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Abuso del diritto. Espletamento di altra attività lavorativa nel corso della fruizione dei permessi parentali.


Cassazione civ. sez. lavoro 16.6.2008, n° 16207

 

ROBERTO MONTIXI


Si configura quale condotta abusiva del diritto, la fruizione di permessi parentali di cui all’art. 32, comma 1, lett. B.) del D.Lgs 26.3.2001, n° 151 e della L. 53/2000, allorquando si accerti che nel corso di astensione facoltativa il lavoratore abbia espletato altra attività lavorativa. Tale condotta può essere, pertanto, valutata dal giudice ai fini della sussistenza della giusta causa di licenziamento disposto dal datore di lavoro.
Con la pronuncia in esame, la Corte di Legittimità coglie l’occasione fornitale dalla vertenza sottoposta alla sua attenzione per operare un interessante approfondimento sul controverso istituto dell’abuso del diritto (nella fattispecie si trattava del diritto potestativo alla fruizione di congedi parentali).
In particolare la suprema Corte sottolinea come “la titolarità di un diritto potestativo non determina mera discrezionalità ed arbitrio nell’esercizio di esso e non esclude la sindacabilità e il controlllo degli atti -mediante i quali la prerogativa viene esercitata- da parte del giudice, il cui accertamento può condurre alla declaratoria di illegittimità dell’atto e alla responsabilità civile dell’autore, con incidenza anche sul rapporto contrattuale” .
 

 


La vicenda


In esito alla verifica effettuata dalla società datrice di lavoro, era emerso che un dipendente, in astensione facoltativa dal lavoro in ragione della fruizione di congedi parentali, contemplati dall’ all’art. 32, comma 1, lett. B.) del D.Lgs 26.3.2001, in realtà prestasse attività lavorativa nella pizzeria di famiglia.
La società aveva irrogato il provvedimento disciplinare del licenziamento per giusta causa.
Il dipendente impugnava il licenziamento nanti il Tribunale di Monza che respingeva il ricorso, stante che era stato dimostrato che il ricorrente avesse utilizzato il periodo di astensione dal lavoro per occuparsi della pizzeria e non per accudire la propria figlia. In secondo grado, la Corte d’Appello di Milano accoglieva, invece, il gravame in considerazione del fatto che ciò che rilevava ai fini della legittima fruizione del congedo era il collegamento con le esigenze organizzative della famiglia, che potevano essere perseguite anche tramite tali modalità.
La Cassazione non condivide però l’avviso dei giudici d’Appello e sviluppa un interessante ragionamento che si incentra sulla funzione sostanziale della norma e sul correlato utilizzo che di tale norma –posta in questo caso a tutela del lavoratore- possa esser fatto dal beneficiario della stessa.
Illuminante sul punto un passo della sentenza in cui si precisa che “quante volte esista un diritto soggettivo, si configura necessariamente una corrispondenza oggettiva fra il potere di autonomia conferito al soggetto e l'atto di esercizio di quel potere, secondo un legame che è ben evidente nella c.d. autonomia funzionale i cui poteri sono positivamente esercitati in funzione della cura di interessi determinati, come avviene normalmente nell'autonomia pubblica ma come avviene anche, sempre più diffusamente, nell'autonomia privata, ove l'esercizio del diritto soggettivo non si ricollega più alla attuazione di un potere assoluto e imprescindibile ma presuppone un'autonomia, libera, comunque collegata alla cura di interessi, soprattutto ove si tratti -come nella specie- di interessi familiari tutelati nel contempo nell'ambito del rapporto privato e nell'ambito del rapporto con l'ente pubblico di previdenza, sì che il non esercizio o l'esercizio secondo criteri diversi da quelli richiesti dalla natura della funzione può considerarsi abuso in ordine a quel potere pure riconosciuto dall'ordinamento.
Si offre pertanto una chiara applicazione dell’istituto dell’abuso del diritto che nel caso di specie, si estrinseca nella condotta contraria alla buona fede o, comunque, lesiva della buona fede del datore di lavoro che si è visto privato ingiustamente della prestazione lavorativa del dipendente che ha sfruttato indebitamente uno strumento accordato dall’ordinamento per finalità diverse da quelle perseguite.
In definitiva, i giudici della suprema Corte affermano che “deve ritenersi verificato un abuso del diritto potestativo di congedo parentale, di cui all'art. 32, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 115 del 2001, allorché il diritto venga esercitato non per la cura diretta del bambino, bensì per attendere ad altra attività di lavoro, ancorché incidente positivamente sulla organizzazione economica e sociale della famigliae conseguentemente un abuso per sviamento dalla funzione propria del diritto, idoneo ad essere valutato dal giudice ai fini della sussistenza di una giusta causa di licenziamento, non assumendo rilievo che lo svolgimento di tale attività (nella specie, presso una pizzeria di proprietà della moglie) contribuisca ad una migliore organizzazione della famiglia".


