortizzati. In tali casi, il comma 2 dell’articolo 10 prevede che il gestore
subentrante corrisponda al precedente gestore un importo pari al valore
contabile originario non ancora ammortizzato, al netto di eventuali contributi
pubblici direttamente riferibili ai beni stessi. L’importo in parola deve essere
indicato nel bando o nella lettera di invito relativi alla gara indetta per il
successivo affidamento del servizio pubblico locale a seguito della scadenza o
della cessazione anticipata della gestione (comma 3). Il legislatore delegato,
inoltre, si preoccupa di fare salvi gli eventuali differenti accordi intervenuti
tra le parti prima dell’entrata in vigore del regolamento di attuazione oltre
che le disposizioni contenute nelle discipline di settore, anche regionali,
prima vigenti. Infine, l’articolo 11 introduce l’istituto della conciliazione
quale strumento per risolvere non in via giurisdizionale le controversie che
dovessero sorgere tra le parti. La norma assegna ai contratti di servizi o, se
previste, alle carte dei servizi la previsione della procedura conciliativa da
attivarsi entro trenta giorni dal ricevimento della richiesta. Le modalità di
inizio della procedura in discorso sono quelle indicate nell’allegato “A” al
testo del regolamento. A chiusura di paragrafo, pare opportuno segnalare come il
legislatore, con una tecnica legislativa piuttosto discutibile, abbia demandato
al regolamento di attuazione l’abrogazione di norme contenute in fonti primarie
o sub primarie. Si pensi ai commi 5, 5-bis, 6, 7, 8, 9, 14, 15-bis,
15-ter, 15-quater del d.lgs. n. 267/2000: norme, queste, tutte
abrogate dal regolamento di attuazione.
3. Il regime delle deroghe e delle scadenze
L’articolo 23-bis della legge n. 133/2008 e s. m. e integrazioni fissa
quale principio generale per l’affidamento della gestione di un servizio
pubblico di rilevanza economica quello della gara. Tuttavia, com’è noto, in
taluni casi eccezionali è possibile anche procedere all’affidamento in house
della gestione del servizio. Il regolamento di attuazione ha aggiunto ulteriori
elementi di dettaglio che consentono alla riforma di entrare nella sua fase più
strettamente operativa. Riguardo agli affidamenti in house, che
costituiscono una deroga alla regola generale della gara, la disciplina di
dettaglio ha previsto una serie di prescrizioni particolarmente stringenti, con
particolare riferimento al settore idrico, pur confermando la proprietà pubblica
dell’acqua. In particolare, per ottenere il parere favorevole dall’Agcom, l’ente
affidante non dovrà dimostrare i fallimenti del sistema concorrenziale ma sarà
tenuto a rappresentare soltanto specifiche condizioni di efficienza che rendono
la gestione in house non distorsiva della concorrenza, ossia
comparativamente non svantaggiosa per i cittadini rispetto ad una modalità
alternativa di gestione dei servizi pubblici locali. Le condizioni di favor
innanzi evocate vanno rinvenute: a) alla chiusura dei bilanci in utile,
escludendosi a tal fine qualsiasi trasferimento non riferito a spese per
investimenti da parte dell’ente affidante o altro ente pubblico; b) al
reinvestimento nel servizio almeno dell’80 per cento degli utili per l’intera
durata dell’affidamento; c) all’applicazione di una tariffa media
inferiore alla media di settore; d) al raggiungimento di costi operativi
medi annui con un’incidenza sulla tariffa che si mantenga al di sotto della
media di settore. Soltanto costruendo una proposta su tali argomenti sarà
possibile derogare alla regola madre della procedura di evidenza pubblica anche
nel settore idrico. Quid juris rispetto alle altre ipotesi di affidamento
non rispettose dei parametri comunitari? Com’è noto, l’articolo 15 del d.l. n.
