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La Decisione 378/2010 della Corte di Giustizia ed il regime di responsabilità da danno all’ambiente per gli operatori interessati.
LUCA PRATI*
La recente decisione della 378/2010 della Corte di Giustizia fa venire
inevitabilmente al pettine i nodi irrisolti che la disciplina nazionale del
danno ambientale porta con sé a seguito dei basilari errori di impostazione che
ne hanno segnato la nascita.
Venendo ai fatti di causa, va ricordato che nella zona oggetto della decisione
della Corte di Giustizia (la rada di Augusta) si erano succedute nel tempo una
pluralità di imprese, con conseguenti gravi difficoltà nella individuazione
degli autori della contaminazione ed il tentativo di ricorrere, da parte
dell’Autorità, ad imputazioni di responsabilità di tipo presuntivo, connesse
alla sola proprietà dei siti industriali da parte degli operatori presenti.
Nell’ambito del relativo procedimento il Tribunale amministrativo regionale
della Sicilia sottoponeva alla Corte europea tre distinte questioni
pregiudiziali1 che,
sebbene meritevoli di trattazione separata, la Corte di Giustizia ha invece
esaminato congiuntamente.
Secondo la Corte europea il giudice nazionale le avrebbe chiesto, in sostanza,
se il principio «chi inquina paga», e le disposizioni della direttiva
2004/35/CE, ostino ad una normativa nazionale che consenta all’autorità
competente di imporre ad alcuni operatori, solo a causa della vicinanza dei loro
impianti ad una zona inquinata, misure di riparazione dei danni ambientali,
senza avere preventivamente indagato sull’origine dell’inquinamento né avere
accertato il nesso di causalità tra detti danni e gli operatori né il dolo o la
colpa di questi ultimi.
Tra gli antecedenti della vicenda giunta alla Corte di Giustizia di cui è
doveroso dare atto vi è la pronuncia, intervenuta sulla medesima controversia,
del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia, (l’ordinanza n°
321/06)2 in qualità di
giudice d’appello. Il giudice nazionale, in relazione ai medesimi fatti aveva
affermato, in particolare, che “il punto di equilibrio fra i diversi
interessi di rilevanza costituzionale alla tutela della salute, dell’ambiente e
dell’iniziativa economica privata” andrebbe ricercato in un criterio di
oggettiva responsabilità imprenditoriale, in base al quale gli operatori
economici che producono e ritraggono profitti attraverso l’esercizio di attività
pericolose, in quanto ex se inquinanti, o in quanto utilizzatori di strutture
produttive contaminate e fonte di perdurante contaminazione, sarebbero perciò
stesso tenuti a sostenere integralmente gli oneri necessari a garantire la
tutela dell’ambiente e della salute della popolazione, in correlazione causale
con tutti i fenomeni di inquinamento collegati all’attività industriale.
Tale affermazione si pone in diretta antitesi con quella giurisprudenza che,
restando aderente al dettato della norma, ha riconosciuto come il Lgs. n.
152/2006 abbia invece operato una scelta precisa in favore della riconduzione
della responsabilità per i danni all’ambiente nel paradigma della “tradizionale”
responsabilità extracontrattuale soggettiva (c.d. “responsabilità aquiliana ex
art. 2043 c.c.), con esclusione di una qualsivoglia forma di responsabilità
oggettiva)3.
Secondo tale giurisprudenza, la disposizione di cui all’art. 311 definisce in
modo paradigmatico la responsabilità per la situazione di inquinamento,
accedendo ad un concetto di responsabilità di natura soggettiva; non basta
quindi un rapporto di causa – effetto tra svolgimento di un’attività inquinante
(o addirittura detenzione di una fonte di contaminazione storica) e danno
ambientale, per poter fondare la responsabilità dell’operatore, ma occorre anche
un elemento di dolo o colpa, in correlazione con la violazione di una norma o
con un comportamento negligente4.
La prima tesi, che riporta la responsabilità per danno ambientale nell’alveo
della responsabilità oggettiva, indubbiamente afferma un dato assente nel dato
normativo nazionale fondante il danno ambientale, in quanto il regime della
responsabilità oggettiva è sicuramente estraneo all’art. 311 del D. Lgs.