Brevi considerazioni sull’abuso del diritto
La tematica dell’abuso del diritto rappresenta oramai da svariati decenni argomento di vivace dibattito dottrinale e terreno di approfondimento in ambito giurisprudenziale.
La stessa configurabilità di limiti a quella manifestazione di “forza e libertà” che è l’esercizio del diritto soggettivo ha, infatti, stimolato differenti ricostruzioni dogmatiche da parte degli studiosi della materia.
Ci si è domandati se le manifestazioni del diritto soggettivo, nelle varie forme sottese alle facoltà riconosciute dall’ordinamento, potessero in qualche modo subire compressioni da parte dell’ordinamento in ragione degli eventuali pregiudizi che dovessero essere arrecati ai terzi. Se una particolare modalità di esercizio del diritto soggettivo possa quindi essere inibita a causa della lesione arrecata alla sfera giuridica altrui. Ancora, ci si è interrogati se una eventuale limitazione sia compatibile con la tutela piena accordata al portatore di un diritto soggettivo; e, se si, sulla base di quali criteri sia consentito introdurre tali limiti e sulla base di quali referenti normativi.
Per abuso del diritto si suole indicare un uso abnorme del diritto, tale per cui il comportamento del titolare oltrepassa i limiti interni che il legislatore implicitamente traccia e che corrispondono alle ragioni, anche di carattere etico e sociale per le quali l’ordinamento ha riconosciuto e accordato tutela.
Si configura un travalicamento della funzione che il diritto reca con sé, una alterazione della finalità della norma. Il titolare del diritto esercita i poteri attribuitigli nel formale rispetto della norma ma con modalità tali da risultare deviate, incoerenti rispetto alle utilità perseguibili e dannose per i terzi.

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Ma per meglio chiarire i termini del problema occorre prendere le mosse da un primo profilo che deve trarsi dal diritto positivo: il codice non contiene una norma di carattere generale che sanzioni l’abuso del diritto.
L’art. 7 del progetto preliminare al codice civile del 1942, prevedeva che “nessuno può esercitare il diritto per il perseguimento di uno scopo diverso da quello per il quale gli è stato attribuito
Tale norma, però, non è stata trasfusa nel codice approvato.
Le ragioni di questo mancato inserimento vanno presumibilmente ricercate nel timore che la configurabilità di limiti, non predeterminati e non conosciuti dal titolare, all’esercizio del diritto potessero in qualche modo pregiudicare il principio di certezza del diritto. Una clausola generale quale quella di cui al citato progetto del codice civile avrebbe, infatti, a detta di parte della dottrina, attribuito un esorbitante ruolo all’interprete che, in relazione al caso sottoposto alla sua attenzione, avrebbe dovuto individuare, in sostanza, le modalità più idonee all’esercizio del diritto ogni qualvolta questo potesse tradursi in un danno per i soggetti terzi, con una penetrante opera di individuazione dello scopo della norma tesa ad individuare l’eventuale tradimento dello stesso da parte del titolare del diritto.

