AmbienteDiritto.it - Rivista giuridica - Electronic Law Review - Copyright © AmbienteDiritto.it
Testata registrata presso il Tribunale di Patti Reg. n. 197 del 19/07/2006
Abuso del diritto. Espletamento di altra attività lavorativa nel corso della fruizione dei permessi parentali.
Cassazione civ. sez. lavoro 16.6.2008, n° 16207
ROBERTO MONTIXI
Si configura quale condotta abusiva del diritto, la fruizione di permessi
parentali di cui all’art. 32, comma 1, lett. B.) del D.Lgs 26.3.2001, n° 151 e
della L. 53/2000, allorquando si accerti che nel corso di astensione facoltativa
il lavoratore abbia espletato altra attività lavorativa. Tale condotta può
essere, pertanto, valutata dal giudice ai fini della sussistenza della giusta
causa di licenziamento disposto dal datore di lavoro.
Con la pronuncia in esame, la Corte di Legittimità coglie l’occasione
fornitale dalla vertenza sottoposta alla sua attenzione per operare un
interessante approfondimento sul controverso istituto dell’abuso del diritto
(nella fattispecie si trattava del diritto potestativo alla fruizione di congedi
parentali).
In particolare la suprema Corte sottolinea come “la titolarità di un diritto
potestativo non determina mera discrezionalità ed arbitrio nell’esercizio di
esso e non esclude la sindacabilità e il controlllo degli atti -mediante i quali
la prerogativa viene esercitata- da parte del giudice, il cui accertamento può
condurre alla declaratoria di illegittimità dell’atto e alla responsabilità
civile dell’autore, con incidenza anche sul rapporto contrattuale” .
La vicenda
In esito alla verifica effettuata dalla società datrice di lavoro, era
emerso che un dipendente, in astensione facoltativa dal lavoro in ragione della
fruizione di congedi parentali, contemplati dall’ all’art. 32, comma 1, lett.
B.) del D.Lgs 26.3.2001, in realtà prestasse attività lavorativa nella pizzeria
di famiglia.
La società aveva irrogato il provvedimento disciplinare del licenziamento per
giusta causa.
Il dipendente impugnava il licenziamento nanti il Tribunale di Monza che
respingeva il ricorso, stante che era stato dimostrato che il ricorrente avesse
utilizzato il periodo di astensione dal lavoro per occuparsi della pizzeria e
non per accudire la propria figlia. In secondo grado, la Corte d’Appello di
Milano accoglieva, invece, il gravame in considerazione del fatto che ciò che
rilevava ai fini della legittima fruizione del congedo era il collegamento con
le esigenze organizzative della famiglia, che potevano essere perseguite anche
tramite tali modalità.
La Cassazione non condivide però l’avviso dei giudici d’Appello e sviluppa un
interessante ragionamento che si incentra sulla funzione sostanziale della norma
e sul correlato utilizzo che di tale norma –posta in questo caso a tutela del
lavoratore- possa esser fatto dal beneficiario della stessa.
Illuminante sul punto un passo della sentenza in cui si precisa che “quante
volte esista un diritto soggettivo, si configura necessariamente una
corrispondenza oggettiva fra il potere di autonomia conferito al soggetto e
l'atto di esercizio di quel potere, secondo un legame che è ben evidente
nella c.d. autonomia funzionale i cui poteri sono positivamente esercitati in
funzione della cura di interessi determinati, come avviene normalmente
nell'autonomia pubblica ma come avviene anche, sempre più diffusamente,
nell'autonomia privata, ove l'esercizio del diritto soggettivo non si
ricollega più alla attuazione di un potere assoluto e imprescindibile ma
presuppone un'autonomia, libera, comunque collegata alla cura di interessi,
soprattutto ove si tratti -come nella specie- di interessi familiari tutelati
nel contempo nell'ambito del rapporto privato e nell'ambito del rapporto con
l'ente pubblico di previdenza, sì che il non esercizio o l'esercizio secondo
criteri diversi da quelli richiesti dalla natura della funzione può considerarsi
abuso in ordine a quel potere pure riconosciuto dall'ordinamento. “
Si offre pertanto una chiara applicazione dell’istituto dell’abuso del diritto
che nel caso di specie, si estrinseca nella condotta contraria alla buona fede
o, comunque, lesiva della buona fede del datore di lavoro che si è visto privato
ingiustamente della prestazione lavorativa del dipendente che ha sfruttato
indebitamente uno strumento accordato dall’ordinamento per finalità diverse da
quelle perseguite.
