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Testata registrata presso il Tribunale di Patti Reg. n. 197 del 19/07/2006
Nuova frontiera della pianificazione urbanistica e limiti costituzionali
(Riflessioni a margine della Sentenza del Consiglio di Stato, Sezione, IV, n. 4833, del 21 agosto 2006 e del caso "Città di Roma")
GERARDO GUZZO*
Sommario: 1. Premessa. 2. La pianificazione urbanistica nell’attuale
disciplina legislativa. 3. Vincoli conformativi e vincoli espropriativi. 4. La
Sentenza del Consiglio di Stato, IV sezione, n. 4833, del 21 agosto 2006. 5. Il
recente caso del P.r.g. della città di Roma. 6. La filosofia del P.u.c. di
Genova. 7. Conclusioni.
I
1. Premessa.
La pianificazione urbanistica da sempre ha costituito una sorta di metro di valutazione dell’efficienza dell’azione amministrativa. Ora più che mai è avvertita l’esigenza di semplificare le tappe del viatico procedurale volto a disciplinare l’ordinato assetto e sviluppo dei territori delle varie realtà locali. In questa direzione si collocano tutti gli interventi legislativi nazionali e regionali che si sono succeduti nel corso degli anni a far data dal varo della “storica” legge urbanistica n. 1150, risalente al 17 agosto 1942. Com’è noto, la potestà legislativa della regione trova cittadinanza all’interno dell’art. 117, comma 3, della Costituzione, che demanda alla potestà legislativa concorrente la specifica materia del governo del territorio riconoscendo, di guisa, alle amministrazioni regionali un ampio potere normativo, purché nei limiti dei principi generali posti dallo Stato. Lo scopo di questo lavoro è quello di affrontare lo specifico problema che investe i casi in cui l’attività di pianificazione si trova, talvolta, ad incidere diritti assoluti, quale quello della proprietà, costituzionalmente tutelato dall’art. 42 della Carta, fino a svuotarlo di contenuto. Si cercherà di delimitare, dunque, l’ampiezza longitudinale di tale potestà, esaminando la differenza tra vincoli conformativi e vincoli espropriativi alla luce della recentissima sentenza del Consiglio di Stato, IV sezione, n. 4833, del 21 agosto 2006, che ha dichiarato illegittima la previsione contenuta nell’art. 41 delle n.t.a. del Comune di Bassano del Grappa, nella parte in cui prevedeva all’interno della zona destinata a nuovi insediamenti produttivi/commerciali che una quota del 50% della capacità insediativa totale fosse riservata al Comune. Si tratta di un arresto particolarmente importante che pone precisi limiti ad una tecnica perequativa piuttosto consueta e consolidata che attribuisce ex officio alla mano pubblica una certa percentuale dei diritti edificatori riconosciuti in specifici brani del territorio comunale sottraendoli ai legittimi proprietari degli immobili. La ratio della sentenza, pertanto, va rinvenuta nella circostanza che la norma incriminata dissimulava un vero e proprio vincolo espropriativo senza indennizzo, non protetto, di guisa, da quell’indispensabile ombrello costituito dalla codificazione legislativa e, pertanto, in evidente contrasto con l’art. 42, comma 3, della Costituzione. Infine, si cercherà di cogliere i tratti salienti di due innovativi meccanismi di pianificazione, recentemente “sperimentati” da importanti amministrazioni comunali: quella di Roma e quella di Genova. Entrambi i sistemi presentano elementi di forte discontinuità rispetto alla tradizionali linee guida dettate sia dalla legge urbanistica del 1942 che dalle rispettive leggi regionali varate in materia di governo del territorio. Tuttavia, nonostante le perplessità sollevate da più parti in merito alla presunta scarsa tenuta costituzionale di tale modus procedendi, l’esperienza capitolina e quella genovese rappresentano, oggi, quella che potremo definire “la nuova frontiera” della pianificazione urbanistica, rendendo più che mai indispensabile un intervento modificativo della ormai superata legge n. 1150 del 1942.
2. La pianificazione urbanistica nell’attuale disciplina legislativa.
La pianificazione urbanistica è attualmente disciplinata dal Capo Terzo
della legge n. 1150 del 17 agosto 1942 e s. m. e integrazioni. In particolare,
l’intera Sezione Prima (articoli 7 – 12) viene interamente dedicata ai “piani
regolatori comunali”. Dall’esame complessivo delle norme in essa contenute è
possibile cogliere alcuni elementi qualificanti l’attività in parola, quali la
zonizzazione e la localizzazione. La zonizzazione consiste nell’imprimere a
determinate aree omogenee del territorio comunale una particolare destinazione
funzionale, mentre la localizzazione si specifica nella individuazione di
specifici ambiti territoriali ove prevedere la realizzazione delle opere di
urbanizzazione primaria e secondaria, di impianti e, più in generale, di
interventi ed opere di interesse pubblico e collettivo. In linea del tutto
teorica si potrebbe affermare che l’attività di zoning si apprezza per la
sostanziale stabilità a differenza di quella di localizzazione che può essere
soggetta a continua revisione a causa della previsione di sempre nuove
infrastrutture individuate dalle variazioni apportate in sede di adozione, e
successiva approvazione, di varianti generali e speciali al p.r.g.. La
configurazione giuridica del viatico da seguirsi per la formazione dello
strumento urbanistico non pare riconducibile nell’alveo strutturale e funzionale
di un tipico procedimento amministrativo, quale quello minuziosamente codificato
negli anni dalla Dottrina1,
quanto, piuttosto, sembrerebbe assumere i tratti propri di una procedura, come,
peraltro, già autorevolmente osservato2.