135/2009, convertito con modifiche nella legge n. 166/2009, ha rimodulato i
termini del regime transitorio che riguardano le ipotesi in deroga degli
affidamenti8. Per
quanto in questa sede rileva, si osserva che le prime ipotesi di affidamento
in house a cessare saranno quelle gestioni di servizi pubblici affidati
dagli enti locali direttamente alle proprie società senza rispettare i parametri
comunitari costituiti dal “controllo analogo”, dal criterio della “prevalenza” e
dall’esercizio di penetranti e condizionanti poteri di indirizzo da parte
dell’ente partecipante. Tali affidamenti sono inevitabilmente destinati a finire
entro il 31 dicembre 2010. Il discorso cambia nel caso in cui l’affidamento
diretto sia avvenuto nel rispetto delle condizioni innanzi richiamate. La
scadenza del 31 dicembre 2010 non è perentoria a patto che entro quella data la
società a capitale interamente pubblico cambi veste. In altri termini, dovrà
essere messa sul mercato una quota non inferiore al 40% del proprio capitale e
la scelta del partner privato dovrà avvenire con una gara che consenta
anche l’individuazione dei compiti operativi di quest’ultimo. Qualora ciò
accada, l’affidamento potrà cessare alla sua scadenza naturale. Il calendario è
identico per quanto riguarda le società miste. In questo caso, la scadenza è del
31 dicembre 2010 nell’ipotesi in cui il partner privato non sia stato
scelto con gara. Il termine viene differito al 31 dicembre 2011 nell’ipotesi in
cui il partner privato sia stato selezionato con gara ma non siano stati
definiti i compiti operativi al momento della gara. La scadenza naturale del
contratto, infine, è prevista soltanto per quei moduli societari misti in cui il
partner privato sia stato selezionato con procedura di evidenza pubblica
con contestuale definizione dei propri compiti e funzioni. Per quanto concerne
gli affidamenti diretti a società controllate quotate in borsa, la scadenza
naturale del contratto è possibile solo nel caso in cui la quota pubblica scenda
sotto il 40% entro il 30 giugno 2013 e sotto il 30% entro il 31 dicembre 2015.
Il dubbio è se entro le date indicate la vendita della quota pubblica debba
considerarsi già effettuata oppure debba essere avviata la sola procedura. Il
regolamento, purtroppo, sul punto tace ma è verosimile che per tali date la
procedura di “snellimento” debba essere solo iniziata.
4. Le novità introdotte dall’articolo 14, comma 32, della legge n. 122/2010
Il d.l. n. 78 contenente “Misure urgenti in materia di stabilizzazione
finanziaria e di competitività economica” è stato convertito, con modifiche,
nella legge n. 122 del 30 luglio 2010, pubblicata in G.U. n. 176 dello stesso
giorno. L’articolato, dettato da una evidente ratio di riduzione della
spesa pubblica, contiene una disposizione in materia di società partecipate
abbastanza controversa che ha suscitato da subito incertezze sul piano della
corretta individuazione dell’ambito applicativo. La norma in questione è
l’articolo 14, comma 32. Il testo prevede nella prima parte che “(…) Fermo
quanto previsto dall'art. 3, commi 27, 28 e 29, della legge 24 dicembre 2007, n.
244, i comuni con popolazione inferiore a 30.000 abitanti non possono costituire
società. Entro il 31 dicembre 2011 i comuni mettono in liquidazione le società
già costituite alla data di entrata in vigore del presente decreto, ovvero ne
cedono le partecipazioni. La disposizione di cui al presente comma non si
applica alle società, con partecipazione paritaria ovvero con partecipazione
proporzionale al numero degli abitanti, costituite da più comuni la cui
popolazione complessiva superi i 30.000 abitanti; i comuni con popolazione
compresa tra 30.000 e 50.000 abitanti possono detenere la partecipazione di una
sola società; entro il 31 dicembre 2011 i predetti comuni mettono in
liquidazione le altre società già costituite (…)”. La seconda parte del testo,
poi, rimanda ad un decreto interministeriale - da emanarsi entro novanta giorni
- la fissazione delle modalità attuative. In sostanza, gli enti sono chiamati a
liberarsi delle partecipazioni non più consentite entro il 31 dicembre 2011 e
viene sensibilmente ridotta la possibilità di costituire nuove società
pubbliche. Il divieto colpisce innanzitutto i piccoli comuni fino a 30.000
abitanti (ancorché consorziati), mentre per i comuni da 30.000 a 50.000 abitanti
è possibile la detenzione di quote societarie che riguardino un solo soggetto
economico. Tuttavia, la norma “salva” le prescrizioni contenute nei commi 27, 28
e 29 dell’articolo 3 della legge n. 244/2007 (finanziaria 2008). La questione
posta dall’articolo 14, comma 32, della legge n. 122/2010, riguarda proprio il
cosiddetto fuoco applicativo della norma. In altri termini, la domanda è: la
disposizione trova o no applicazione nei confronti delle società affidatarie
della gestione di servizi pubblici? Com’è noto, l’articolo 2, comma 27, della l.