In definitiva, i giudici della suprema Corte affermano che “deve ritenersi
verificato un abuso del diritto potestativo di congedo parentale, di cui
all'art. 32, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 115 del 2001, allorché il diritto
venga esercitato non per la cura diretta del bambino, bensì per attendere ad
altra attività di lavoro, ancorché incidente positivamente sulla organizzazione
economica e sociale della famiglia” e conseguentemente un abuso per
sviamento dalla funzione propria del diritto, idoneo ad essere valutato dal
giudice ai fini della sussistenza di una giusta causa di licenziamento, non
assumendo rilievo che lo svolgimento di tale attività (nella specie, presso una
pizzeria di proprietà della moglie) contribuisca ad una migliore organizzazione
della famiglia".
Brevi considerazioni sull’abuso del diritto
La tematica dell’abuso del diritto rappresenta oramai da svariati
decenni argomento di vivace dibattito dottrinale e terreno di approfondimento in
ambito giurisprudenziale.
La stessa configurabilità di limiti a quella manifestazione di “forza e libertà”
che è l’esercizio del diritto soggettivo ha, infatti, stimolato differenti
ricostruzioni dogmatiche da parte degli studiosi della materia.
Ci si è domandati se le manifestazioni del diritto soggettivo, nelle varie forme
sottese alle facoltà riconosciute dall’ordinamento, potessero in qualche modo
subire compressioni da parte dell’ordinamento in ragione degli eventuali
pregiudizi che dovessero essere arrecati ai terzi. Se una particolare modalità
di esercizio del diritto soggettivo possa quindi essere inibita a causa della
lesione arrecata alla sfera giuridica altrui. Ancora, ci si è interrogati se una
eventuale limitazione sia compatibile con la tutela piena accordata al portatore
di un diritto soggettivo; e, se si, sulla base di quali criteri sia consentito
introdurre tali limiti e sulla base di quali referenti normativi.
Per abuso del diritto si suole indicare un uso abnorme del diritto, tale per cui
il comportamento del titolare oltrepassa i limiti interni che il legislatore
implicitamente traccia e che corrispondono alle ragioni, anche di carattere
etico e sociale per le quali l’ordinamento ha riconosciuto e accordato tutela.
Si configura un travalicamento della funzione che il diritto reca con sé, una
alterazione della finalità della norma. Il titolare del diritto esercita i
poteri attribuitigli nel formale rispetto della norma ma con modalità tali da
risultare deviate, incoerenti rispetto alle utilità perseguibili e dannose per i
terzi.
******
Ma per meglio chiarire
i termini del problema occorre prendere le mosse da un primo profilo che deve
trarsi dal diritto positivo: il codice non contiene una norma di carattere
generale che sanzioni l’abuso del diritto.
L’art. 7 del progetto preliminare al codice civile del 1942, prevedeva che “nessuno
può esercitare il diritto per il perseguimento di uno scopo diverso da quello
per il quale gli è stato attribuito”
Tale norma, però, non è stata trasfusa nel codice approvato.
Le ragioni di questo mancato inserimento vanno presumibilmente ricercate nel
timore che la configurabilità di limiti, non predeterminati e non conosciuti dal
titolare, all’esercizio del diritto potessero in qualche modo pregiudicare il
principio di certezza del diritto. Una clausola generale quale quella di
cui al citato progetto del codice civile avrebbe, infatti, a detta di parte
della dottrina, attribuito un esorbitante ruolo all’interprete che, in relazione
al caso sottoposto alla sua attenzione, avrebbe dovuto individuare, in sostanza,
le modalità più idonee all’esercizio del diritto ogni qualvolta questo potesse
tradursi in un danno per i soggetti terzi, con una penetrante opera di
individuazione dello scopo della norma tesa ad individuare l’eventuale
tradimento dello stesso da parte del titolare del diritto.
******
La mancata previsione
di una norma di carattere generale ha quindi imposto a studiosi ed interpreti di
individuare specifiche norme in cui l’abuso del diritto fosse espressamente
contemplato.
La norma che più delle altre si è dimostrata dotata di potenzialità applicative
tali da ricoprire il ruolo di norma avente carattere generale è l’art. 833 c.c.,
che parla degli “atti di emulazione”.
Secondo tale norma “il proprietario non può fare atti i quali non abbiano
altro scopo che quello di nuocere o recare molestia ad altri” .
Tale norma, inserita nel libro III° dedicato alla proprietà, è stata dalla
Giurisprudenza dei primi anni sessanta particolarmente valorizzata.