Infatti, l’apertura del procedimento amministrativo al contraddittorio finisce
per imprimere allo sesso i caratteri di una vera e propria procedura,
spogliandolo della iniziale veste procedimentale. In tema di pianificazione
urbanistica, milita in questo senso la possibilità di presentare delle
osservazioni3,
riconosciuta dalla legge del 1942 a tutti i proprietari delle aree il cui ius
aedificandi sia stato inciso dalle scelte operate dalla pubblica
amministrazione in sede di adozione del piano. Più in particolare, è possibile
affermare che la formazione dello strumento urbanistico integri gli estremi di
una procedura complessa o bifasica, comprensiva del momento dell’adozione
e di quello seguente dell’approvazione. A ben vedere, il doppio stadio
dell’adozione e dell’approvazione costituisce emanazione del principio di
sussidiarietà4
e del ruolo di indirizzo riconosciuto alle regioni in materia di governo del
territorio5.
Sul piano sostanziale, l’adozione dello strumento urbanistico si atteggia a
presupposto della futura approvazione, invariabilmente di competenza di un ente
sovracomunale (Comunità montana, Provincia, Regione), mentre da un punto di
vista strettamente processuale, proprio perché in grado di produrre autonomi
effetti nella sfera giuridica dei destinatari, costituisce atto autonomamente
impugnabile. Sul piano delle scansioni procedurali è possibile individuare
quattro momenti chiave: 1) l’iniziativa; 2) l’istruttoria; 3) la decisione; 4)
l’integrazione dell’efficacia. L’iniziativa presuppone, ai sensi
dell’art. 42 del d.lgs. n. 267/00 e s. m. e integrazioni (T.U. degli Enti
locali), l’imprescindibile determinazione del consiglio comunale, organo di
indirizzo politico amministrativo del comune, di dotare quest’ultimo di uno
strumento urbanistico. L’istruttoria, invece, postula l’acquisizione di
una serie di informazioni strumentali ad una adeguata valutazione degli
interessi pubblici e privati coinvolti nel processo di formazione del piano che
troveranno, poi, la loro dimensione materiale negli elaborati grafici (tavole e
planimetrie) e nei documenti (relazione di accompagnamento, norme tecniche di
attuazione) predisposti dal progettista incaricato. La decisione comporta
l’esame dello schema di piano, predisposto dal tecnico, da parte della Giunta
municipale con conseguente trasmissione dello stesso al Consiglio per la
successiva adozione. Infine, l’integrazione dell’efficacia. E’ questo il
momento in cui vengono compiuti i controlli di legittimità sull’atto di
adozione; la delibera consiliare viene poi pubblicata all’albo pretorio del
comune e contestualmente viene reso noto l’avviso di deposito del piano adottato
presso la segreteria dell’ente, dove vi rimarrà per trenta giorni, al fine di
rendere possibile la presentazione delle osservazioni6.
Infine, la delibera di adozione viene pubblicata, anche per estratto, nella G.U.,
nel F.A.L. e nel B.U.R.. Una volta adottato, il piano produce degli effetti
provvisori nel senso che possono essere rilasciati permessi per costruire o
autorizzate per silentium quelle attività edificatorie non in contrasto
con la norma più restrittiva individuabile mediante il confronto tra quelle
caratterizzanti il precedente piano (operanti nella zona interessata
dall’intervento edilizio) e quelle contenute nel nuovo appena adottato. Proprio
la provvisoria efficacia ed esecutorietà dello strumento urbanistico adottato
radica in capo al proprietario inciso un interesse personale, concreto e attuale
che gli consente una immediata impugnazione, seppur in parte qua, della
delibera consiliare. Una volta adottato, lo strumento urbanistico si accinge ad
esaurire il secondo segmento di procedura che dovrebbe portare alla approvazione
dello stesso. Naturalmente, l’inizio del percorso volto all’approvazione
presuppone che l’ente locale abbia già controdedotto in merito alle
eventuali osservazioni formulate dai privati; osservazioni che, nelle ipotesi
più radicali, possono anche integrare gli estremi di una variante dello
strumento urbanistico rendendone necessaria una nuova pubblicazione. Tuttavia,
la giurisprudenza amministrativa, così come riconosce al comune un’ampia
discrezionalità nelle scelte operate in sede di pianificazione8,
parimenti, solleva l’ente locale dall’obbligo di particolari motivazioni in
ordine al rigetto delle osservazioni9.
Ad ogni buon conto, una volta avviata la fase dell’approvazione, il piano
regolatore adottato viene sottoposto ad una serie di verifiche tecniche e di
legittimità, compiute dall’ufficio regionale o delegato, che possono portare o
all’elaborazione di proposte di modifica del piano oppure a vere e proprie
modifiche introdotte d’ufficio in sede di approvazione. Nel primo caso, il
potere di proposta esercitato dall’ente regionale si atteggia ad espressione
della generale potestà di indirizzo e di controllo riconosciuta all’ente
regionale in materia di governo del territorio; nel secondo caso, si tratta,
invece, di un controllo di “aderenza” delle prescrizioni di piano alle norme di
legge contenute nella legislazione nazionale. E’ evidente che un intervento
d’ufficio operato dalla regione, o dall’ente sovracomunale individuato per
l’approvazione dalle singole leggi regionali, che non si caratterizzi per la
correzione di alcune incongruenze rispetto al dato di diritto positivo contenuto
nella disciplina generale dettata in materia di pianificazione urbanistica,
finirebbe per accreditarsi come una sorta di “attentato” all’autonomia degli
enti locali riconosciuta dall’art. 5 della Costituzione e, più in particolare,
per violare lo stesso art. 42 del d.lgs. n. 267/00 e s. m. e integrazioni.