152/2006, pur essendo (in modo ambiguo) parzialmente riflesso in altre
disposizioni del D. lgs. 152/2006 tratte dalla Direttiva.
Diversamente dalla norma italiana, la Direttiva 2004/35/CE prevede invece un
regime di responsabilità “duale” nei presupposti, a seconda del tipo di attività
economica in questione. La distinzione tra diverse tipologie di attività, ai
fini dell’imputazione del danno ambientale, è resa esplicita all’art. 3 della
direttiva 2004/35/CE (Ambito di applicazione), dove si prevede che essa si
applichi:
a) al danno ambientale “causato da una delle attività professionali elencate
nell'allegato III “e a qualsiasi “minaccia imminente” di tale danno a seguito di
una di dette attività;
b) al danno alle specie e agli habitat naturali protetti causato da una delle
attività professionali “non” elencate nell'allegato III e a qualsiasi minaccia
imminente di tale danno a seguito di una di dette attività, “in caso di
comportamento doloso o colposo dell'operatore”.
Mentre per le attività elencate nell’allegato III la direttiva viene in rilievo
ogniqualvolta via sia stato un danno ambientale legato da “un nesso di
causalità” con il comportamento dell’operatore (il riferimento è infatti al
semplice danno ambientale causato da una delle attività indicate), per le
attività non elencate nell’allegato III la direttiva trova applicazione soltanto
quando il comportamento dell’operatore sia connotato da “dolo” o “colpa”
(elementi che, ovviamente, si debbono aggiungere al requisito, comunque
necessario, del nesso di causalità tra comportamento dell’operatore ed evento di
danno o di pericolo).
La direttiva distingue quindi, ai fini della imputazione del danno, tra
tipologie di operatori, gravando di una responsabilità certamente più prossima a
quella oggettiva (e quindi basata sulla sussistenza del solo nesso di causalità
tra azione ed evento) i soggetti esercenti attività ritenute comportare “un
rischio per la salute umana o l'ambiente” (quelle appunto indicate nell’allegato
III alla direttiva), e riservando invece una responsabilità per dolo o colpa
agli operatori diversi da quelli che esercitano le attività, ritenute
intrinsecamente più pericolose, indicate nell’allegato III.
Venendo alla pronuncia della Corte di Giustizia, in relazione alla presenza di
una pluralità di potenziali inquinatori” la Corte afferma che uno Stato membro
possa anche prevedere l’imposizione di misure di riparazione del danno
ambientale presumendo l’esistenza di un nesso di causalità tra
l’inquinamento accertato e le attività dei diversi operatori, in base alla
vicinanza degli impianti di questi ultimi con il menzionato inquinamento.
L’affermazione, potenzialmente esplosiva in quanto avrebbe potuto deflagrare in
una generalizzata dichiarazione di responsabilità “da posizione”, disancorata
perfino dal nesso di causalità, viene disinnescata dalla precisazione che
l’imputazione debba comunque avvenire conformemente al principio «chi inquina
paga», e pertanto l’obbligo di riparazione incombe agli operatori solo in misura
corrispondente al loro contributo al verificarsi dell’inquinamento. Per poter
presumere secondo tali modalità l’esistenza di un siffatto nesso di causalità,
l’autorità competente deve comunque disporre di indizi plausibili in grado di
dar fondamento alla sua presunzione, quali la vicinanza dell’impianto
dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze
inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio
della sua attività. L’autorità è poi tenuta ad accertare, in osservanza delle
norme nazionali in materia di prova, quale operatore abbia provocato il danno
ambientale, e, non può imporre misure di riparazione senza previamente
dimostrare l’esistenza di un nesso di causalità tra i danni rilevati e
l’attività dell’operatore che ritiene responsabile dei medesimi.
Precisa però la Corte che mentre nel caso di attività professionali comprese
nell’allegato III alla direttiva 2004/35, per affermare la responsabilità
ambientale degli operatori l’accertamento del nesso di causalità è, oltre che,
necessario, sufficiente, esso non basta per le attività ivi non comprese.
