Il principio generale di buona fede e la disciplina del contratto (*)
ANDREA D'ANGELO
1. Buona fede e disciplina dell’esecuzione del contratto
Tra le norme del codice che, rispetto a differenti fasi dei
rapporti tra le parti e a diversi momenti della formazione del giudizio di
risoluzione delle controversie contrattuali, esprimono, o implicano, il
riferimento alla buona fede (correttezza) quale regola oggettiva, e criterio di
giudizio, è essenzialmente all’art. 1375 c.c. che deve volgersi un’indagine che,
senza estendersi alla rilevanza della stessa nelle trattative, nella formazione
del contratto e nella sua interpretazione, si incentri sull’attuazione e la
disciplina del rapporto.
Dall’enunciato dell’art. 1375 c.c. risulta inequivocamente
che la norma esprime un precetto circa la condotta dei contraenti nella
esecuzione del contratto. Ma larghi spazi di indefinizione investono sia la
protasi che l’apodosi: la generalità ed ampiezza del contenuto della prima (nel
suo riferimento all’esecuzione del contratto) non indica fattispecie
corrispondenti a situazioni e conflitti di interesse definiti; mentre la seconda
si esaurisce nel richiamo ad un valore, ad un principio assiologico: la buona
fede. È per ciò che il compito della dottrina e della giurisprudenza rispetto
all’art. 1375 c.c. si è rivelato, più che interpretativo del suo enunciato,
essenzialmente determinativo dei contenuti regolamentari e dei parametri
valutativi implicati dalla norma. Ed al riguardo si è imposta la considerazione
delle interferenze con più generali problematiche circa l’articolazione
dell’ordinamento, gli àmbiti di autonomia del giudice rispetto alla legge – che
certe tipologie di formulazione degli enunciati normativi possono esaltare –,
circa i rischi di arbitrio e di incertezza che possono derivarne e gli strumenti
e i criteri di controllo della discrezionalità delle decisioni giudiziarie.
L’applicazione del precetto di buona fede, e la stessa
definizione del suo contenuto, denunciano inoltre profili problematici di
interferenza con altre regole, di fonte legale e convenzionale, che attengono
anch’esse alla esecuzione del contratto.
La disciplina generale dei contratti, quella dell’adempimento
delle obbligazioni, quella dei diversi tipi legali dettano una serie di regole
che attengono, o sono applicabili, alla esecuzione dei rapporti contrattuali. E
al riguardo si pongono problemi di individuazione delle relazioni tra esse e la
buona fede; ciò non solo nel senso della identificazione dei confini tra àmbiti
regolamentari diversi, ma anche in quello della verifica di rapporti di
complementarietà ed integrazione. La stessa operatività nell’area contrattuale
di precetti dettati dalla legge con più generale riferimento all’agire umano
suscita problemi relativi non solo, ancora una volta, alla definizione dei
confini e delle relazioni di concorrenza tra regole, ma anche alla verifica di
rapporti di ausiliarietà tra le medesime, essendo anche stata prospettata la
funzione della buona fede di veicolo per l’applicazione ai contratti di più
generali valori espressi dall’ordinamento (si pensi al rapporto tra la buona
fede e il principio di solidarietà enunciato dall’art. 2 Cost.).
Particolarmente critica appare la relazione tra la regola di
buona fede e il regime stabilito dagli stessi contraenti nella convenzione. Si
tratta infatti di definire i termini di compatibilità tra il rispetto
dell’autonomia contrattuale, la salvaguardia delle aspettative di ciascuna delle
parti all’attuazione del programma negoziale dalle stesse definito, da un lato,
e, dall’altro, l’intervento regolamentare del giudice fondato sulla buona fede,
il quale, a ragione degli ampi spazi di indefinizione lasciati dal precetto
legale, pare destinato ad assolvere una funzione genuinamente determinativa; si
tratta quindi di indagare circa la compatibilità tra le regole convenzionali e
quelle costruibili dal giudice alla stregua della buona fede.