Ancora. In più di un arresto giurisprudenziale, i magistrati di Palazzo Spada10
hanno chiarito che nell’ipotesi in cui la Regione abbia introdotto modificazioni
sostanziali, l’illegittimità dell’intervento non è sanata da successiva
eventuale deliberazione con la quale il comune accetta tali modificazioni, non
avendo il comune il potere di attribuire validità ad un provvedimento terminale
e conclusivo del procedimento di formazione del piano mediante l’adozione di un
atto determinativo della sua volontà, che avrebbe dovuto precedere il detto
provvedimento, costituendone il presupposto11.
Del resto, anche le stesse modifiche apportate dall'ente municipale, d'ufficio o
su richiesta della regione (o dell'ente sub-delegato), allo strumento
urbanistico adottato, che abbiano determinato un mutamento essenziale del suo
contenuto, traducendosi in un nuovo progetto di piano12,
rendono indispensabile una nuova pubblicazione dello strumento urbanistico. Il
principio vale a fortiori nei casi di modifiche d’ufficio introdotte
dalla regione (o ente delegato). Infatti, secondo un consolidato orientamento
giurisprudenziale, le ipotesi di modificazioni d'ufficio degli strumenti
urbanistici comunali da parte della regione devono intendersi tassative e di
stretta interpretazione, essendo precluse le modificazioni caratterizzate da
scelte incidenti significativamente sull'impianto del piano stesso e tali da
ripercuotersi anche al di fuori della zona considerata13.
Inevitabilmente, tutte le modifiche al piano regolatore generale che comportino
sostanziali innovazioni dello stesso o che non siano indispensabili per tutelare
il paesaggio, i complessi storici, monumentali, ambientali ed archeologici
devono considerarsi illegittime14.
Un problema per certi versi simile sorge nell’ipotesi in cui la regione, in sede
di approvazione dello strumento urbanistico, introduce d’ufficio vincoli
sostanzialmente espropriativi, riservando al comune, con riferimento a
determinate aree, una certa percentuale della capacità edificatoria
realizzabile, secondo una prassi particolarmente frequentata dalle
amministrazioni pubbliche. Ciò è quanto accaduto nel caso affrontato dalla
sentenza del Consiglio di Stato n. 4833, IV sezione, del 21 agosto 2006, che si
commenterà di seguito, non prima di aver esaminato brevemente contenuti e
differenze che caratterizzano vincoli conformativi e vincoli espropriativi.
3. Vincoli espropriativi e vincoli conformativi.
La questione legata al regime dei vincoli alla proprietà e alla loro
indennizzabilità ha costituito per molto tempo una vexata quaestio. Il
problema della tenuta costituzionale degli articoli 10 e 40 della legge 1150,
del 1942, e s. m. e integrazioni, è stato più volte scrutinato dalla Corte
costituzionale15
e, recentemente, anche dalla Corte europea per i diritti dell’uomo. Fu proprio
il giudice delle leggi, con la nota sentenza 55/68, a stigmatizzare
l’indispensabilità di un indennizzo nell’ipotesi in cui la proprietà privata
venisse gravata da un vincolo espropriativo o sostanzialmente espropriativo
avente durata indeterminata, ritenendo gli articoli 10, comma 1, nn. 2,3,4, e
40, costituzionalmente illegittimi per violazione dell’art. 42, comma 3, della
Carta16,
proprio perché non contenevano alcuna previsione del genere. Successivamente, il
legislatore per fare fronte al vuoto legislativo venutosi a creare per effetto
dell’intervento della Consulta stabilì, con la legge n. 1187 del 1968, che la
durata dei vincoli urbanistici fosse calibrata sul periodo di cinque anni
decorrenti dall’approvazione del piano regolatore generale mentre, per quelli
già approvati, i termini decorrevano dalla data di entrata in vigore della legge
stessa. Entro il torno di tempo di cinque anni, pena decadenza dei vincoli,
comunque, dovevano essere approvati i piani attuativi. Senonché la durata dei
vincoli fu prorogata fino al varo della legge n. 10, del 1977, a causa della
incapacità della maggior parte dei comuni di approvare gli strumenti di
attuazione. La citata legge, meglio conosciuta come “Bucalossi”, dal nome del
suo relatore, codificò il principio, cristallizzato nella precedente sentenza
della Corte costituzionale n. 55/68, dello scorporo dello ius aedificandi
dal diritto di proprietà che, così, diveniva oggetto di concessione. In questo
modo si finiva per riproporre il problema dei vincoli a causa della non
immanenza del diritto di edificare all’interno del diritto di proprietà. Sicché
si rese indispensabile un nuovo intervento chiarificatore della Corte delle
leggi che, con diversi arresti, prima affermò, con la nota sentenza n. 5/80, che
il diritto di edificare continuava ad essere parte integrante e qualificante del
diritto di proprietà e di tutte le altre situazioni che comprendono la
legittimazione a costruire, e poi, con il decisum n. 92/82, che la
materia dei vincoli doveva essere disciplinata espressamente dalla legge. Il
diverso problema degli effetti che discendono dalla perdita di efficacia dei
vincoli espropriativi o sostanzialmente espropriativi fu affrontato, invece,
dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la decisione n. 7, del 2
aprile 1984, con la quale il Plenum affermò il carattere eventuale di
tale momento, determinato dalla mancata tempestiva approvazione dello strumento
di attuazione nel termine di cinque anni da quella del piano. Ciò avrebbe
prodotto la caducazione dei vincoli con efficacia ex nunc e non ex
tunc, cioè a far data dalla approvazione dello strumento urbanistico
generale17,
con la conseguenza che veniva ad applicarsi l’art. 4, u.c., della legge n.