Merita una particolare menzione la sentenza 15.11.1960 n° 3040 con la quale si è
affermato che “il proprietario può commettere un illecito anche se dal suo
contegno può ritrarre un’utilità, quante volte egli persegua scopi non
rispondenti a quelli per i quali il diritto è protetto dall’ordinamento positivo.”
Torna, in questo caso, ad affacciarsi il ruolo fondamentale espletato
dall’interprete che deve individuare lo scopo, la finalità ultima della norma
che offre tutela al cittadino titolare del diritto soggettivo, al fine di
compararla con la modalità di esercizio dello stesso e con l’estrinsecarsi
tramite tale manifestazione, di un danno a soggetti terzi.
L’esercizio, formalmente consentito dal legislatore, del diritto da parte del
titolare assume connotazioni che, in concreto, evidenziano il perseguimento di
finalità difformi da quelle coerenti con lo spirito della norma, ed in quanto
idonee ad arrecare un danno a terzi, non ricevono più tutela dall’ordinamento.
L’orientamento della cassazione del 1960 viene, però, presto abbandonato in
ragione delle suesposte ragioni di certezza del diritto.
Si è pertanto ritenuto che: l’art. 833 non potesse ricoprire un ruolo ulteriore
rispetto a quello attribuitogli dal legislatore che l’aveva inserito non a caso
all’interno del libro III° dedicato ai diritti reali; che tale norma in ogni
caso, se interpretata in aderenza al suo tenore letterale dovesse venire
grandemente ridimensionata quanto ad ambito applicativo e che l’abuso del
diritto fosse una figura che potesse di volta in volta individuarsi solo laddove
specifiche norme codicistiche lo contemplassero.
Sotto tale ultimo profilo, sono state individuate, oltre al suaccennato art. 833
(che, pur riferendosi al diritto di proprietà, ha trovato costante applicazione
nel più vasto ambito dei diritti reali), norme che si richiamano all’utilizzo
abnorme del diritto nel libro dedicato alla famiglia (abuso della potestà
genitoriale, art 330), nel settore delle obbligazioni e dei contratti (art. 1175
comportamento secondo correttezza del debitore e del creditore) art. 1375
(esecuzione del contratto secondo buona fede) art. 1366 (interpretazione secondo
buona fede), etc.
Si è rilevato come tali disposizioni fossero una estrinsecazione del più
generale principio di solidarietà sancito dall’art. 2 della Cost. (norma che
oramai assumeva una pacifica valenza nelle relazioni intersoggettive non potendo
ritenersi rivolta ai soli organi politici) e potessero temperare la formale
illimitatezza del diritto soggettivo secondo moduli che tenessero in debito
conto lo scopo della norma attributiva e le possibili conseguenze in capo a
terzi.
La giurisprudenza più recente, come detto, ha progressivamente ridimensionato la
portata applicativa dell’art. 833 c.c., ed in alcuni casi, è giunta quasi a
svuotarne completamente il contenuto.
Infatti, i due connotati essenziali della norma sono stati individuati:
1.) nel fatto che l’emulatività si estrinsecasse in atti privi di alcuna
utilità per il titolare del diritto.
2.) nell’esigenza che tali atti dovessero essere finalizzati a nuocere o
arrecare molestia a terzi.
Con riferimento al primo profilo, la giurisprudenza ha, ad esempio, ritenuto che
non potessero configurarsi come emulativi i comportamenti omissivi (ad es. la
mancata cura delle siepi, la cui incontrollata crescita potesse occultare il
panorama al titolare del fondo confinante) in quanto la norma in questione si
riferiva ad atti e non anche ad inerzia. Si sottolineava, inoltre, che l’utilità
derivante da tale inerzia era comunque riconducibile a risparmi, alle economie
che il mancato intervento procurava.
Con riguardo al secondo profilo, l’ambito applicativo della norma veniva
fortemente ridimensionato sotto l’ottica processuale; ciò in quanto il soggetto
che lamentava il danno doveva dimostrare (e non a caso si parlava di “probatio
diabolica” che riecheggiava la prova incombente sul proprietario che agiva
in rivendica) l’intento doloso del danneggiante che doveva intenzionalmente
tendere all’altrui lesione.
E’ evidente che una siffatta interpretazione della norma fosse alquanto
riduttiva.
Non sono dunque mancate timide aperture dettate dall’esigenza di accordare una
qualche tutela al terzo danneggiato.
In particolare si è profilato un filone interpretativo che ha ritenuto doveroso
operare una comparazione tra l’utilità perseguita dal titolare del diritto di
proprietà ed il danno arrecato al fine di individuare in questo caso il
superamento del limite interno connaturato all’esercizio di qualsiasi diritto in
ragione dei citati principi di solidarietà sociale.