n. 244/2007 consentiva la costituzione di società strettamente necessarie per
il perseguimento delle proprie finalità istituzionali e di quelle di
interesse generale. Proprio tale precisazione consentirebbe di affermare che
i divieti contenuti nell’articolo 14, comma 32, della legge n. 122/2010 non
riguarderebbero le società chiamate a gestire servizi pubblici. Ciononostante,
si pone il problema, di non poco conto, di individuare quelle società “non
strettamente necessarie” al perseguimento di fini istituzionali e di “interesse
generale” soggette alla scure della liquidazione. E’ facile gioco osservare che
gran parte delle società strumentali, pur perseguendo delle finalità
istituzionali, paradossalmente, non sono sempre necessarie. E allora, cosa fare?
Esigenze di contenimento della spesa imporrebbero, senza dubbio, di includerle
nel divieto introdotto dal comma 32 dell’articolo 14. Tuttavia, il dubbio resta,
in attesa del varo del decreto interministeriale atteso entro il 28 ottobre
2010. In definitiva, se le prescrizioni contenute nella norma in commento non
trovano applicazione nei confronti delle società che erogano servizi pubblici, è
possibile concludere che non vi sia alcuna contraddizione tra i termini di
cessazione dei moduli societari previsti dalla legge n. 133/2008 e s. m. e
integrazione e quello del 31.12.2011 contenuto nell’articolo 14, comma 32, della
legge n. 122/2010, che riguarda le società già costituite al 31 maggio 2010.
4.1. La deliberazione della Corte dei Conti/Puglia n. 76 del 22 luglio 2010 e
il problema della costituzione di nuove società pubbliche
Il problema dell’individuazione del corretto ambito applicativo dell’articolo
12, comma 32, della legge n. 122/2010 è stato affrontato anche dalla Corte dei
Conti, sezione regionale di controllo per la Regione Puglia, con la
deliberazione n. 76 del 22 luglio 2010. Il dictum dei giudici contabili
precede di otto giorni la legge di conversione (n. 122) del d.l. n. 78/2010,
risalente al successivo 30 luglio. I magistrati pugliesi, confermando una
propria precedente deliberazione del 2009 (n. 103), hanno correttamente
evidenziato come l’articolo 14, comma 32, “(…) che pone un espresso divieto di
costituzione di società partecipate per i Comuni aventi popolazione inferiore a
30.000 abitanti, ha una latitudine molto ampia perché si riferisce a tutte le
società partecipate, senza distinguere in alcun modo in relazione al settore di
attività in cui operano ovvero alla circostanza che esse abbiano proceduto
all’emissione di strumenti finanziari quotati su mercati regolamentati.