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La mancata previsione di una norma di carattere generale ha quindi imposto a studiosi ed interpreti di individuare specifiche norme in cui l’abuso del diritto fosse espressamente contemplato.
La norma che più delle altre si è dimostrata dotata di potenzialità applicative tali da ricoprire il ruolo di norma avente carattere generale è l’art. 833 c.c., che parla degli “atti di emulazione”.
Secondo tale norma “il proprietario non può fare atti i quali non abbiano altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri” .
Tale norma, inserita nel libro III° dedicato alla proprietà, è stata dalla Giurisprudenza dei primi anni sessanta particolarmente valorizzata.
Merita una particolare menzione la sentenza 15.11.1960 n° 3040 con la quale si è affermato che “il proprietario può commettere un illecito anche se dal suo contegno può ritrarre un’utilità, quante volte egli persegua scopi non rispondenti a quelli per i quali il diritto è protetto dall’ordinamento positivo.”
Torna, in questo caso, ad affacciarsi il ruolo fondamentale espletato dall’interprete che deve individuare lo scopo, la finalità ultima della norma che offre tutela al cittadino titolare del diritto soggettivo, al fine di compararla con la modalità di esercizio dello stesso e con l’estrinsecarsi tramite tale manifestazione, di un danno a soggetti terzi.
L’esercizio, formalmente consentito dal legislatore, del diritto da parte del titolare assume connotazioni che, in concreto, evidenziano il perseguimento di finalità difformi da quelle coerenti con lo spirito della norma, ed in quanto idonee ad arrecare un danno a terzi, non ricevono più tutela dall’ordinamento.
L’orientamento della cassazione del 1960 viene, però, presto abbandonato in ragione delle suesposte ragioni di certezza del diritto.
Si è pertanto ritenuto che: l’art. 833 non potesse ricoprire un ruolo ulteriore rispetto a quello attribuitogli dal legislatore che l’aveva inserito non a caso all’interno del libro III° dedicato ai diritti reali; che tale norma in ogni caso, se interpretata in aderenza al suo tenore letterale dovesse venire grandemente ridimensionata quanto ad ambito applicativo e che l’abuso del diritto fosse una figura che potesse di volta in volta individuarsi solo laddove specifiche norme codicistiche lo contemplassero.
Sotto tale ultimo profilo, sono state individuate, oltre al suaccennato art. 833 (che, pur riferendosi al diritto di proprietà, ha trovato costante applicazione nel più vasto ambito dei diritti reali), norme che si richiamano all’utilizzo abnorme del diritto nel libro dedicato alla famiglia (abuso della potestà genitoriale, art 330), nel settore delle obbligazioni e dei contratti (art. 1175 comportamento secondo correttezza del debitore e del creditore) art. 1375 (esecuzione del contratto secondo buona fede) art. 1366 (interpretazione secondo buona fede), etc.
Si è rilevato come tali disposizioni fossero una estrinsecazione del più generale principio di solidarietà sancito dall’art. 2 della Cost. (norma che oramai assumeva una pacifica valenza nelle relazioni intersoggettive non potendo ritenersi rivolta ai soli organi politici) e potessero temperare la formale illimitatezza del diritto soggettivo secondo moduli che tenessero in debito conto lo scopo della norma attributiva e le possibili conseguenze in capo a terzi.
La giurisprudenza più recente, come detto, ha progressivamente ridimensionato la portata applicativa dell’art. 833 c.c., ed in alcuni casi, è giunta quasi a svuotarne completamente il contenuto.
Infatti, i due connotati essenziali della norma sono stati individuati:
1.) nel fatto che l’emulatività si estrinsecasse in atti privi di alcuna utilità per il titolare del diritto.
2.) nell’esigenza che tali atti dovessero essere finalizzati a nuocere o arrecare molestia a terzi.
Con riferimento al primo profilo, la giurisprudenza ha, ad esempio, ritenuto che non potessero configurarsi come emulativi i comportamenti omissivi (ad es. la mancata cura delle siepi, la cui incontrollata crescita potesse occultare il panorama al titolare del fondo confinante) in quanto la norma in questione si riferiva ad atti e non anche ad inerzia. Si sottolineava, inoltre, che l’utilità derivante da tale inerzia era comunque riconducibile a risparmi, alle economie che il mancato intervento procurava.
Con riguardo al secondo profilo, l’ambito applicativo della norma veniva fortemente ridimensionato sotto l’ottica processuale; ciò in quanto il soggetto che lamentava il danno doveva dimostrare (e non a caso si parlava di “probatio diabolica” che riecheggiava la prova incombente sul proprietario che agiva in rivendica) l’intento doloso del danneggiante che doveva intenzionalmente tendere all’altrui lesione.
E’ evidente che una siffatta interpretazione della norma fosse alquanto riduttiva.
Non sono dunque mancate timide aperture dettate dall’esigenza di accordare una qualche tutela al terzo danneggiato.
In particolare si è profilato un filone interpretativo che ha ritenuto doveroso operare una comparazione tra l’utilità perseguita dal titolare del diritto di proprietà ed il danno arrecato al fine di individuare in questo caso il superamento del limite interno connaturato all’esercizio di qualsiasi diritto in ragione dei citati principi di solidarietà sociale.
Sotto altro profilo si è modulato in modo meno rigoroso l’onere probatorio in capo al danneggiato riguardante l’elemento soggettivo.
Rispetto all’”animus nocendi”, la giurisprudenza ha, in alcune occasioni, ritenuto sufficiente la cd. “scientia damni” ovvero la mera consapevolezza della condotta dannosa, in alcuni casi insita nella stessa assenza di utilità ricavata dalla condotta per l titolare del diritto e nel danno arrecato.
Anche di recente la Corte di cassazione (sentenza n° 13732, del 27 giugno 2005) pur ribadendo i tradizionali confini dell’abuso del diritto ha operato una comparazione tra utilità tratte e danno arrecato individuando in tale raffronto il fulcro della valutazione operata dal giudice in vista della tutela di volta in volta invocata.