Sotto altro profilo si è modulato in modo meno rigoroso l’onere probatorio in
capo al danneggiato riguardante l’elemento soggettivo.
Rispetto all’”animus nocendi”, la giurisprudenza ha, in alcune occasioni,
ritenuto sufficiente la cd. “scientia damni” ovvero la mera
consapevolezza della condotta dannosa, in alcuni casi insita nella stessa
assenza di utilità ricavata dalla condotta per l titolare del diritto e nel
danno arrecato.
Anche di recente la Corte di cassazione (sentenza n° 13732, del 27 giugno 2005)
pur ribadendo i tradizionali confini dell’abuso del diritto ha operato una
comparazione tra utilità tratte e danno arrecato individuando in tale raffronto
il fulcro della valutazione operata dal giudice in vista della tutela di volta
in volta invocata.
Corte di cassazione
Sezione lavoro
Sentenza 16 giugno 2008, n. 16207
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con sentenza depositata
il 25 febbraio 2003, il Tribunale di Monza, in funzione di giudice del lavoro,
respingeva il ricorso di Giuseppe M. inteso ad impugnare il licenziamento per
giusta causa intimatogli dalla datrice di lavoro s.p.a. Electrolux Zanussi per
avere fatto uso improprio del periodo di astensione facoltativa dal lavoro, di
cui alla l. n. 53 del 2000. In particolare, il Tribunale rilevava che era
rimasto provato che il M. avesse utilizzato l'astensione facoltativa per
occuparsi della pizzeria con asporto appena acquistata dalla moglie, e non per
accudire la propria figliola, e riteneva che tale circostanza valesse a
configurare la giusta causa di recesso, sul presupposto che la legge non tutela
ex se l'astensione dal lavoro, cioè a prescindere dall'uso che ne faccia il
lavoratore.
Tale decisione veniva impugnata dal M., il quale contestava la valutazione delle
prove operata dal Tribunale e sosteneva che, comunque, non v'era alcun divieto
di svolgere attività di lavoro nel periodo di congedo; deduceva, in subordine,
che la sanzione espulsiva non era proporzionata rispetto al fatto contestato.
Costituitasi la società datrice di lavoro, che resisteva al gravame, la Corte
d'appello di Milano, con sentenza depositata il 30 agosto 2004, in riforma della
sentenza di primo grado annullava il licenziamento e ordinava la reintegrazione
del M. nel posto di lavoro, condannando la Electrolux a corrispondere al
medesimo le retribuzioni arretrate e compensando fra le parti le spese di
giudizio.
I giudici d'appello osservavano che unica condizione per l'esercizio del diritto
al congedo parentale è il suo collegamento con le esigenze organizzative della
famiglia nei primi anni di vita del bambino, dovendosi considerare, al riguardo,
la diversità della situazione in esame rispetto all'ipotesi del lavoratore
assente per malattia che presti attività lavorativa in favore di terzi e, al
contrario, la sua analogia con la ipotesi del lavoratore in permesso sindacale,
caratterizzata semplicemente dalla connessione del permesso con l'attività
sindacale. Con questi presupposti, era del tutto irrilevante accertare se il
lavoratore si fosse occupato anche della cura della figlia e se l'attività da
lui svolta nell'azienda intestata alla moglie fosse non continuativa, essendo
comunque tale attività finalizzata a soddisfare un'esigenza della famiglia, sì
da integrare, per ciò solo, il legittimo esercizio del congedo; il
licenziamento, pertanto, si rivelava privo di giusta causa e meritevole di
annullamento.
Di questa sentenza la società Electrolux Home Products Italy s.p.a. (già
Electrolux Zanussi s.p.a.) domanda la cassazione con ricorso affidato a sei
motivi, illustrati anche con memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.
Il M. resiste con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il ricorso contiene sei motivi di impugnazione.
1.1. Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 1 ss. l.
n. 53 del 2000 e degli art. 1 ss. e 32 ss. d.lgs. n. 115 del 2003, erronea
interpretazione della legge ex art. 12 preleggi e difetto di motivazione. Si
lamenta che la Corte d'appello abbia male interpretato la normativa sul congedo
parentale, ritenendo erroneamente che quest'ultimo debba essere concesso in un
caso non contemplato dalla legge e non giustificato da alcuna ragione, e si
sostiene che, in base alla stessa direttiva europea che ha promosso l'intervento
del legislatore nazionale (direttiva 96/34/CE) nonché alla stregua
dell'intervento della Corte costituzionale (in particolare, con la sentenza n.