10/77, recante la disciplina urbanistica per quei comuni sprovvisti di piano
regolatore generale effettivamente operante (rectius approvato). In
sostanza, le aree originariamente gravate da vincoli espropriativi (o
sostanzialmente espropriativi), una volta decaduti, sarebbero state assoggettate
ai precetti contenuti nelle norme dettate per i comuni non ancora dotati di un
p.r.g. valido ed efficace.18
Risolto il problema della disciplina da applicare alle aree originariamente
interessate dai vincoli in parola, si pose il problema di una eventuale
reiterabilità degli stessi. Fu sempre la Corte costituzionale a dirimere il
problema con la sentenza n. 575, del 22 dicembre 198919,
affermando la scarsa aderenza al dettato costituzionale di una reiterazione dei
vincoli sine die. Recentemente, il Giudice delle leggi, con la sentenza
n. 179/1999, è ritornato sull’argomento sancendo nuovamente l’illegittimità
costituzionale degli articoli 7, numeri 2,3,4, e 40, della legge n. 1150, del
1942 (come risultante a seguito degli articoli 1 e 5 della legge 19 novembre
1968, n. 1187), oltre che dell’art. 2, comma 1, della stessa legge n. 1187 del
1968, per violazione dell’art. 42, comma 3, della Costituzione, nella parte in
cui veniva autorizzata la reiterazione dei vincoli espropriativi o
sostanzialmente espropriativi, senza alcuna motivazione in merito all’attualità
dell’interesse pubblico da soddisfarsi e senza alcuna previsione per il
proprietario di indennizzo20.
Per effetto di tale intervento del Giudice costituzionale, il legislatore è
stato costretto a reintervenire al fine di colmare la vacatio legis
venutasi a creare. Attualmente, lo spinoso problema della reiterazione dei
vincoli espropriativi ha trovato la sua disciplina di diritto positivo
all’interno dell’art. 39 del d.p.r. n. 327/01 e s. m. e integrazioni (T.U. in
materia di espropriazioni)21
che riconosce espressamente al proprietario inciso dai vincoli in parola il
diritto di una indennità commisurata all’entità del danno effettivamente
prodotto. La norma sembrerebbe codificare due principi: a) il carattere
eventuale dell’indennizzo, agganciato a un danno subito in conseguenza della
reiterazione del vincolo; b) l’onere in capo al privato di dimostrare il
pregiudizio subito e l’entità del danno patito. Il corollario che ne discende è
che l’indennizzo del danno non sarà mai tarato sul valore di mercato del bene,
quanto, piuttosto, sul pregiudizio dimostrato e verificatosi durante il periodo
successivo alla scadenza dei cinque anni di validità del vincolo. Pare opportuno
ricordare, a chiusura della trattazione dei vincoli espropriativi che, come
cennato, anche la Corte europea per i diritti dell’uomo si è di recente occupata
della materia. Infatti, con la sentenza della II sezione, del 2 agosto 2001,
nella causa n. 37710/1997, i giudici europei hanno sostenuto che la continua
reiterazione dei vincoli viola il principio del rispetto della proprietà22
con questo assumendo una posizione simmetrica a quella del legislatore italiano
e della stessa giurisprudenza amministrativa. Infatti, il Consiglio di Stato,
affrontando ultimamente lo specifico tema della reiterabilità dei vincoli
espropriativi e della indispensabilità di una analitica trama motivazionale a
conforto dell’attualità delle scelte operate dalla p.a., con la sentenza n.
6171, della IV sezione, risalente al 16 ottobre 2006, ha ribadito il principio
“(…) secondo il quale la reiterazione dei vincoli di espropriazione non può
prescindere dalla presenza di una congrua e specifica motivazione sulla
perdurante attualità della previsione, comparata con gli interessi privati
(…)”23.
Il quadro cambia completamente con riferimento ai cosiddetti vincoli
conformativi. Essi, infatti, possono identificarsi in tutte quelle previsioni
contenute nello strumento urbanistico che, lungi dall’incidere la proprietà
privata, comprimendone il contenuto, ne imprimono una specifica destinazione
funzionale. In sostanza, la distinzione tra vincoli conformativi ed
espropriativi trae origine dal carattere generale o particolare della previsione
urbanistica. Il vincolo conformativo ricorre tutte le volte che integra gli
estremi di una disciplina di uso che investe un intero brano di territorio
urbano, senza individuare le aree che dovranno essere espropriate per realizzare
singole opere pubbliche; il vincolo espropriativo, invece, proprio perché
individua dettagliatamente una o più opere pubbliche, postula un sacrificio
particolare per il privato che si risolve nello svuotamento di contenuto delle
proprie facoltà dominicali, pur non incidendo complessivamente sulla singola
zona omogenea. Pertanto, per distinguere i vincoli espropriativi da quelli
conformativi risulta di essenziale importanza cogliere la differenza che esiste,
nell'ambito del contenuto del PRG, tra localizzazioni e zonizzazioni: le prime
trovano la loro codificazione nelle previsioni di cui ai nn. 3 e 4 dell'art. 7
della legge urbanistica del 1942 (aree destinate a formare spazi di uso pubblico
o sottoposte a speciali servitù, aree destinate ad edifici pubblici); le seconde
nella lettera del n. 2 della stessa norma. Ciò che rileva, tuttavia, non è
soltanto l’ampiezza “longitudinale” dei vincoli ma anche la loro dimensione
"funzionale". Infatti, si considerano conformative quelle destinazioni del PRG
che, pur non potendo essere sussunte nell’alveo dell’attività di “zoning”
stricto sensu, appaiono decisamente asservite al funzionamento
dell’agglomerato urbano (vd. le grandi arterie di comunicazione di cui all’art.
7, n. 1, della legge n. 1150 del 1942 e s. m. e integrazioni). Al contrario,
danno luogo a vincoli particolari quelle opere poste direttamente al servizio di
una singola zona. In conclusione, anche alla luce delle prescrizioni contenute
nel T.U. per le espropriazioni, è possibile affermare che il vincolo
espropriativo si riferisce esclusivamente alla localizzazione di specifiche
opere pubbliche, mentre i vincoli conformativi finiscono per riguardare intere
categorie omogenee di beni, non comportando l’acquisizione alla mano pubblica
della proprietà privata, con la conseguenza che qualsiasi incisione operata su
singoli beni, o che ne annulli o diminuisca notevolmente il loro valore di
scambio, a causa della natura sostanzialmente espropriativa, deve essere
indennizzata.