Corte di cassazione
Sezione lavoro
Sentenza 16 giugno 2008, n. 16207


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza depositata il 25 febbraio 2003, il Tribunale di Monza, in funzione di giudice del lavoro, respingeva il ricorso di Giuseppe M. inteso ad impugnare il licenziamento per giusta causa intimatogli dalla datrice di lavoro s.p.a. Electrolux Zanussi per avere fatto uso improprio del periodo di astensione facoltativa dal lavoro, di cui alla l. n. 53 del 2000. In particolare, il Tribunale rilevava che era rimasto provato che il M. avesse utilizzato l'astensione facoltativa per occuparsi della pizzeria con asporto appena acquistata dalla moglie, e non per accudire la propria figliola, e riteneva che tale circostanza valesse a configurare la giusta causa di recesso, sul presupposto che la legge non tutela ex se l'astensione dal lavoro, cioè a prescindere dall'uso che ne faccia il lavoratore.

Tale decisione veniva impugnata dal M., il quale contestava la valutazione delle prove operata dal Tribunale e sosteneva che, comunque, non v'era alcun divieto di svolgere attività di lavoro nel periodo di congedo; deduceva, in subordine, che la sanzione espulsiva non era proporzionata rispetto al fatto contestato.

Costituitasi la società datrice di lavoro, che resisteva al gravame, la Corte d'appello di Milano, con sentenza depositata il 30 agosto 2004, in riforma della sentenza di primo grado annullava il licenziamento e ordinava la reintegrazione del M. nel posto di lavoro, condannando la Electrolux a corrispondere al medesimo le retribuzioni arretrate e compensando fra le parti le spese di giudizio.

I giudici d'appello osservavano che unica condizione per l'esercizio del diritto al congedo parentale è il suo collegamento con le esigenze organizzative della famiglia nei primi anni di vita del bambino, dovendosi considerare, al riguardo, la diversità della situazione in esame rispetto all'ipotesi del lavoratore assente per malattia che presti attività lavorativa in favore di terzi e, al contrario, la sua analogia con la ipotesi del lavoratore in permesso sindacale, caratterizzata semplicemente dalla connessione del permesso con l'attività sindacale. Con questi presupposti, era del tutto irrilevante accertare se il lavoratore si fosse occupato anche della cura della figlia e se l'attività da lui svolta nell'azienda intestata alla moglie fosse non continuativa, essendo comunque tale attività finalizzata a soddisfare un'esigenza della famiglia, sì da integrare, per ciò solo, il legittimo esercizio del congedo; il licenziamento, pertanto, si rivelava privo di giusta causa e meritevole di annullamento.

Di questa sentenza la società Electrolux Home Products Italy s.p.a. (già Electrolux Zanussi s.p.a.) domanda la cassazione con ricorso affidato a sei motivi, illustrati anche con memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.

Il M. resiste con controricorso.