La prescrizione della conformità a buona fede della condotta
delle parti nella esecuzione del contratto determina, dunque, una singolare
articolazione e interferenza tra regole, e tra ruoli di regolamentazione,
appartenenti ad ordini differenti: legale, convenzionale, giudiziario. E, nella
formulazione del giudizio individuale pratico, la decisione dei casi alla
stregua della buona fede contrattuale rivela connessioni con temi pur non
programmaticamente inerenti all’àmbito della presente indagine: la
considerazione di circostanze e condotte della fase precontrattuale e formativa,
la valutazione ermeneutica dei contenuti pattizi. È nella identificazione e
comprensione di queste relazioni e interferenze che potranno trovarsi non
soltanto le soluzioni dei problemi di concorrenza tra fonti regolamentari
diverse, ma anche i criteri di orientamento dell’intervento del giudice, che,
alla stregua della pura e semplice considerazione del precetto enunciato
dall’art. 1375 c.c., e a ragione della indeterminatezza dei suoi contenuti,
potrebbe apparire incontrollato e arbitrario.
Il significato del riferimento della norma alla esecuzione
del contratto non sembra però circoscrivere il precetto alla disciplina
dell’adempimento. Nella fase esecutiva possono manifestarsi conflitti di
interesse tra i contraenti che non concernono l’attuazione delle prestazioni e
che la buona fede può contribuire a risolvere. In tal senso l’esecuzione del
contratto è la fase dei rapporti nella quale la regola è destinata ad operare
piuttosto che il criterio di delimitazione della materia regolata. Si vedrà
peraltro come il riferimento alla esecuzione abbia suscitato dubbi di
compatibilità con esso della prospettata funzione della buona fede di fonte
integratrice del regolamento contrattuale, e come esso sembri segnare la
separazione di campo tra la clausola generale e le regole di validità del
contratto.
2. Inattendibilità delle definizioni di buona fede
I caratteri di indeterminatezza degli elementi dell’enunciato
dell’art. 1375 c.c. e le connesse peculiarità del precetto, anche riguardo alla
sua relazione con altre norme e con il ruolo del giudice, danno ragione della
vanità degli sforzi di pervenire ad una definizione della buona fede e ne
revocano in dubbio la stessa legittimità.
Dalla complessiva considerazione della dottrina e della
giurisprudenza non si desume una nozione univoca di buona fede, né è dato
rinvenire una determinazione comunemente accettata dei contenuti della regola
che essa esprime.
Molto spesso gli intenti definitori si risolvono nella
indicazione di sinonimi o di perifrasi che non descrivono la nozione più di
quanto non faccia il puro e semplice impiego della formula «buona fede» e che,
comunque, non sembrano poterne esaurire le valenze (pur se da alcuni di essi
possono trarsi, come si dirà, alcune utili indicazioni circa i criteri di
applicazione della regola): «correttezza e lealtà»; «rispetto della parola
data», «protezione degli affidamenti suscitati»; «fedeltà ad un accordo
concluso» e «impegno all’adempimento delle altrui aspettative»; «solidarietà»;
«onestà»; «cooperazione» e «linearità di comportamento»; «rispetto della
personalità e della dignità altrui».
Con particolare riguardo al riferimento alla correttezza,
esso manifesta un’analoga indefinizione e non pare idoneo a rappresentare il
significato di buona fede, essendo ormai prevalente in dottrina l’affermazione
della sostanziale identità di contenuto e di àmbito di operatività delle due
formule e delle regole che ad esse corrispondono.
Quanto all’identificazione di un divieto – implicato dal
dovere di correttezza e buona fede – di «comportamenti vessatori ed
ostruzionistici», essa sembra enucleare uno dei criteri alla stregua dei quali
valutare la conformità a buona fede di determinate condotte tenute nella
esecuzione del contratto, ma non pare possa trarsene una definizione esaustiva e
generalizzabile.
Nella giurisprudenza un certo abuso della definizione per
sinonimi conduce a volte al richiamo contestuale di nozioni tra loro non
omogenee o non compatibili: «diligenza» e «solidarietà», «diligenza e
correttezza».
Né risultano più esaurienti, ai fini della definizione della
nozione e della determinazione del suo contenuto, i tentativi di classificazione
della buona fede nelle diverse categorie di doveri o di regole: così tra le
regole di pura opinione, tra quelle della coscienza etico-sociale, o del
costume.