Infatti, ai sensi dell’art. 3, n. 1, lett. b), della direttiva 2004/35 si ricava
che, quando un danno è stato arrecato da un’attività professionale non elencata
nell’allegato III, deve essere accertato anche il comportamento doloso o colposo
in capo all’operatore.
La Corte, in sostanza, non fa che ribadire i criteri già ben evidenti ed
esplicitati nella Direttiva 2004/35. Manca però nella decisione una risposta
fondamentale, e ciò se uno stato membro possa discostarsi dal regime “duale” di
responsabilità, applicando un regime generalizzato di responsabilità per colpa,
anche nel caso di attività professionali comprese nell’allegato III, così come
ha indubbiamente fatto l’art. 311 del D. Lgs. 152/2006. Risposta che ovviamente
dovrebbe tenere conto del noto principio per cui la direttiva vincola lo Stato
membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva
restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi da
utilizzare.
In ogni caso, in mancanza di una chiara modifica della norma italiana, aderire
alla sentenza della Corte di Giustizia nel ricostruire il regime nazionale di
responsabilità per danno ambientale così finirebbe per comportare una
interpretazione in malam partem della direttiva, mentre secondo e
l’orientamento espresso dalla giurisprudenza, sia italiana, sia comunitaria,
l’efficacia diretta di una direttiva è ammessa solo se dalla stessa derivi un
diritto riconosciuto al cittadino, azionabile nei confronti dello Stato
inadempiente.
* Studio Legale
Cardini Prati & Scotti
luca.prati@cgplegal.com
www.greenlex.it
1 I quesiti precisamente erano i seguenti: 1) Se il principio
“chi inquina paga” (art.174 CE) (…) nonché le disposizioni di cui alla
[direttiva 2004/35] ostino ad una normativa nazionale che consenta alla Pubblica
Amministrazione di imporre agli imprenditori privati – per il solo fatto che
essi si trovino attualmente ad esercitare la propria attività in una zona da
lungo tempo contaminata o limitrofa a quella storicamente contaminata –
l’esecuzione di misure di riparazione a prescindere dallo svolgimento di
qualsiasi istruttoria in ordine all’individuazione del responsabile
dell’inquinamento. 2) Se il principio “chi inquina paga” (art.174 CE) (…) nonché
le disposizioni di cui alla [direttiva 2004/35] ostino ad una normativa
nazionale che consenta alla Pubblica Amministrazione di attribuire la
responsabilità del risarcimento del danno ambientale in forma specifica al
soggetto titolare di diritti reali e/o esercente un’attività imprenditoriale nel
sito contaminato, senza la necessità di accertare previamente la sussistenza del
nesso causale tra la condotta del soggetto e l’evento di contaminazione, in
virtù del solo rapporto di “posizione” nel quale egli stesso si trova (cioè
essendo egli un operatore la cui attività sia svolta all’interno del sito). 3)
Se la normativa comunitaria di cui all’art. 174 [CE ed alla direttiva 2004/35]
osti ad una normativa nazionale che, superando il principio “chi inquina paga”,
consenta alla Pubblica Amministrazione di attribuire la responsabilità del
risarcimento del danno ambientale in forma specifica al soggetto titolare di
diritti reali e/o d’impresa nel sito contaminato, senza la necessità di
accertare previamente la sussistenza, oltre che del nesso causale tra la
condotta del soggetto e l’evento di contaminazione, anche del requisito
soggettivo del dolo o della colpa.4
2 Reg. Ord. del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la
Regione Sicilia, pronunciata a seguito dell’appello proposto avverso l’ordinanza
emessa dal T.A.R. Sicilia sezione di Catania che ordinava la sospensione dei
prescrizioni stabilite dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio
in relazione a interventi di messa in sicurezza e bonifica da realizzare
all’interno della Rada di Augusta nel Sito di interesse nazionale di Priolo.
3 Il D. Lgs. n. 152 del 2006, all’art. 311, comma 2, disciplina,
infatti, la responsabilità per danni all’ambiente, prevedendo che “chiunque
realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi,
con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con
negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno
all'ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte,
è obbligato al ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al
risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato”.
4 Cfr. ex multis TAR FRIULI VENEZIA GIULIA, Sez. I - 17 dicembre
2009, n. 837
Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it
il 06/04/2010