Tuttavia, il citato comma 32 fa specificatamente salvo l’art. 3, commi 27, 28 e
29 della legge n. 244 del 2007 (L.F. 2008) che, pertanto, rimane in vigore per
espresso dettato normativo. Ne consegue che, non ostando l’art. 14, comma 32
cit. alla costituzione di società che integrino i presupposti di cui all’art. 3,
comma 27 e ss. della legge finanziaria del 2008, la Sezione non può che
confermare il contenuto del precedente parere espresso con propria deliberazione
n. 103/2009, con i limiti e le considerazioni ivi indicati (…)”, vale a dire che
“(…) la partecipazione societaria potrà comunque essere acquisita anche nel caso
di attività non strettamente necessarie al perseguimento dei fini istituzionali
dell’Ente qualora si tratti di servizi di interesse generale, che presentino un
favorevole impatto sulla collettività locale (…)”9.
Del resto, sempre gli stessi giudici pugliesi, proprio con la determinazione n.
103/2009, hanno chiarito, a suo tempo, in merito al comma 27 della legge n.
244/2007 che “(…) ad avviso del Collegio, l’inquadramento di una eventuale nuova
partecipazione societaria da parte degli Enti locali in una delle tipologie su
riportate spetta esclusivamente alle valutazioni discrezionali dell’Ente.
L’Organo Consiliare dovrà, quindi, adeguatamente motivare l’acquisizione di una
nuova partecipazione societaria evidenziandone i costi ed i benefici in termini
di efficienza, efficacia ed economicità di gestione in un’ottica di lungo
periodo, specificandone i vantaggi per la collettività (…)”. Dal che ne consegue
il carattere assorbente del soddisfacimento dell’interesse generale, tipico
delle società erogatrici di servizi pubblici, quale presupposto per la non
applicabilità del divieto posto dall’articolo 14, comma 32, della legge n.
122/2010 ai soggetti economici affidatari della gestione di un servizio pubblico
locale.
5. La sentenza del T.a.r. Calabria, Sezione di Reggio Calabria, n. 561 del 16
giugno 2010
La sentenza del T.a.r. Calabria, Sezione di Reggio Calabria, n. 561 del 16
giugno 2010 ha affrontato un tema particolarmente controverso: quello della
interpretazione del comma 9 dell’articolo 23-bis del d.l. n. 112/2008,
come modificato dalla novella del 2009 (l. n. 166/09). Com’è noto, la
disposizione in discorso stabilisce che “(…) le società, le loro controllate,
controllanti e controllate da una medesima controllante, anche non appartenenti
a Stati membri dell’Unione europea, che, in Italia o all’estero, gestiscono di
fatto o per disposizioni di legge, di atto amministrativo o per contratto
servizi pubblici locali in virtù di affidamento diretto, di una procedura non ad
evidenza pubblica ovvero ai sensi del comma 2, lettera b), nonché i soggetti cui
è affidata la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni
patrimoniali degli enti locali, qualora separata dall’attività di erogazione dei
servizi, non possono acquisire la gestione di servizi ulteriori ovvero in ambiti
territoriali diversi, né svolgere servizi o attività per altri enti pubblici o
privati, né direttamente, né tramite loro controllanti o altre società che siano
da essi controllate o partecipate, né partecipando a gare. Il divieto di cui al
primo periodo opera per tutta la durata della gestione e non si applica alle
società quotate in mercati regolamentati e al socio selezionato ai sensi della
lettera b) del comma 2. I soggetti affidatari diretti di servizi pubblici locali
possono comunque concorrere su tutto il territorio nazionale alla prima gara
successiva alla cessazione del servizio, svolta mediante procedura competitiva
ad evidenza pubblica, avente ad oggetto i servizi da essi forniti (…)”. Il
problema che da subito ha posto la lettura della norma è quello della
operatività extraterritoriale delle società miste il cui socio privato sia stato
scelto a seguito di una doppia gara, secondo quanto stabilito dalla decisione n.