A ben vedere, la mera enunciazione di un principio
assiologico scevra dal riferimento del valore affermato a definite situazioni di
contatto sociale, a determinati interessi, individuali o collettivi, non esprime
alcuna direttiva esauriente da cui possano attendibilmente trarsi regole di
condotta. Essa infatti cela, sotto una formula prescrittiva, una proposizione
tautologica; si pensi alla più generale e comprensiva tra le espressioni cui si
è ricorsi per rappresentare la nozione di buona fede: l’onestà; prescrivere che
i contraenti debbano tenere un contegno onesto equivale a dire che la loro
condotta deve essere «retta», deve uniformarsi al perseguimento ed alla
realizzazione del bene e, quindi, che essi «devono operare come si deve». La
stessa formulazione di principî e regole mediante espressioni che designano
virtù (onestà, probità, lealtà) rivela la circolarità delle proposizioni
prescrittive che in tale enunciazione si esauriscono: stabilire che la condotta
deve essere conforme a virtù equivale a decretare che occorre bene operare. Per
poter desumere da formule siffatte regole definite e la soluzione di concreti
conflitti di interesse si deve allora necessariamente ricorrere ad operazioni
determinative che non possono trovare la loro fonte e i loro criteri nella pura
e semplice definizione del valore enunciato in quei precetti e in un
inattendibile sforzo esegetico.
Di fronte alla difficoltà di enucleare una nozione di buona
fede sufficientemente determinata nei suoi contenuti e nei suoi confini si
profila una «diffusa convinzione circa una sorta di ineffabilità della buona
fede». È significativo in tal senso che un’autorevole voce dottrinale, assai
aperta al riconoscimento di ampi spazi di operatività alla correttezza-buona
fede, affermi la «impossibilità di una definizione precisa ed aprioristica del
contenuto normativo delle regole della correttezza e della buona fede», mentre
da altri si riconosce come siano «irrisolvibili» i «problemi di definizione del
contenuto» della stessa, o si sottolinea l’impossibilità di ridurre la buona
fede e, in genere, le clausole generali, «in concetti definiti una volta per
tutte». Ed il riferimento delle clausole generali a «valori», intesi quali
«oggettività ideali», «archetipi» dà ragione di tale impossibilità.
Non stupisce dunque che siano sorte in vario tempo riserve
sull’impiego della buona fede, motivate a ragione della «vaghezza» del concetto,
e che si sia giunti a vedere nella regola una «norma in bianco» e a negare che
la formula abbia nel diritto italiano «assunto un contenuto determinato»,
dubitandosi della possibilità di stabilire «un sicuro significato di buona
fede». La diffusa consapevolezza della difficoltà di definirne e di trarne
criteri determinati ed univoci di soluzione dei conflitti ha perpetuato le
risalenti diffidenze e resistenze, di matrice giuspositivista, verso la regola.
E tali difficoltà hanno suffragato i timori di un intervento arbitrario del
giudice sui contratti che possa sovvertire gli assetti negoziali volontariamente
stabiliti dai privati.
La consapevolezza della necessità di operazioni determinative
che trovino la loro fonte e i loro criteri al di fuori della pura e semplice
evocazione o definizione del valore di buona fede conferma l’esigenza di volgere
la ricerca alla identificazione delle relazioni tra quel valore e la trama di
regole legali e convenzionali che interferiscono con la disciplina del contratto
e della sua esecuzione, e dei rapporti tra ruoli di regolamentazione
appartenenti a differenti ordini: legale, convenzionale, giudiziario. E, in tal
senso, la problematica della buona fede rivela la sua afferenza a quella delle
clausole generali.
3. Buona fede e clausole generali
I profili problematici che emergono già da una prima
considerazione della formulazione dell’art. 1375 e della difficoltà, ed anzi
della impossibilità, di definizione della nozione di buona fede corrispondono a
quelli che denunciano tutte le clausole generali; in consonanza con l’ormai
comune riconoscimento che la norma enuncia, appunto, una clausola generale.
Mentre il riferimento alla buona fede come principio generale, se implica una
problematica di vasta portata e rilevanza, in relazione alla sua operatività al
di fuori dell’area dei contratti e delle obbligazioni, nell’àmbito di questa,
invece, quale che sia il significato di principio generale che voglia adottarsi,
non pare assumere alcun rilievo, essendo ogni problema di disciplina dei
rapporti alla stregua della correttezza assorbito dall’operatività della
clausola generale, in virtù del disposto degli artt. 1175 e 1375 c.c.