4. La sentenza del Consiglio di Stato, IV sezione, n. 4833, del 21 agosto
2006.
La vicenda scrutinata dal Consiglio di Stato si colloca all’interno di
quelle pronunce tese a dettare regole precise in tema di rapporti tra attività
di pianificazione e proprietà privata, marcandone contenuto e limiti. Nello
specifico, il supremo Organo di giustizia amministrativa ha dichiarato
illegittima la norma contenuta nell’art. 41 delle n.t.a. del piano
regolatore del comune di Bassano del Grappa (Vicenza), relativa alla zona
omogenea D/1.3, destinata a nuovi insediamenti produttivi/commerciali, per
violazione dell’art. 42, comma 3, della Costituzione. In sostanza, la Regione
Veneto, in sede di approvazione dello strumento urbanistico generale aveva
introdotto, contro il parere della Commissione Tecnica Regionale, la previsione
incriminata che riservava al comune “(…) una quota del 50% della capacità
insediativa totale (…)”. In questo modo, veniva riservata coattivamente
all’ente locale una corposa percentuale dei diritti edificatori previsti sulla
zona interessata con conseguente imposizione di un sostanziale vincolo
espropriativo non indennizzato a carico dei proprietari incisi. Il ragionamento
svolto dai magistrati di Palazzo Spada, nel censurare la prescrizione esaminata,
è molto semplice. Per poter procedere ad una compressione delle facoltà
dominicali, l’art. 42, comma 3, della Costituzione, prevede tassativamente una
codificazione legislativa di tutti quei casi in cui per motivi di interesse
generale la proprietà possa essere espropriata allo scopo di assicurarne la
funzione sociale e renderla accessibile a tutti, garantendo, in ogni caso,
al privato un indennizzo. Nella fattispecie in commento, invece, il Consiglio di
Stato ha rilevato che “(…) non è dato rinvenire alcuna disciplina, di fonte
legislativa, che autorizzi una riserva di proprietà fondiaria alla mano pubblica
– come quella prefigurata nella specie – al fine di contenimento dei prezzi, in
un’ottica “dirigista” del mercato dei terreni edificabili (…)”. In
definitiva, i giudici di seconde cure, confermando la sentenza di primo grado,
non hanno condiviso le argomentazioni svolte dalla Regione Veneto a tenore delle
quali l’art. 41 delle n.t.a. del piano regolatore di Bassano del Grappa avrebbe
realizzato “(…) una forma di perequazione che può riservare alla Pubblica
Amministrazione una funzione di calmierazione e immediato utilizzo delle aree
(…)”, proprio in ragione dell’assenza di una specifica normativa primaria che
giustifichi la cennata compressione del diritto di proprietà, ponendola,
di guisa, al di fuori delle garanzie previste dall’art. 42 della Carta
costituzionale. Così facendo, il supremo Consesso amministrativo ha voluto
ricordare agli amministratori locali che, secondo quanto chiarito con la storica
sentenza della Corte costituzionale n. 5/80, lo ius aedificandi non può
essere scorporato dal diritto di proprietà, sicchè non è possibile ipotizzare il
diritto di edificare in capo ad un soggetto (il comune) e il diritto di
proprietà in capo ad un altro (il proprietario spogliato della potestà
edificatoria), per di più senza la previsione di alcun indennizzo. Come lo
stesso Consiglio di Stato ha evidenziato, la funzione sociale della proprietà
può essere assicurata mediante degli strumenti attuativi già codificati dal
legislatore (PEEP, PIP, etc.) e non certamente attraverso delle preventive
apprensioni di diritti edificatori e successive perequazioni che dissimulano
tecniche espropriative non immanenti al diritto positivo.
5. Il recente caso del P.r.g. della città di Roma.
La sentenza del Consiglio di Stato, IV sezione, n. 4833, del 21 agosto 2006
potrebbe avere delle gravi ricadute su tutte quelle realtà municipali che si
stanno misurando con il difficile compito di dotare il territorio comunale di un
efficace strumento di pianificazione urbanistica. Non vi è alcun dubbio che tra
i comuni impegnati in questo gravoso compito il più importante è certamente
quello della Capitale. Infatti, recentemente, sono state pubblicate le norme
tecniche di attuazione del nuovo piano regolatore generale della città di Roma
che appaiono intrise di previsioni contenenti meccanismi perequativi e
compensativi, oggi fortemente a rischio proprio per effetto della pronuncia
della IV sezione del Consiglio di Stato. Più nel dettaglio. Alcune delle
prescrizioni contenute all’interno delle n.t.a. del p.r.g. romano
prevedono che i proprietari penalizzati con tagli di cubature possano essere
compensati mediante il trasferimento dei propri diritti in altre aree24,
così come i proprietari di immobili o aree che si trovano in ambiti territoriali
degradati possono beneficiare sia del contributo straordinario per opere
pubbliche, pagato da chi si “arricchisce”, che della possibilità di incrementare
la Sul esistente con demolizioni e ricostruzioni in altre aree. Tuttavia,
proprio la “migrazione” dei diritti edificatori da un suolo ad un altro,
determinata da una chiara esigenza di reperire aree da destinare a standard,
pone il problema della trascrizione del trasferimento dei diritti, al fine di
renderlo opponibile a terzi, e del regime fiscale. Si tratta di aspetti non
affrontati dalle N.t.a. del P.r.g. di Roma che, invece, hanno trovato puntuale
regolamentazione nel caso del P.u.c. della città di Genova, di cui si dirà nel
paragrafo successivo. Particolarmente “pericolosa”, poi, risulta la previsione
contenuta nell’art. 13 delle stesse norme tecniche di attuazione, che ripropone
il medesimo meccanismo acquisitivo del comune di Bassano del Grappa censurato
dal Consiglio di Stato. Infatti, la disposizione in questione attribuisce alla
mano pubblica una certa percentuale della capacità edificatoria prevista in una
determinata area, sottraendola ai legittimi proprietari, senza prevedere alcuno