MOTIVI DELLA DECISIONE


1. Il ricorso contiene sei motivi di impugnazione.

1.1. Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 1 ss. l. n. 53 del 2000 e degli art. 1 ss. e 32 ss. d.lgs. n. 115 del 2003, erronea interpretazione della legge ex art. 12 preleggi e difetto di motivazione. Si lamenta che la Corte d'appello abbia male interpretato la normativa sul congedo parentale, ritenendo erroneamente che quest'ultimo debba essere concesso in un caso non contemplato dalla legge e non giustificato da alcuna ragione, e si sostiene che, in base alla stessa direttiva europea che ha promosso l'intervento del legislatore nazionale (direttiva 96/34/CE) nonché alla stregua dell'intervento della Corte costituzionale (in particolare, con la sentenza n. 104 del 2003), l'attribuzione del diritto all'astensione facoltativa anche al padre lavoratore è condizionata all'effettivo perseguimento della finalità di sviluppare in modo armonico la personalità del bambino favorendone l'inserimento nella famiglia e nella società, mentre la sentenza impugnata - a dire della ricorrente - ha individuato una ratio legis, cioè l'esigenza di aiutare l'organizzazione familiare, del tutto assente nella normativa in esame, che, al contrario, e soprattutto con riferimento alla disciplina di cui al d.lgs. n. 151 del 2001 applicabile nella controversia in esame, intende tutelare, piuttosto, la paternità assicurando al padre un sostegno economico per l'accudimento diretto della prole.

1.2. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 437 e 112 c.p.c. e dell'art. 2697 c.c., nonché vizio di motivazione. Si deduce che il lavoratore aveva in primo grado sostenuto esclusivamente di avere utilizzato il congedo per assistere la propria bambina e solo in appello, a seguito delle sfavorevoli acquisizioni istruttorie al riguardo, aveva dedotto di avere comunque contribuito alle esigenze familiari, così operando una inammissibile modifica della domanda, che erroneamente - secondo la ricorrente - non è stata rilevata dal giudice d'appello, in violazione del divieto di proposizione di nuove domande e del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato; il medesimo giudice, peraltro, è incorso anche nella violazione dell'art. 2697 c.c., avendo mancato di rilevare che nessuna prova il lavoratore aveva offerto in ordine alla sussistenza delle dedotte esigenze familiari, soprattutto in relazione al ruolo e alla presenza della moglie all'interno della famiglia.

1.3. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2104 c.c. e vizio di motivazione, lamentandosi che la Corte di merito abbia erroneamente ritenuto che la richiesta di congedo escluda di per sé ogni possibile controllo in ordine alla corrispondenza causale fra ragioni dell'assenza dal lavoro e attività da lui svolta.

1.4. Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2106 c.c. e vizio di motivazione, deducendosi che la illiceità del comportamento del M. ha integrato una giusta causa di licenziamento, avendo determinato il venir meno della fiducia datoriale e il pericolo di disincentivazione degli altri dipendenti.

1.5. Il quinto motivo denuncia violazione della l. n. 604 del 1966 e difetto di motivazione, per non avere i giudici di merito esaminato - anche d'ufficio - la sussistenza, almeno, di un giustificato motivo di licenziamento, sotto il profilo della gravità dell'inadempimento del contratto di lavoro.

1.6. Il sesto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 1227 c.c. e vizio di motivazione, lamentandosi, in subordine, che la Corte territoriale nella determinazione del risarcimento non abbia tenuto conto di compensi e retribuzioni percepiti dal M. prima e dopo del licenziamento.

2. Per ordine logico deve esaminarsi dapprima il secondo motivo, che involge la stessa ammissibilità in appello delle questioni decise dalla Corte di merito.

Il motivo non è fondato.

La sentenza impugnata, nell'accogliere l'appello del M., ha ritenuto che questi avesse legittimamente esercitato il diritto al congedo parentale, alla stregua di un'interpretazione della relativa disciplina normativa che riconnette tale diritto esclusivamente ad un'esigenza di organizzazione familiare. Così ritenendo, i giudici d'appello hanno conseguentemente escluso la sussistenza della giusta causa di licenziamento - identificata appunto, secondo la contestazione datoriale, nella illecita utilizzazione di tale congedo - a prescindere da ogni accertamento relativo alla durata, all'orario e alle modalità dell'attività svolta dal lavoratore, nel periodo di congedo, presso la pizzeria intestata alla moglie. Tale interpretazione è stata dunque ammissibilmente operata dal giudice d'appello nell'ambito del principio jura novit curia e, perciò, prescindendo dalla tempestività e novità della relativa allegazione della parte interessata; e, peraltro, nessuna violazione del principio dell'onere della prova risulta verificata, poiché la controversia è stata decisa solo in punto di diritto, con assorbimento delle questioni riguardanti la valutazione delle prove in ordine alla presenza del M. e della moglie presso l'azienda di quest'ultima.

3. Il primo e il terzo motivo, congiuntamente esaminati perché intimamente connessi, sono invece fondati non potendosi condividere la predetta interpretazione fornita dalla Corte territoriale.