Tra le diverse specie di indeterminatezza di formule
normative si suole distinguere la clausola generale per alcuni caratteri che,
secondo una sintesi necessariamente semplificata e conforme ai consolidati
orientamenti della dottrina, possono così riassumersi: la mancanza nella formula
normativa della indicazione di una «fattispecie analitica», l’inserimento in un
àmbito delineato da altre disposizioni, il riferimento del precetto a «valori»,
l’attribuzione al giudice di un compito determinativo di regole concrete. Se la
stessa funzione di applicazione di norme formulate con la tipica struttura
condizionale a fattispecie analitica non esclude àmbiti di determinazione
rimessi al giudice, il ruolo determinativo riservato a quest’ultimo rispetto
alle clausole generali è reso molto ampio e peculiarmente autonomo dalla
indefinizione della fattispecie, e dello stesso precetto a ragione del suo
riferimento a valori. E il fondamento di tale ruolo risiede nella stessa
peculiarità del programma normativo che si esprime nelle clausole generali, le
quali sono specificamente volte ad instaurare quella «articolazione
dell’ordinamento» che consiste nella ripartizione di competenze normative tra
legge e giudice.
L’autonomia del ruolo determinativo del giudice – sia
riguardo all’apprezzamento del fatto, svincolato dal procedimento di sussunzione
in una fatti-specie legale data, sia riguardo alla attuazione del valore
enunciato dal precetto – assicura i vantaggi di elasticità e duttilità che
corrispondono alla struttura del programma normativo proprio delle clausole
generali. Ma a questi fanno riscontro correlati rischi: di arbitrio e di
incontrollabilità delle decisioni, di precarietà delle previsioni degli esiti
giudiziari.
Entrambi gli aspetti, invero tra loro inscindibili, sono
consapevolmente riscontrati tanto dai fautori che dai contestatori
dell’opportunità del ricorso a tecniche legislative che valorizzano il ruolo
determinativo del giudice. L’affermazione delle clausole generali nel nostro
ordinamento (e in quello comunitario), sia sul piano dell’evoluzione legislativa
che su quello degli orientamenti giurisprudenziali, non ha rimosso l’attenzione
per i rischi connessi alla loro applicazione; e si continua ad avvertire che
l’autonomia che esse riservano al giudice non apre, non deve aprire, «uno spazio
incontrollato di libere scelte».
Ma se l’attività determinativa del giudice fosse affidata
alla pura e semplice ricognizione dei valori nei modelli offerti dalla
«coscienza sociale», il controllo delle sue scelte si esaurirebbe in un puro e
semplice confronto di opinioni sottratto all’operatività di qualsivoglia tecnica
propriamente giuridica; e non potrebbe scongiurarsi il pericolo di un’autentica
giurisdizione equitativa, che sembra a volte tentare i giudici chiamati ad
applicare clausole generali.
Certo non può vagheggiarsi un controllo dell’applicazione
delle clausole generali che sia affidato a procedimenti logici sostanzialmente
corrispondenti a quelli propri dell’applicazione di norme formulate secondo la
struttura condizionale e mediante la definizione di fattispecie analitiche.
Così, deve rifuggirsi dalla tentazione di costruire una definizione dei
contenuti della clausola generale, surrogando la mancata enunciazione normativa
di fattispecie analitiche e di precetti definiti, per poi dedurne, secondo lo
schema sillogistico, la soluzione dei concreti conflitti di interessi; e in tal
senso si comprendono i constatati insuccessi degli sforzi definitori della buona
fede. Né può ammettersi la riduzione del contenuto delle clausole generali al
mero rinvio ad altre norme dell’ordinamento, circoscrivendosi l’àmbito delle
prime alla protezione di posizioni giuridiche che le seconde già assicurano,
secondo un atteggiamento sostanzialmente sterilizzatore manifestato da un
risalente – e persistente, seppur minoritario – orientamento giurisprudenziale
svalutativo della buona fede. Siffatti tentativi di controllo della
discrezionalità del giudice nella attuazione delle clausole generali non
rispettano infatti le loro peculiari proprietà normative, le negano e le
svuotano, anziché offrire soluzioni per scongiurare il rischio che il loro uso
si risolva in una arbitraria giurisprudenza equitativa.
Se si riconosce che il problema delle clausole generali è
essenzialmente di controllo del loro uso, e dell’esercizio del ruolo
determinativo che esse conferiscono al giudice, la soluzione non può consistere
nell’adozione di tecniche volte a sopprimere, anziché a controllare, tale
funzione.
Al riguardo si è affermata l’esigenza di una verifica di
«concordanza con i valori riconosciuti dall’ordinamento giuridico». Il rilievo
che le clausole generali operano nel quadro di altre disposizioni di legge,
integrandosi in un contesto normativo che regolamenta un dato settore di
rapporti, induce a ritenere che la stessa funzione determinativa del giudice non
possa prescindere dal rispetto della coerenza con tale contesto della decisione
e del suo fondamento. In tal senso, la considerazione del contenuto di altre
norme, la stessa opera costruttiva della dottrina e indicazioni complessive
d’ordine sistematico, devono orientare la decisione del giudice e costituiscono
criteri di controllo della medesima.