104 del 2003), l'attribuzione del diritto all'astensione facoltativa anche al
padre lavoratore è condizionata all'effettivo perseguimento della finalità di
sviluppare in modo armonico la personalità del bambino favorendone l'inserimento
nella famiglia e nella società, mentre la sentenza impugnata - a dire della
ricorrente - ha individuato una ratio legis, cioè l'esigenza di aiutare
l'organizzazione familiare, del tutto assente nella normativa in esame, che, al
contrario, e soprattutto con riferimento alla disciplina di cui al d.lgs. n. 151
del 2001 applicabile nella controversia in esame, intende tutelare, piuttosto,
la paternità assicurando al padre un sostegno economico per l'accudimento
diretto della prole.
1.2. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 437
e 112 c.p.c. e dell'art. 2697 c.c., nonché vizio di motivazione. Si deduce che
il lavoratore aveva in primo grado sostenuto esclusivamente di avere utilizzato
il congedo per assistere la propria bambina e solo in appello, a seguito delle
sfavorevoli acquisizioni istruttorie al riguardo, aveva dedotto di avere
comunque contribuito alle esigenze familiari, così operando una inammissibile
modifica della domanda, che erroneamente - secondo la ricorrente - non è stata
rilevata dal giudice d'appello, in violazione del divieto di proposizione di
nuove domande e del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato; il
medesimo giudice, peraltro, è incorso anche nella violazione dell'art. 2697
c.c., avendo mancato di rilevare che nessuna prova il lavoratore aveva offerto
in ordine alla sussistenza delle dedotte esigenze familiari, soprattutto in
relazione al ruolo e alla presenza della moglie all'interno della famiglia.
1.3. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2104
c.c. e vizio di motivazione, lamentandosi che la Corte di merito abbia
erroneamente ritenuto che la richiesta di congedo escluda di per sé ogni
possibile controllo in ordine alla corrispondenza causale fra ragioni
dell'assenza dal lavoro e attività da lui svolta.
1.4. Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2106
c.c. e vizio di motivazione, deducendosi che la illiceità del comportamento del
M. ha integrato una giusta causa di licenziamento, avendo determinato il venir
meno della fiducia datoriale e il pericolo di disincentivazione degli altri
dipendenti.
1.5. Il quinto motivo denuncia violazione della l. n. 604 del 1966 e difetto di
motivazione, per non avere i giudici di merito esaminato - anche d'ufficio - la
sussistenza, almeno, di un giustificato motivo di licenziamento, sotto il
profilo della gravità dell'inadempimento del contratto di lavoro.
1.6. Il sesto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 1227
c.c. e vizio di motivazione, lamentandosi, in subordine, che la Corte
territoriale nella determinazione del risarcimento non abbia tenuto conto di
compensi e retribuzioni percepiti dal M. prima e dopo del licenziamento.
2. Per ordine logico deve esaminarsi dapprima il secondo motivo, che involge la
stessa ammissibilità in appello delle questioni decise dalla Corte di merito.
Il motivo non è fondato.
La sentenza impugnata, nell'accogliere l'appello del M., ha ritenuto che questi
avesse legittimamente esercitato il diritto al congedo parentale, alla stregua
di un'interpretazione della relativa disciplina normativa che riconnette tale
diritto esclusivamente ad un'esigenza di organizzazione familiare. Così
ritenendo, i giudici d'appello hanno conseguentemente escluso la sussistenza
della giusta causa di licenziamento - identificata appunto, secondo la
contestazione datoriale, nella illecita utilizzazione di tale congedo - a
prescindere da ogni accertamento relativo alla durata, all'orario e alle
modalità dell'attività svolta dal lavoratore, nel periodo di congedo, presso la
pizzeria intestata alla moglie. Tale interpretazione è stata dunque
ammissibilmente operata dal giudice d'appello nell'ambito del principio jura
novit curia e, perciò, prescindendo dalla tempestività e novità della relativa
allegazione della parte interessata; e, peraltro, nessuna violazione del
principio dell'onere della prova risulta verificata, poiché la controversia è
stata decisa solo in punto di diritto, con assorbimento delle questioni
riguardanti la valutazione delle prove in ordine alla presenza del M. e della
moglie presso l'azienda di quest'ultima.
3. Il primo e il terzo motivo, congiuntamente esaminati perché intimamente
connessi, sono invece fondati non potendosi condividere la predetta
interpretazione fornita dalla Corte territoriale.