specifico indennizzo, dunque, in aperta violazione dell’art. 42, comma 3 della
Costituzione, attesa l’assenza di qualsiasi norma di legge che codifichi un
meccanismo espropriativo del genere. In conclusione, è di tutta evidenza come il
complesso reticolo di cessioni e compensazioni predisposto dalle N.t.a. dello
strumento urbanistico capitolino, decisamente ispirato da una logica
perequativa, appaia privo di un’adeguata “rete di contenimento”. Il rischio che
si annida in un articolato sistema di travasi di diritti edificatori, come
quello congegnato dal P.r.g. in parola, consiste proprio nell’assenza di una
specifica previsione normativa, il che legittimerebbe i proprietari gravati a
ricorrere innanzi alla giustizia amministrativa per ottenere la declaratoria di
illegittimità delle norme incriminate, lesive dell’art. 42, comma 3, della
Costituzione, vanificando il duro lavoro di messa a punto dello strumento
urbanistico compiuto dai tecnici incaricati. Occorrerebbe, pertanto, che il
legislatore intervenisse al più presto mettendo mano ad una nuova legge
urbanistica che codifichi queste nuove tecniche di pianificazione improntate,
essenzialmente, su efficaci meccanismi perequativi e compensativi che oggi
sfuggono a qualsiasi inquadramento di diritto positivo.
6. La “filosofia” del P.u.c. di Genova.
Le linee guida che orientano il piano urbanistico comunale della città di
Genova si muovono lungo direttrici completamente diverse ma non per questo meno
innovative rispetto a quelle caratterizzanti il p.r.g. di Roma. Il principio di
fondo consiste nel riqualificare le aree degradate mediante demolizione operata
dai proprietari a beneficio dei quali, poi, è previsto un sistema “premiale” che
si concreta nel mantenimento della Sa (superficie agibile) corrispondente a
quella demolita. I relativi diritti edificatori potranno essere registrati
presso il Comune di Genova per essere impiegati nella realizzazione di un nuovo
progetto in una zona B (completamento) oppure essere rivenduti a prezzo di
libero mercato a chi, pur disponendo di un lotto libero, necessita di Sa
per edificare. Il trasferimento della superficie agibile non sempre può avvenire
in modo integrale, dal momento che questa ipotesi ricorre soltanto nei casi in
cui si demolisce un edificio compatibile o incompatibile collocato nel tessuto
urbano storico e nei casi in cui si abbatte un edificio compatibile in una zona
residenziale. Se la demolizione riguarda un edificio incompatibile posto
all’interno di una zona residenziale la percentuale di volumetria trasferibile
altrove è pari al 70%, per scendere al 50%, nell’ipotesi in cui l’abbattimento
investe un edificio localizzato in una zona industriale. Il meccanismo previsto
dal P.u.c. di Genova, inoltre, consente il trasferimento della superficie
agibile anche su un lotto già edificato, purché la nuova costruzione non superi
i limiti edificatori posti dal piano in quella specifica zona. L’obiettivo che
l’amministrazione genovese intende realizzare è decisamente quello del recupero,
del risanamento delle aree degradate e, collateralmente, quello di consentire,
con un particolare meccanismo “premiale”, la realizzazione di nuove costruzioni.
Il rischio che si annida in una soluzione del genere è che la creazione di un
mercato dei diritti edificatori possa attivare dinamiche speculative capaci di
produrre una vera e propria stagnazione del processo di risanamento, considerato
lo scarso appeal che lo ius aedificandi potrebbe avere in
un’ottica eminentemente mercantile a causa dell’alto costo.
7. Conclusioni.
Com’è agevole rilevare dalla lettura delle considerazioni svolte, le
conseguenze che potrebbero derivare dalla pronuncia del Consiglio di Stato, n.
4833, del 21 agosto scorso, rischiano di divenire davvero incalcolabili.
Infatti, alla luce del principio cristallizzato nella sentenza in parola, i
privati sarebbero in condizione di chiedere il rilascio di permessi per
costruire che non tengano conto delle quote di diritti edificatori riservati
alla mano pubblica in quella zona dalle norme tecniche di attuazione del piano.
In caso di diniego del titolo edificatorio, lo stesso privato potrà adire con
successo la giustizia amministrativa ottenendo la declaratoria di illegittimità
non solo dell’atto di diniego del titolo ma anche di tutte quelle previsioni di
piano che comportano una compressione delle facoltà dominicali, in quanto atti
presupposti non supportati da alcun filtro legislativo, come richiesto dall’art.
42, comma 3, della Costituzione. Il problema non è di poco momento, considerato
che la tecnica perequativa utilizzata dal comune di Bassano del Grappa non
costituisce affatto un caso isolato nella variegata costellazione delle
autonomie locali impegnate nel difficile compito di dotare il proprio territorio
di un innovativo strumento di pianificazione urbanistica. Tutt’altro. In
conclusione, la fragilità di tali norme si scontra con la riserva di legge posta
dall’art. 42, comma 3, della Costituzione che demanda al legislatore il compito
di codificare i casi in cui è possibile comprimere il diritto di proprietà per
ragioni sociali. Il corollario che ne discende è che tutti i sistemi di
pianificazione flessibile, improntati all’osservanza di complesse tecniche di
travasi e compensazioni di diritti edificatori, rischiano seriamente di essere
“polverizzati” se nel frattempo non trovano cittadinanza all’interno di una
puntuale cornice normativa. Attesa la ratio eminentemente sociale che
attraversa questo innovativo modo di disciplinare l’assetto e lo sviluppo del
territorio, l’intervento del legislatore non dovrebbe tardare a venire, offrendo
alle amministrazioni pubbliche quell’indispensabile paracadute legislativo che
le toglierebbe da una situazione divenuta di vera e propria emergenza.