Si tende però anche a proporre che la ricerca da parte del
giudice di elementi alla stregua dei quali esercitare il suo potere
determinativo venga orientata verso il contesto sociale, piuttosto che verso
quello normativo; e ciò nel senso della ricognizione dei valori da attuare e
delle figure sintomatiche degli stessi rinvenibili nella esperienza sociale e
nella stessa casistica giudiziaria.
La clausola generale, si è detto, costituisce lo strumento di
un programma normativo che si articola in una ripartizione di competenze
regolamentari tra legge e giudice; il potere determinativo del secondo trova
quindi nella prima non solo il proprio fondamento, ma anche criteri e limiti al
suo esercizio, il quale, oltre l’àmbito che gli è programmaticamente riservato,
deve essere compatibile e coerente con l’ordinamento. Se la prospettiva
orientata verso il contesto normativo consente l’individuazione di criteri di
esercizio del potere determinativo, e di tecniche di controllo del medesimo,
propriamente giuridici, pur rispettosi del ruolo del giudice implicato dalle
clausole generali, quella orientata verso l’esperienza sociale sembra sottrarre
l’opinione del singolo giudice a controllabili criteri di giudizio. È per ciò
che l’esigenza di scongiurare i rischi di arbitrio e di imprevedibilità delle
decisioni giudiziarie suggerisce di privilegiare la prima prospettiva rispetto
alla seconda, anche se non ci si può nascondere che lo stesso controllo di
concordanza con l’ordinamento, se correttamente esplicato nel rispetto delle
proprietà delle clausole generali, lascia al giudice un non esiguo àmbito di
discrezionalità valutativa, che può essere peraltro temperato e organizzato
nella formazione di orientamenti che, a loro volta, assumono una portata
specificamente giuridica nel momento in cui essi si risolvono in ragioni, e
criteri di controllo, della giustificazione motivazionale delle decisioni.
Quella discrezionalità non attiene certo ad un foro interiore, ermeticamente
separato dalla realtà sociale. In quest’ultima il giudice dovrà ricercare dati
che potranno in vario modo assumere rilevanza nella formazione del giudizio; ad
esempio al fine di valutazioni di normalità di condotte dei contraenti. Certo,
in questo senso, la stessa focalizzazione dei criteri di giudizio può volgersi
alla considerazione di orientamenti mutuati dall’esperienza della realtà
sociale, ma il giudice dovrà sottoporli ad un filtro di compatibilità con le
direttive dell’ordinamento, onde rispettare la lealtà verso quest’ultimo che il
programma normativo proprio delle clausole generali, e il suo stesso ruolo, gli
impongono. La delega di potere normativo non può essere tradita con il
sovvertimento delle direttive espresse da disposizioni di legge, anche diverse
da quella sulla quale tale delega si fonda.
Le indicazioni che si traggono dal contesto normativo, anche
in virtù dell’opera costruttiva della dottrina, la messa a punto da parte della
giurisprudenza di «figure sintomatiche», la stessa manifestazione nelle sentenze
del fondamento valutativo e del procedimento logico seguito, consentono la
elaborazione di criteri orientativi e la formazione di tendenze, contribuendo a
rendere l’esercizio del potere determinativo del giudice suscettibile di un
controllo logico-giuridico e meno incline all’arbitrio equitativo.
Si deve però fin d’ora segnalare come la buona fede
contrattuale riveli, rispetto a queste tematiche, una propria specificità. Da un
lato, infatti, il controllo di concordanza con l’ordinamento interferisce con un
materiale normativo molto ricco, convergendo sul terreno della esecuzione del
contratto la disciplina generale dei contratti, quella dell’adempimento delle
obbligazioni, quella dei singoli tipi contrattuali legali; dall’altro, il ruolo
determinativo del giudice deve confrontarsi, oltre che con il contesto legale,
con il piano dell’autonomia privata. Se tali profili denunciano una peculiare
criticità, offrono anche materia per un solido fondamento alla elaborazione di
criteri di orientamento degli apprezzamenti e delle decisioni dei giudici.
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(*) Per
cortese autorizzazione dell’editore si pubblicano pagine di una monografia
A. D’ANGELO,Il contratto in generale.La buona fede,Torino 2004 ,che è
volume compreso nel Trattato di diritto privato in corso di pubblicazione
presso l ‘editore Giappichelli