3.1. Una sommaria ricognizione del contesto normativo riguardante le prestazioni
previdenziali e assistenziali connesse alla protezione sociale della famiglia
consente di rilevare, anzitutto, che la giurisprudenza costituzionale ha
affermato, fin dagli anni ottanta, l'operatività della garanzia costituzionale -
precipuamente riferita all'art. 31 Cost. - anche in situazioni indipendenti
dall'evento della maternità naturale, riferibili anche alla paternità, sul
presupposto che la tutela assolve anche alle esigenze di carattere relazionale
ed affettivo che sono collegate allo sviluppo della personalità del bambino (e
che vanno soddisfatte anche nel caso dell'affidamento, garantendo una paritetica
partecipazione di entrambi i coniugi alla cura ed educazione della prole, senza
distinzione o separazione dei ruoli fra uomo e donna) (cfr. Corte cost. n. 1 del
1987; n. 179 del 1993).
La successiva evoluzione del quadro normativo, secondo le linee indicate da
questa giurisprudenza, ha portato - in base alla delega contenuta nella l. 8
marzo 2000, n. 53 - alla introduzione del testo unico delle disposizioni
legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità,
di cui al d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151.
L'art. 1, lett. a), della l. n. 53 del 2000 prevede l'istituzione dei congedi
dei genitori in relazione alla generale finalità di promuovere il sostegno della
maternità e della paternità.
L'art. 32 del d.lgs. n. 151 del 2001 prevede i congedi parentali e dispone che
per ogni bambino, nei suoi primi otto anni di vita, ciascun genitore ha diritto
di astenersi dal lavoro; tale diritto compete: alla madre lavoratrice, trascorso
il periodo di congedo di maternità, per un periodo continuativo o frazionato non
superiore a sei mesi (comma 1, lett. a); al padre lavoratore, dalla nascita del
figlio, per un periodo continuativo o frazionato non superiore a sei mesi (comma
1, lett. b). Il congedo parentale spetta al genitore richiedente anche qualora
l'altro genitore non ne abbia diritto (comma 4); ai fini dell'esercizio del
diritto il genitore è tenuto, salvi i casi di oggettiva impossibilità, a
preavvisare il datore di lavoro secondo modalità e criteri definiti dai
contratti collettivi, e comunque con un periodo di preavviso non inferiore a
quindici giorni (comma 3). Per i periodi di congedo parentale alle lavoratrici e
ai lavoratori è dovuta un'indennità, calcolata in misura percentuale sulla
retribuzione secondo le modalità previste per il congedo di maternità (art. 34,
commi 1 e 4).
Alla stregua di tale disciplina, il congedo parentale - nella specie, spettante
al padre lavoratore - si configura come un diritto potestativo costituito dal
comportamento con cui il titolare realizza da solo l'interesse tutelato e a cui
fa riscontro, nell'altra parte, una mera soggezione alle conseguenze della
dichiarazione di volontà. Tale diritto, in particolare, viene esercitato, con il
solo onere del preavviso, sia nei confronti del datore di lavoro, nell'ambito
del contratto di lavoro subordinato, con la conseguente sospensione della
prestazione del dipendente, sia nei confronti dell'ente previdenziale,
nell'ambito del rapporto assistenziale che si costituisce ex lege per il periodo
di congedo, con il conseguente obbligo del medesimo ente di corrispondere
l'indennità.
3.2. Come riconoscono gli stessi giudici di appello, la configurazione di tale
diritto non esclude la verifica delle modalità del suo esercizio, per mezzo di
accertamenti probatori consentiti dall'ordinamento, ai fini della qualificazione
del comportamento del lavoratore negli ambiti suddetti (quello del rapporto
negoziale e quello del rapporto assistenziale). Tale verifica, che nella
fattispecie è stata compiuta soprattutto in base alle stesse dichiarazioni del
lavoratore e secondo acquisizioni la cui validità non è in contestazione fra le
parti, trova giustificazione, sul piano sistematico, nella considerazione che -
precipuamente nella materia in esame - anche la titolarità di un diritto
potestativo non determina mera discrezionalità e arbitrio nell'esercizio di esso
e non esclude la sindacabilità e il controllo degli atti - mediante i quali la
prerogativa viene esercitata - da parte del giudice, il cui accertamento può
condurre alla declaratoria di illegittimità dell'atto e alla responsabilità
civile dell'autore, con incidenza anche sul rapporto contrattuale. La
configurazione e i limiti di questo controllo giudiziale sono stati oggetto di
una precisa evoluzione nella giurisprudenza di questa Corte, che, in virtù della
crescente valorizzazione dei principi di correttezza e buona fede e della
operatività di essi in sinergia con il valore costituzionale della solidarietà
(in particolare con riferimento ai rapporti di credito e debito nascenti dal
negozio: cfr. Cass. n. 10511 del 1999 e Cass., sez. un., n. 18128 del 2005, in
materia di determinazione e riduzione della clausola penale), ha anche segnato
limiti e criteri dell'esercizio del diritto nell'ambito del processo,
identificando forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell'interesse
sostanziale, che l'ordinamento riconosce al titolare del diritto e che
costituisce la ragione dell'attribuzione al medesimo titolare della potestas
agendi (cfr. Cass., sez. un., n. 23726 del 2007, in materia di frazionamento
della domanda di adempimento di un'unica pretesa creditoria).