1/2008 dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, poi trasfuso nel comma 2,
lett. b), dell’articolo 23-bis del d.l. n. 112/08 e s.m. e
integrazioni. Una prima interpretazione della norma propendeva per l’estensione
del divieto di extraterritorialità alle società miste, per effetto del richiamo
contenuto nel testo di legge al comma 2, lett. b), dell’articolo 23-bis della
legge n. 133/08 e s. m. e integrazioni. Tuttavia, il T.a.r. calabrese, pur
riconoscendo l’astratta condivisibilità di tale ricostruzione ermeneutica, ha
preferito discostarsene. Il ragionamento svolto dai giudici reggini appare molto
convincente e si fonda sull’assoluta simmetria tra la scelta del privato cui
affidare la gestione di un servizio pubblico locale mediante gara (comma 2,
lett. a), d.l. n. 112/08) e la scelta del partner privato del
costituendo modulo societario misto, destinato a divenire “socio operativo”,
anch’esso selezionato all’esito di una procedura di evidenza pubblica (comma 2,
lett. b), d.l. n. 112/08)10.
Infatti, secondo il collegio, un’interpretazione restrittiva del comma 9
dell’articolo 23-bis “(…) seppure consentita dalla lettera della stessa,
non può essere condivisa, giacché l’affidamento a società mista costituita con
le modalità indicate dal comma 2, lett. b), dell’art. 23-bis si appalesa,
ai fini della tutela della concorrenza e del mercato - del tutto equivalente a
quello mediante pubblica gara, sicché risulterebbe irragionevole ed immotivata –
anche alla luce dei principi dettati dall’Unione europea in materia di
partenariato pubblico privato (v. Comunicazione interpretativa della Commissione
sull'applicazione del diritto comunitario degli appalti pubblici e delle
concessioni ai partenariati pubblico – privati istituzionalizzati (PPPI)
2008/C91/02 in G.U.U.E. del 12 aprile 2008) - l’applicazione nei confronti di
società della specie del divieto di partecipazione alle gare bandite per
l’affidamento di servizi diversi da quelli in esecuzione. Va dunque preferita
l’interpretazione della disposizione – pure consentita dalla sua lettera – nel
senso che il divieto in parola si applica solamente alle società che già
gestiscono servizi pubblici locali a seguito di affidamento diretto o comunque a
seguito di procedura non ad evidenza pubblica, con la precisazione che
rientrano nel concetto di evidenza pubblica (“ovvero”) anche le forme previste
dal comma 2, lett. b), dell’art. 23- bis., cit. (…)”. Si tratta di
un’apertura della giurisprudenza molto importante che si allinea, peraltro,
anche alla posizione ufficiale dell’Anci e che pare rispettosa dei principi
comunitari di tutela della concorrenza e del divieto di disparità di
trattamento.
5.1. Il parere dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici n.
3/2009
Il comma 9 dell’articolo 23-bis è stato oggetto di approfondimento anche da
parte dell’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici con il parere n. 3/2009.
L’Authority ha osservato come lo scopo del divieto contenuto nella norma
sia quello di impedire che soggetti già titolari di affidamenti diretti e,
dunque, di un rapporto privilegiato con l’ente pubblico, possano lucrare delle
ulteriori rendite di posizione concorrendo in altri mercati, con chiaro
vulnus al principio della libera concorrenza e della parità di trattamento.
Secondo l’organo di vigilanza, inoltre, il divieto non troverebbe applicazione
non solo nei confronti delle società non affidatarie in house, rispetto
alle quali non è rinvenibile l’esercizio di una penetrante influenza da parte
della P.a. sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni societarie, ma
anche nei confronti delle società con partecipazione indiretta, atteso il
controllo non penetrante esercitato dall’ente locale, in quanto mediato. Più in
generale, il parere n. 3/2009 estende il divieto in discorso a tutte le società
chiamate ad erogare servizi pubblici di rilevanza economica e, pertanto, anche
alle società miste. E’ proprio questo l’aspetto più controverso affrontato
dall’Autorità di vigilanza che, come cennato, viene risolto in modo
completamente opposto rispetto alla giurisprudenza del T.a.r. Calabria n.