3.1. Una sommaria ricognizione del contesto normativo riguardante le prestazioni previdenziali e assistenziali connesse alla protezione sociale della famiglia consente di rilevare, anzitutto, che la giurisprudenza costituzionale ha affermato, fin dagli anni ottanta, l'operatività della garanzia costituzionale - precipuamente riferita all'art. 31 Cost. - anche in situazioni indipendenti dall'evento della maternità naturale, riferibili anche alla paternità, sul presupposto che la tutela assolve anche alle esigenze di carattere relazionale ed affettivo che sono collegate allo sviluppo della personalità del bambino (e che vanno soddisfatte anche nel caso dell'affidamento, garantendo una paritetica partecipazione di entrambi i coniugi alla cura ed educazione della prole, senza distinzione o separazione dei ruoli fra uomo e donna) (cfr. Corte cost. n. 1 del 1987; n. 179 del 1993).

La successiva evoluzione del quadro normativo, secondo le linee indicate da questa giurisprudenza, ha portato - in base alla delega contenuta nella l. 8 marzo 2000, n. 53 - alla introduzione del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151.

L'art. 1, lett. a), della l. n. 53 del 2000 prevede l'istituzione dei congedi dei genitori in relazione alla generale finalità di promuovere il sostegno della maternità e della paternità.

L'art. 32 del d.lgs. n. 151 del 2001 prevede i congedi parentali e dispone che per ogni bambino, nei suoi primi otto anni di vita, ciascun genitore ha diritto di astenersi dal lavoro; tale diritto compete: alla madre lavoratrice, trascorso il periodo di congedo di maternità, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi (comma 1, lett. a); al padre lavoratore, dalla nascita del figlio, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi (comma 1, lett. b). Il congedo parentale spetta al genitore richiedente anche qualora l'altro genitore non ne abbia diritto (comma 4); ai fini dell'esercizio del diritto il genitore è tenuto, salvi i casi di oggettiva impossibilità, a preavvisare il datore di lavoro secondo modalità e criteri definiti dai contratti collettivi, e comunque con un periodo di preavviso non inferiore a quindici giorni (comma 3). Per i periodi di congedo parentale alle lavoratrici e ai lavoratori è dovuta un'indennità, calcolata in misura percentuale sulla retribuzione secondo le modalità previste per il congedo di maternità (art. 34, commi 1 e 4).

Alla stregua di tale disciplina, il congedo parentale - nella specie, spettante al padre lavoratore - si configura come un diritto potestativo costituito dal comportamento con cui il titolare realizza da solo l'interesse tutelato e a cui fa riscontro, nell'altra parte, una mera soggezione alle conseguenze della dichiarazione di volontà. Tale diritto, in particolare, viene esercitato, con il solo onere del preavviso, sia nei confronti del datore di lavoro, nell'ambito del contratto di lavoro subordinato, con la conseguente sospensione della prestazione del dipendente, sia nei confronti dell'ente previdenziale, nell'ambito del rapporto assistenziale che si costituisce ex lege per il periodo di congedo, con il conseguente obbligo del medesimo ente di corrispondere l'indennità.

3.2. Come riconoscono gli stessi giudici di appello, la configurazione di tale diritto non esclude la verifica delle modalità del suo esercizio, per mezzo di accertamenti probatori consentiti dall'ordinamento, ai fini della qualificazione del comportamento del lavoratore negli ambiti suddetti (quello del rapporto negoziale e quello del rapporto assistenziale). Tale verifica, che nella fattispecie è stata compiuta soprattutto in base alle stesse dichiarazioni del lavoratore e secondo acquisizioni la cui validità non è in contestazione fra le parti, trova giustificazione, sul piano sistematico, nella considerazione che - precipuamente nella materia in esame - anche la titolarità di un diritto potestativo non determina mera discrezionalità e arbitrio nell'esercizio di esso e non esclude la sindacabilità e il controllo degli atti - mediante i quali la prerogativa viene esercitata - da parte del giudice, il cui accertamento può condurre alla declaratoria di illegittimità dell'atto e alla responsabilità civile dell'autore, con incidenza anche sul rapporto contrattuale. La configurazione e i limiti di questo controllo giudiziale sono stati oggetto di una precisa evoluzione nella giurisprudenza di questa Corte, che, in virtù della crescente valorizzazione dei principi di correttezza e buona fede e della operatività di essi in sinergia con il valore costituzionale della solidarietà (in particolare con riferimento ai rapporti di credito e debito nascenti dal negozio: cfr. Cass. n. 10511 del 1999 e Cass., sez. un., n. 18128 del 2005, in materia di determinazione e riduzione della clausola penale), ha anche segnato limiti e criteri dell'esercizio del diritto nell'ambito del processo, identificando forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, che l'ordinamento riconosce al titolare del diritto e che costituisce la ragione dell'attribuzione al medesimo titolare della potestas agendi (cfr. Cass., sez. un., n. 23726 del 2007, in materia di frazionamento della domanda di adempimento di un'unica pretesa creditoria).