3.3. Ma, più in generale, si deve osservare che l'individuazione, sempre più
frequente nel c.d. diritto applicato, di singole fattispecie riconducibili a
tale sviamento, derivanti dallo sviluppo del quadro normativo e dalla
complessità delle tutele riconosciute ai soggetti, anche in relazione
all'attuazione di principi costituzionali e all'incidenza di norme e criteri di
diritto internazionale che interagiscono con l'ordinamento interno, richiede -
come la dottrina non ha mancato di rilevare - una concezione dei diritti
soggettivi, e di tutte le prerogative che sono oggetto di riconoscimento
normativo, fondata ormai sulla precisa identificazione delle sostanziali
funzioni che la norma positiva attribuisce al diritto soggettivo e delle
conseguenze, non meramente risarcitorie, che ricadono sul rapporto giuridico per
effetto della deviazione da tali funzioni, secondo una costruzione ben diversa
da quella tradizionalmente adottata, che colloca invece il predetto sviamento
fuori dall'ambito del diritto soggettivo e finisce per qualificarlo come un
normale illecito, in quanto integrante un eccesso dal diritto.
Orbene, si deve ritenere in generale che quante volte esista un diritto
soggettivo si configura necessariamente una corrispondenza oggettiva fra il
potere di autonomia conferito al soggetto e l'atto di esercizio di quel potere,
secondo un legame che è ben evidente nella c.d. autonomia funzionale i cui
poteri sono positivamente esercitati in funzione della cura di interessi
determinati, come avviene normalmente nell'autonomia pubblica ma come avviene
anche, sempre più diffusamente, nell'autonomia privata, ove l'esercizio del
diritto soggettivo non si ricollega più alla attuazione di un potere assoluto e
imprescindibile ma presuppone un'autonomia, libera, comunque collegata alla cura
di interessi, soprattutto ove si tratti - come nella specie - di interessi
familiari tutelati nel contempo nell'ambito del rapporto privato e nell'ambito
del rapporto con l'ente pubblico di previdenza, sì che il non esercizio o
l'esercizio secondo criteri diversi da quelli richiesti dalla natura della
funzione può considerarsi abuso in ordine a quel potere pure riconosciuto
dall'ordinamento. E ben s'intende come la immanenza di una siffatta funzione in
ogni diritto, e massimamente in quelli che corrispondono a interessi, non
meramente economici, costituzionalmente protetti, non richiede una previsione
specifica, con una positiva regolamentazione: e ciò spiega perché, in via
eccezionale, tale specificità sia stata invece richiesta, con il divieto di atti
emulativi previsto dall'art. 833 del codice civile, in relazione alla ampiezza e
al contenuto del diritto di proprietà e alla correlativa esigenza di riconoscere
un limite funzionale a un potere tradizionalmente illimitato, imprescrittibile e
comprensivo dello jus abutendi, sino alla costituzionalizzazione della sua
funzione sociale (art. 42 Cost.).
L'abuso del diritto, così inteso, può dunque avvenire sotto forme diverse, a
seconda del rapporto cui esso inerisce, sicché, con riferimento al caso di
specie, rileva la condotta contraria alla buona fede, o comunque lesiva della
buona fede altrui, nei confronti del datore di lavoro, che in presenza di un
abuso del diritto di congedo si vede privato ingiustamente della prestazione
lavorativa del dipendente e sopporta comunque una lesione (la cui gravità va
valutata in concreto) dell'affidamento da lui riposto nel medesimo, mentre
rileva l'indebita percezione dell'indennità e lo sviamento dell'intervento
assistenziale nei confronti dell'ente di previdenza erogatore del trattamento
economico.
3.4. In base al descritto criterio della funzione, deve ritenersi verificato un
abuso del diritto potestativo di congedo parentale, di cui all'art. 32, comma 1,
lett. b), del d.lgs. n. 115 del 2001, allorché il diritto venga esercitato non
per la cura diretta del bambino, bensì per attendere ad altra attività di
lavoro, ancorché incidente positivamente sulla organizzazione economica e
sociale della famiglia.