561/2010, passata in rassegna nel paragrafo precedente. Anzi, il divieto di
svolgere attività extraterritoriale viene ulteriormente dilatato al punto che
l’organo di controllo finisce per disconoscere l’operatività extra moenia
anche ai moduli societari misti indirettamente controllati dall’ente locale che
erogano servizi strumentali al perseguimento di fini istituzionali dello stesso,
ai sensi della legge n. 248/2006. Sul punto, giova ricordare che la
giurisprudenza amministrativa ha cominciato ad elaborare una posizione
sensibilmente diversa. Si pensi alla sentenza n. 36/2010 del T.a.r. del Lazio,
Sezione di Roma11,
che ha affermato che le società indirettamente partecipate dagli enti locali non
sono soggette al divieto di svolgere attività extra moenia previsto dalla
legge 248/2006. Se il divieto cade riguardo alle società a capitale interamente
pubblico che erogano servizi strumentali ai fini istituzionali della P.a.
controllante, a fortiori, il principio dovrebbe valere nei confronti
delle società miste, ancorché controllate indirettamente, il cui partner
privato sia stato scelto all’esito di una procedura di evidenza pubblica, cioè
nel rispetto delle regole a tutela della concorrenza. Del resto, lo stesso
legislatore, a meno che non si tratti di una svista, con l’articolo 48 della
legge n. 99/2009 ha espunto dal comma 1 dell’articolo 13 della l. n. 248/2006 il
termine “esclusivamente”, aprendo la strada alla possibilità che le società
strumentali operino non solo nei confronti degli enti costituenti o partecipanti
ma anche al di fuori degli angusti ambiti territoriali degli stessi12.
6. Considerazioni finali
La disciplina dei servizi pubblici locali si conferma, anche all’indomani del
varo del regolamento di attuazione n. 168/2010, tutt’altro che immune da
incertezze. Diversi i punti controversi finiti sotto la lente di ingrandimento.
Si pensi alla soglia dei duecentomila euro, che rappresenta l’asticella al di
sotto delle quale non è richiesto il parere dell’Agcom. A tal proposito, sarebbe
stato meglio seguire il suggerimento fornito dal Consiglio di Stato che
auspicava l’indispensabilità del parere solo per quei comuni con più di
cinquantamila abitanti, qualora il valore dell’affidamento fosse superiore ai
duecentomila euro annui. La soluzione fornita dal regolamento, infatti, rischia
di ingolfare l’attività di controllo dell’Authority che si vedrà
recapitare richieste di pareri, anche per affidamenti di servizi di modesta
entità, da parte dei piccoli Comuni che costituiscono, notoriamente, l’ossatura
dell’apparato amministrativo italiano, con conseguente rischio di scomparsa
degli affidamenti in house. Lo stesso assoggettamento al patto di
stabilità presenta non poche incertezze. Non è chiaro se le maglie dell’istituto
in discorso riguardino le sole società in house, come previsto dalla
lett. a) del comma 10 dell’articolo 23-bis ovvero anche le società
miste, cui fa riferimento l’articolo 18, comma 2-bis, del d.l. n. 112/08
e s. m. e integrazioni. La risposta dovrebbe essere fornita dall’emanando
decreto interministeriale ma, in attesa del varo, il dubbio rimane. A questo si
aggiunga che il testo definitivo dell’articolo 5 del regolamento di attuazione
ha fortemente contratto l’incidenza del controllo degli enti locali
sull’osservanza dei parametri fissati dal patto, dal momento che nella stesura
definitiva del testo è scomparso ogni riferimento ad una qualsivoglia forma di
responsabilità della parte pubblica chiamata ad esercitare i poteri di
controllo. Altra questione aperta resta quella della possibilità o meno per i
Comuni con meno di trentamila abitanti di poter costituire delle società
pubbliche, a seguito dell’articolo 14, comma 32, della legge n. 122/2010. Come
anticipato nel precedente paragrafo 4, l’espresso richiamo all’articolo 3, commi
27, 28 e 29 della legge n. 244/2007, dovrebbe escludere l’applicabilità del
divieto in merito alla costituzione di quei moduli societari chiamati a gestire
servizi pubblici locali che, per loro stessa natura, sono finalizzati a
soddisfare interessi di respiro generale. Il problema irrisolto rimane quello di
individuare i soggetti economici che gestiscono servizi strumentali al
raggiungimento dei fini istituzionali dell’ente che, tuttavia, non appaiono né
necessari, né tampoco soddisfano interessi generali, la cui costituzione
dovrebbe essere, pertanto, vietata. Sarebbe auspicabile, quindi, una maggiore
chiarezza sul punto da parte del legislatore che, ancora una volta, sembra
abdicare alle sue prerogative a beneficio del giudice amministrativo. Infine, la
vexata quaestio dell’extraterritorialità delle società miste. A fronte di
una giurisprudenza che appare decisamente orientata ad aprire a tale
possibilità, almeno per quanto concerne i moduli societari misti affidatari di
un servizio pubblico di rilevanza economica, si assiste al colpevole silenzio
del legislatore, capace di formulare una norma, il comma 9 dell’articolo 23-bis,
in grado di generare incertezze interpretative come poche. In conclusione, si ha
la sensazione che il regolamento di attuazione abbia finito, involontariamente,
per amplificare le incongruenze presenti nella disciplina generale, aprendo
nuove falle nel complesso universo dei servizi pubblici locali.