_____________________________
* Professore di Organizzazione Aziendale presso l’Unical e Partner dello studio legale “Cristofano, Guzzo & Associates” (e - mail: guzzo@cgaalaw.com)
1 Su tutti, vedi P.
Virga: “Diritto amministrativo: i principi”, Vol. II, “Atti e ricorsi”, Milano
1987;
2 Cfr. Berti, “Procedimento, procedura, partecipazione”, in
“Scritti in memoria di Guicciardi”, Padova 1975. L’Autore nel configurare il
procedimento formale come una sintesi logica di una molteplicità indefinita di
procedimenti, ritiene che a secondo della disciplina di molteplici provvedimenti
tipici, il procedimento connesso con il contraddittorio sia più propriamente una
procedura o un processo.
3 L’art. 9, della legge n. 1150, del 17 agosto 1942, rubricato
“Pubblicazione del progetto di piano generale. Osservazioni”, così dispone: “ Il
progetto di piano regolatore generale del Comune deve essere depositato nella
Segreteria comunale per la durata di 30 giorni consecutivi, durante i quali
chiunque ha facoltà di prendere visione. L'effettuato deposito è reso noto al
pubblico nei modi che saranno stabiliti nel regolamento di esecuzione della
presente legge. Fino a 30 giorni dopo la scadenza del periodo di deposito
possono
presentare osservazioni le Associazioni sindacali e gli altri Enti pubblici ed
istituzioni interessate.
4 L’art. 118 della Costituzione così recita:”Le funzioni
amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurare l’esercizio
unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato,
sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. I
Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni
amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale,
secondo le rispettive competenze. La legge statale disciplina forme di
coordinamento tra Stato e Regioni nelle materie di cui alle lettere b) e h) del
secondo comma dell’art. 117, e disciplina inoltre forme di intesa e
coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali. Stato, Regioni,
Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei
cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse
generale, sulla base del principio di sussidiarietà”.
5 L’art. 117, comma 3, espressamente riconosce alle regioni la
potestà legislativa in materia di “governo del territorio”, da esercitarsi nel
rispetto dei principi fondamentali posti dallo Stato.
6 L’art. 9 della legge n. 1150 del 1942 prevede, infatti, che
“Il progetto di piano regolatore generale del Comune deve essere depositato
nella Segreteria comunale per la durata di 30 giorni consecutivi, durante i
quali chiunque ha facoltà di prendere visione. L'effettuato deposito è reso noto
al pubblico nei modi che
saranno stabiliti nel regolamento di esecuzione della presente legge. Fino a 30
giorni dopo la scadenza del periodo di deposito possono presentare osservazioni
le Associazioni sindacali e gli altri Enti
pubblici ed istituzioni interessate.
7 In terminis, Consiglio di Stato, IV Sezione, sentenza n. 3769,
del 6 maggio 2002. Il supremo Organo di giustizia amministrativa in quella
occasione ha stabilito che “L’atto di adozione del p.r.g. è immediatamente
impugnabile, a prescindere dalla non ancora intervenuta approvazione del p.r.g.
stesso”.
8 La giurisprudenza amministrativa ha più volte affermato che “
Le scelte effettuate dall’amministrazione in sede di pianificazione urbanistica
sono connotate da un’amplissima discrezionalità e costituiscono apprezzamenti di
merito, che sono sottratti al sindacato di legittimità del giudice
amministrativo”. Ex plurimis: T.a.r. Lombardia, Milano, sentenza n. 3769 del 7
ottobre 2005.
9 Il Consiglio di Stato più volte ha ritenuto che “E’
sufficiente, per il rigetto delle osservazioni al p.r.g., l’assunto che
contrastino con le linee portanti del piano”. Ex multis: Consiglio di Stato, IV
sezione, sentenza n. 4399, del 22 giugno 2004.
10 Ex plurimis: Consiglio di Stato, IV Sezione, sentenza n.
5297, del 4 ottobre 2000. In quella occasione i magistrati del supremo Organo di
giustizia amministrativa hanno chiarito che l’art. 10 della legge n. 1150 del
1942 “(…) consente, (alla regione) in sede di approvazione, di apportarvi
modificazioni, purché le medesime non siano tali da cambiare radicalmente le
scelte urbanistiche effettuate, comprimendo, così, l’autonomia decisionale del
comune (…).
11 Ex multis: Consiglio di Stato, IV sezione, sentenza n. 28,
del 28 gennaio 1985.
12 Ex multis: Consiglio di Stato, IV sezione, sentenza n. 431,
del 13 marzo 1998; Cons. di Stato; Consiglio di Stato, IV sezione, sentenza n.
38, del 31 gennaio 1995.
13 Ex plurimis: T.a.r. Puglia, Sezione Bari, sentenza n. 284,
del 30 aprile 1998.
14 Ex multis: Consiglio di Stato, IV sezione, sentenza n. 493,
del 24 marzo 1998; Consiglio di Stato, IV sezione, sentenza n. 6848, del 20
dicembre 2000; T.a.r. Puglia, Bari, sezione I, sentenza n. 284, del 30 aprili
1998.
15 Si pensi alla storica sentenza della Corte costituzionale n.
55 del 1968, con la quale fu stabilita l’illegittimità costituzionale degli
articoli 7, comma 1, nn. 2,3 e 4 e 40 della legge n. 1150 del 1942 nella parte
in cui non prevedevano alcun indennizzo per l’imposizione di vincoli a tempo
indeterminato nei confronti di diritti reali.