Anche per tale congedo, infatti, si configura una ratio del tutto analoga a
quella delineata dalla Corte costituzionale nelle pronunce che, come s'è visto,
hanno storicamente influenzato le scelte del legislatore nella emanazione della
legge delega del 2000 e del successivo testo unico del 2001: in particolare, con
le sentenze n. 104 del 2003, n. 371 del 2003 e n. 385 del 2005 i giudici
costituzionali hanno ribadito come la tutela della paternità si risolva in
misure volte a garantire il rapporto del padre con la prole in modo da
soddisfare i bisogni affettivi e relazionali del bambino al fine dell'armonico e
sereno sviluppo della sua personalità e del suo inserimento nella famiglia;
tutte esigenze che, richiedendo evidentemente la presenza del padre accanto al
bambino, sono impedite dallo svolgimento dell'attività lavorativa e impongono
pertanto la sospensione di questa, affinché il padre dedichi alla cura del
figlio il tempo che avrebbe invece dovuto dedicare al lavoro. Si comprende,
allora, che una siffatta conversione delle ore di lavoro, se pure non deve
essere intesa alla stregua di una rigida sovrapponibilità temporale, non può
però ammettere un'accudienza soltanto indiretta, per interposta persona,
mediante il solo contributo ad una migliore organizzazione della vita familiare,
poiché quest'ultima esigenza può essere assicurata da altri istituti
(contrattuali o legali) che solo indirettamente influiscono sulla vita del
bambino e che, in ogni caso, mirano al soddisfacimento di necessità diverse da
quella tutelata con il congedo parentale, il quale non attiene ad esigenze
puramente fisiologiche del minore ma, specificamente, intende appagare i suoi
bisogni affettivi e relazionali onde realizzare il pieno sviluppo della sua
personalità sin dal momento dell'ingresso nella famiglia.
Con questi presupposti, si rivela insostenibile, nella controversia in esame, la
tesi della realizzazione di tali esigenze della figlia minorenne attraverso lo
svolgimento di attività lavorativa, da parte del padre in congedo, nella
pizzeria della moglie. Al contrario, esclusa tale possibilità e considerato che
il legittimo esercizio del congedo postula la presenza del padre accanto alla
propria bambina, sarebbe stato necessario valutare le risultanze istruttorie
acquisite in giudizio onde accertare se e con quali modalità tale presenza si
sia realizzata e come siano state utilizzate, in concreto, le ore della giornata
rese
disponibili per effetto del congedo.
3.5. Devono accogliersi, perciò, le censure della società ricorrente contenute
nel primo e nel terzo motivo, mentre restano assorbite le censure di cui ai
motivi quarto, quinto e sesto.
3.6. La sentenza impugnata va dunque cassata in relazione ai motivi accolti e la
causa va rinviata ad altro giudice d'appello, designato nella Corte d'appello di
Brescia, il quale procederà a nuovo esame della controversia attenendosi al
seguente principio di diritto:
"L'art. 32, comma 1, lett. b), del d.lgs. 26 marzo 2001, n. 151, nel prevedere -
in attuazione della legge-delega 8 marzo 2000, n. 53 - che il lavoratore possa
astenersi dal lavoro nei primi otto anni di vita del figlio, percependo
dall'ente previdenziale un'indennità commisurata ad una parte della
retribuzione, configura un diritto potestativo che il padre-lavoratore può
esercitare nei confronti del datore di lavoro, nonché dell'ente tenuto
all'erogazione dell'indennità, onde garantire con la propria presenza il
soddisfacimento dei bisogni affettivi del bambino e della sua esigenza di un
pieno inserimento nella famiglia; pertanto, ove si accerti che il periodo di
congedo viene invece utilizzato dal padre per svolgere una diversa attività
lavorativa, si configura un abuso per sviamento dalla funzione propria del
diritto, idoneo ad essere valutato dal giudice ai fini della sussistenza di una
giusta causa di licenziamento, non assumendo rilievo che lo svolgimento di tale
attività (nella specie, presso una pizzeria di proprietà della moglie)
contribuisca ad una migliore organizzazione della famiglia".
Il medesimo giudice di rinvio pronuncerà altresì sulle spese del giudizio di
cassazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo e il terzo motivo di ricorso, rigetta il secondo e
dichiara assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi
accolti e rinvia alla Corte d'appello di Brescia anche per le spese del giudizio
di cassazione.
Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it
il 26/09/2008