3.3. Ma, più in generale, si deve osservare che l'individuazione, sempre più frequente nel c.d. diritto applicato, di singole fattispecie riconducibili a tale sviamento, derivanti dallo sviluppo del quadro normativo e dalla complessità delle tutele riconosciute ai soggetti, anche in relazione all'attuazione di principi costituzionali e all'incidenza di norme e criteri di diritto internazionale che interagiscono con l'ordinamento interno, richiede - come la dottrina non ha mancato di rilevare - una concezione dei diritti soggettivi, e di tutte le prerogative che sono oggetto di riconoscimento normativo, fondata ormai sulla precisa identificazione delle sostanziali funzioni che la norma positiva attribuisce al diritto soggettivo e delle conseguenze, non meramente risarcitorie, che ricadono sul rapporto giuridico per effetto della deviazione da tali funzioni, secondo una costruzione ben diversa da quella tradizionalmente adottata, che colloca invece il predetto sviamento fuori dall'ambito del diritto soggettivo e finisce per qualificarlo come un normale illecito, in quanto integrante un eccesso dal diritto.

Orbene, si deve ritenere in generale che quante volte esista un diritto soggettivo si configura necessariamente una corrispondenza oggettiva fra il potere di autonomia conferito al soggetto e l'atto di esercizio di quel potere, secondo un legame che è ben evidente nella c.d. autonomia funzionale i cui poteri sono positivamente esercitati in funzione della cura di interessi determinati, come avviene normalmente nell'autonomia pubblica ma come avviene anche, sempre più diffusamente, nell'autonomia privata, ove l'esercizio del diritto soggettivo non si ricollega più alla attuazione di un potere assoluto e imprescindibile ma presuppone un'autonomia, libera, comunque collegata alla cura di interessi, soprattutto ove si tratti - come nella specie - di interessi familiari tutelati nel contempo nell'ambito del rapporto privato e nell'ambito del rapporto con l'ente pubblico di previdenza, sì che il non esercizio o l'esercizio secondo criteri diversi da quelli richiesti dalla natura della funzione può considerarsi abuso in ordine a quel potere pure riconosciuto dall'ordinamento. E ben s'intende come la immanenza di una siffatta funzione in ogni diritto, e massimamente in quelli che corrispondono a interessi, non meramente economici, costituzionalmente protetti, non richiede una previsione specifica, con una positiva regolamentazione: e ciò spiega perché, in via eccezionale, tale specificità sia stata invece richiesta, con il divieto di atti emulativi previsto dall'art. 833 del codice civile, in relazione alla ampiezza e al contenuto del diritto di proprietà e alla correlativa esigenza di riconoscere un limite funzionale a un potere tradizionalmente illimitato, imprescrittibile e comprensivo dello jus abutendi, sino alla costituzionalizzazione della sua funzione sociale (art. 42 Cost.).

L'abuso del diritto, così inteso, può dunque avvenire sotto forme diverse, a seconda del rapporto cui esso inerisce, sicché, con riferimento al caso di specie, rileva la condotta contraria alla buona fede, o comunque lesiva della buona fede altrui, nei confronti del datore di lavoro, che in presenza di un abuso del diritto di congedo si vede privato ingiustamente della prestazione lavorativa del dipendente e sopporta comunque una lesione (la cui gravità va valutata in concreto) dell'affidamento da lui riposto nel medesimo, mentre rileva l'indebita percezione dell'indennità e lo sviamento dell'intervento assistenziale nei confronti dell'ente di previdenza erogatore del trattamento economico.

3.4. In base al descritto criterio della funzione, deve ritenersi verificato un abuso del diritto potestativo di congedo parentale, di cui all'art. 32, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 115 del 2001, allorché il diritto venga esercitato non per la cura diretta del bambino, bensì per attendere ad altra attività di lavoro, ancorché incidente positivamente sulla organizzazione economica e sociale della famiglia.