* Professore di
Organizzazione Aziendale presso l’Università degli Studi della Calabria e
partner dello studio legale Cristofano, Guzzo & Associates.
1 Per una
consultazione integrale del testo si rinvia a www.dirittodeiservizipubblici.it.
2 Il comma 1 dell’articolo 4 prevede che “(…) Gli affidamenti di
servizi pubblici locali assumono rilevanza ai fini dell’espressione del parere
di cui all’articolo 23-bis, comma 4, se il valore economico del servizio oggetto
dell’affidamento supera la somma complessiva di 200.000,00 euro annui (…)”.
3 Per alcune considerazioni critiche in merito all’applicabilità
del patto di stabilità alla società miste, si rinvia a G. Guzzo, Società miste e
affidamenti in house. Nella più recente evoluzione legislativa e
giurisprudenziale; Giuffrè Editore; 2009; pagg. 166 e ss.
4 S. Pozzoli, Una soluzione che confonde patto e bilancio; in
IlSole24Ore, 2 agosto 2010.
5 S. Pozzoli, Una soluzione che confonde patto e bilancio; op.
cit.
6 Sul tema si rinvia a G. Guzzo, Articolo 18 del DL 112 del 25
giugno 2008 e principio di autonomia degli enti locali: dubbi ed incertezze; in
www.dirittodeiservizipubblici.it; 2 luglio 2008.
7 La lettera f) del comma 3 dell’articolo 3 del regolamento
stabilisce che il bando o la lettera di invito “(…) indica i criteri e le
modalità per l’individuazione dei beni di cui all’articolo 10, comma 1, e per la
determinazione dell’eventuale importo spettante al gestore al momento della
scadenza o della cessazione anticipata della gestione ai sensi dell’articolo 10,
comma 2 (…)”;
8 Sul punto si rinvia a G. Guzzo, Appalti pubblici. Disciplina,
procedura e profili processuali; Giuffré Editore; 2010; pagg. 261-265.
9 Per una consultazione integrale del testo della determinazione
n. 103/2009, si rimanda al sito www.cortedeiconti.it
10 In senso conforme G. Guzzo, Affidamenti in house: controllo
analogo, extraterritorialità e lesione di interessi legittimi”, in
www.lexitalia.it n. 7-8/2006; G. Guzzo, Legislazione, Corte di giustizia e
società miste: ovverosia come perpetuare il “mito” dell’extraterritorialità e il
dubbio “amletico” della cedibilità postuma delle quote societarie”; in
Appalti&Contratti, n. 10/2009.
11 Per una consultazione integrale del testo si rimanda al sito
www.giustizia-amministrativa.it.
12 Sul punto si rinvia a G. Guzzo, Appalti pubblici.
Disciplina, procedura e nuovi profili processuali; Giuffré Editore; 2010; cit.;
pagg. 258-261.
Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it
il 28/10/2010