16 L’art. 42 della Costituzione prevede che “La proprietà e
pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a
privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne
determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne
la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può
essere nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per
motivi di interesse generale. La legge stabilisce le norme ed i limiti della
successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità”.
17 In particolare l’Adunanza Plenaria ritenne che a seguito
della perdita di efficacia dei vincoli bisognava escludere categoricamente ogni
riviviscenza della situazione anteriore alla imposizione degli stessi.
18 L’art. 4, u.c., della legge n. 10/77, così prevedeva:” A
decorrere dal 1° gennaio 1979, salva l'applicazione dell'articolo 4 della legge
1° giugno 1971, n. 291, nei comuni sprovvisti degli strumenti urbanistici
generali e in mancanza di norme regionali e fino all'entrata in vigore di
queste, la concessione deve osservare i seguenti limiti: a) fuori del perimetro
dei centri abitati definito ai sensi dell'articolo 17 della legge 6 agosto 1967,
n. 765, l'edificazione a scopo residenziale non può superare l'indice di metri
cubi 0,03, per metro quadrato di area edificabile; b) nell'ambito dei centri
abitati definiti ai sensi
dell'articolo 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765, sono consentite soltanto
opere di restauro e di risanamento conservativo, di manutenzione ordinaria o
straordinaria, di consolidamento statico e
di risanamento igienico; c) le superfici coperte degli edifici o dei complessi
produttivi
non possono superare un decimo dell'area di proprietà.
19 La Corte costituzionale in quella occasione chiarì che la
reiterazione dei vincoli “(…) darebbe luogo ad un sistema non conforme ai
principi affermati nella richiamata sentenza n. 55 del 1968, qualora il vincolo
venga protratto a tempo indeterminato senza la previsione di un indennizzo”.
20 In particolare, i giudici costituzionali hanno affermato che
i vincoli espropriativi o sostanzialmente espropriativi “(…) assumono certamente
carattere patologico quando vi sia una indefinita reiterazione o una proroga
sine die o all’infinito (attraverso la reiterazione di proroghe a tempo
determinato che si ripetano aggiungendosi le une alle altre), o quando il limite
temporale sia indeterminato, cioè non sia certo, preciso e sicuro e, quindi,
anche non contenuto in termini di ragionevolezza (sentenza n. 344 del 1995). Ciò
ovviamente in assenza di previsione alternativa dell’indennizzo (sentenze n. 344
del 1995; n. 575 del 1989) e fermo beninteso, che l’obbligo dell’indennizzo
opera una volta superato il periodo di durata (tollerabile) fissato dalla legge
(periodo di franchigia)”.
21 L’art. 39 del d.p.r. n. 327/01 e s. m. e i., rubricato
“Indennità dovuta in caso di incidenza di previsioni urbanistiche su particolari
aree comprese in zone edificabili”, stabilisce che:” 1. In attesa di una
organica risistemazione della materia, nel caso di reiterazione di un vincolo
preordinato all'esproprio o di un vincolo sostanzialmente espropriativo è dovuta
al proprietario una indennità, commisurata all'entità del danno effettivamente
prodotto. 2. Qualora non sia prevista la corresponsione dell'indennità negli
atti che determinano gli effetti di cui al comma 1, l'autorità che ha disposto
la reiterazione del vincolo è tenuta a liquidare l'indennità, entro il termine
di due mesi dalla data in cui abbia ricevuto la documentata domanda di pagamento
ed a corrisponderla entro i successivi trenta giorni, decorsi i quali sono
dovuti anche gli interessi legali.
3. Con atto di citazione innanzi alla corte d'appello nel cui distretto si trova
l'area, il proprietario può impugnare la stima effettuata dall'autorità.
L'opposizione va proposta, a pena di decadenza, entro il termine di trenta
giorni, decorrente dalla notifica dell'atto di stima. 4. Decorso il termine di
due mesi, previsto dal comma 2, il proprietario può chiedere alla corte
d'appello di determinare l'indennità. 5. Dell'indennità liquidata al sensi dei
commi precedenti non si tiene conto se l'area è successivamente espropriata.
22 La Corte europea per i diritti dell’uomo, con la sentenza
del 2 agosto 2001, emessa dalla II sezione nella causa n. 37710/1997, ha
stabilito che “(…) sussiste la violazione del principio del rispetto della
proprietà (art. 1 del protocollo addizionale n. 1 alla Convenzione europea dei
Diritti dell’Uomo firmato a Parigi il 20 marzo 1952) qualora vi sia una continua
rinnovazione di vincoli su aree. Tale comportamento, pur non potendo essere
assimilato ad una privazione della proprietà, può violare il giusto equilibrio
tra esigenze dell’interesse generale ed imperativi a salvaguardia dei diritti
fondamentali dell’individuo”.
23 Lo stesso Consiglio di Stato, con la sentenza n. 6171 della
IV sezione del 16 ottobre 2006, ha ulteriormente chiarito che “(…) In sintesi,
la reiterazione dei vincoli urbanistici decaduti per effetto del decorso del
termine può ritenersi legittima sul piano amministrativo solo se corredata da
congrui e specifici elementi oggettivi sulla attualità della previsione, con
nuova e adeguata comparazione degli interessi pubblici e privati coinvolti e con
giustificazione delle scelte urbanistiche, tanto più dettagliata e concreta
quante più volte viene ripetuta la reiterazione del vincolo (in tal senso Cons.
Stato, IV sez., n. 3535/05 cit. e n. 4340/02)”.
24 Per esempio, è previsto che i proprietari di aree vincolate
a servizi possano fare ricorso alla cessione compensativa del 90% in cambio
della possibilità edificatoria sul 10% a indice su tutta l’area 0,06 mq/mq.
Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it
il 06/11/2006