Anche per tale congedo, infatti, si configura una ratio del tutto analoga a quella delineata dalla Corte costituzionale nelle pronunce che, come s'è visto, hanno storicamente influenzato le scelte del legislatore nella emanazione della legge delega del 2000 e del successivo testo unico del 2001: in particolare, con le sentenze n. 104 del 2003, n. 371 del 2003 e n. 385 del 2005 i giudici costituzionali hanno ribadito come la tutela della paternità si risolva in misure volte a garantire il rapporto del padre con la prole in modo da soddisfare i bisogni affettivi e relazionali del bambino al fine dell'armonico e sereno sviluppo della sua personalità e del suo inserimento nella famiglia; tutte esigenze che, richiedendo evidentemente la presenza del padre accanto al bambino, sono impedite dallo svolgimento dell'attività lavorativa e impongono pertanto la sospensione di questa, affinché il padre dedichi alla cura del figlio il tempo che avrebbe invece dovuto dedicare al lavoro. Si comprende, allora, che una siffatta conversione delle ore di lavoro, se pure non deve essere intesa alla stregua di una rigida sovrapponibilità temporale, non può però ammettere un'accudienza soltanto indiretta, per interposta persona, mediante il solo contributo ad una migliore organizzazione della vita familiare, poiché quest'ultima esigenza può essere assicurata da altri istituti (contrattuali o legali) che solo indirettamente influiscono sulla vita del bambino e che, in ogni caso, mirano al soddisfacimento di necessità diverse da quella tutelata con il congedo parentale, il quale non attiene ad esigenze puramente fisiologiche del minore ma, specificamente, intende appagare i suoi bisogni affettivi e relazionali onde realizzare il pieno sviluppo della sua personalità sin dal momento dell'ingresso nella famiglia.

Con questi presupposti, si rivela insostenibile, nella controversia in esame, la tesi della realizzazione di tali esigenze della figlia minorenne attraverso lo svolgimento di attività lavorativa, da parte del padre in congedo, nella pizzeria della moglie. Al contrario, esclusa tale possibilità e considerato che il legittimo esercizio del congedo postula la presenza del padre accanto alla propria bambina, sarebbe stato necessario valutare le risultanze istruttorie acquisite in giudizio onde accertare se e con quali modalità tale presenza si sia realizzata e come siano state utilizzate, in concreto, le ore della giornata rese
disponibili per effetto del congedo.

3.5. Devono accogliersi, perciò, le censure della società ricorrente contenute nel primo e nel terzo motivo, mentre restano assorbite le censure di cui ai motivi quarto, quinto e sesto.

3.6. La sentenza impugnata va dunque cassata in relazione ai motivi accolti e la causa va rinviata ad altro giudice d'appello, designato nella Corte d'appello di Brescia, il quale procederà a nuovo esame della controversia attenendosi al seguente principio di diritto:

"L'art. 32, comma 1, lett. b), del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, nel prevedere - in attuazione della legge-delega 8 marzo 2000, n. 53 - che il lavoratore possa astenersi dal lavoro nei primi otto anni di vita del figlio, percependo dall'ente previdenziale un'indennità commisurata ad una parte della retribuzione, configura un diritto potestativo che il padre-lavoratore può esercitare nei confronti del datore di lavoro, nonché dell'ente tenuto all'erogazione dell'indennità, onde garantire con la propria presenza il soddisfacimento dei bisogni affettivi del bambino e della sua esigenza di un pieno inserimento nella famiglia; pertanto, ove si accerti che il periodo di congedo viene invece utilizzato dal padre per svolgere una diversa attività lavorativa, si configura un abuso per sviamento dalla funzione propria del diritto, idoneo ad essere valutato dal giudice ai fini della sussistenza di una giusta causa di licenziamento, non assumendo rilievo che lo svolgimento di tale attività (nella specie, presso una pizzeria di proprietà della moglie) contribuisca ad una migliore organizzazione della famiglia".

Il medesimo giudice di rinvio pronuncerà altresì sulle spese del giudizio di cassazione.


P.Q.M.


La Corte accoglie il primo e il terzo motivo di ricorso, rigetta il secondo e dichiara assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte d'appello di Brescia anche per le spese del giudizio di cassazione.
 

 


Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it il 26/09/2008

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