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Il riparto delle competenze legislativa e amministrativa tra Stato e Regioni nel campo delle politiche pubbliche di tutela dell’ambiente*
 

 

The Assignment of Legislative and Administrative Power to Government and Regions in the Enviromental Protection's Public Policies Field

 

NICOLE CUTRUFO°

 

 

 

Abstract

Because of the hard coexistence of the government power and the regional one, after the new legislations that have been made by changing the constitution in 2001, the intervention of the Constitutional Court was needed, mostly for the matters concerning the wide and sensitive environmental field. It is unavoidable to feel the need to define the border line of the actual assignment of government power, so that the Consulta would not have to make discretionary decisions, as if it was a normal consequence to the lack of the Titolo V’s reform itself. The reform wanted to change the system form static into dynamic; in the current static system the only instrument able to shake it, is the so called “subsidy appeal”, a standard juridical procedure. In this way the Constitutional Court can actively intervene, which is not exactly what the Court is expected to do. Concerning several sensitive matters, including the environmental one, the passive role the legislator plays in reforming the system, could lead to some damages, because the resolution of conflicts related to assignments, would basically relay on a mere method of record of occurrences, which is not totally reliable. Furthermore the new environmental code seems to make the insiders do the dirty work of finding a coherence, which sometimes simply does not exists


Key words:
Environmental Code, Environmental Matters, Government Power, Regional Power.


Introduzione

La pubblica amministrazione impernia la propria esistenza sulla sua legislazione, secondo il modello di burocrazia elaborato nel scorso secolo da Max Weber . Nel nostro ordinamento, l’esercizio delle funzioni legislative e amministrative è ripartito dalla Costituzione tra vari livelli di governo, individuati dall’art. 114 Cost.: Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato. L’ordine di questa elencazione non è casuale, ma è il frutto della dibattutissima riforma della nostra Carta Costituzionale realizzatasi nel 2001 con la L. cost. 18 ottobre 2001 n. 3, di modifica del Titolo V della Costituzione. Questa riforma, preceduta da innumerevoli tentativi falliti di revisione costituzionale, ha offerto copertura al decentramento amministrativo tendenzialmente federale contenuto in due semplici leggi ordinarie del 1997, la n. 59 e la 127 (c.d. Leggi Bassanini, dal nome del Ministro proponente). La legge costituzionale 3/2001 ha così realizzato il dettato dell’art. 5 della Costituzione secondo cui “La repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali (…)”, sancendo inoltre all’art. 118 (nuovo testo) che “Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano attribuite a Province, Città Metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza”. In questo modo il vertice della piramide amministrativa è occupato dai Comuni , i quali assumono competenza amministrativa in tutte le materie, tranne quelle riservate esclusivamente allo Stato, e realizzano il principio di sussidiarietà alla cui stregua Province, Città Metropolitane, Regioni e Stato intervengono nell’espletamento delle funzioni amministrative solo nel caso in cui il Comune non abbia i mezzi o le competenze per garantire il soddisfacimento dell’obbiettivo.
Il presente lavoro si soffermerà in particolare sulla difficile convivenza tra il potere statale e il potere regionale, all’indomani del nuovo riparto di competenze legislative ed amministrative frutto della modifica costituzionale del 2001: la riforma del Titolo V, infatti, ha capovolto il sistema di riparto delle competenze tra Stato e Regioni previsto dalla Costituente nel 1947, aprendo la strada ad una forma embrionale di federalismo che, come argomenterò nel corso della trattazione, non solo non ha realizzato le aspirazioni dei proponenti , ma ha posto la necessità di operare una “riforma della riforma” .
Il primo tentativo concreto è stato realizzato con il disegno di legge costituzionale n. 2544/2004 recante “Modifiche alla parte seconda della Costituzione”, che tuttavia non ha superato il referendum popolare al quale è stato sottoposto per non aver ottenuto la maggioranza dei due terzi nella seconda votazione prevista dall’art. 138 della Costituzione, ed ha, pertanto vanificato i suoi effetti benefici e chiarificatori sul nostro ordinamento. Eppure, una possibile “riforma alla riforma” aleggia ancora .
Nell’attesa di interventi legislativi chiarificatori e disciplinanti, la Corte costituzionale risolve una innumerevole mole di conflitti di attribuzione pervenutile dal 2001 e, in alcuni casi, detta dei criteri guida per l’interpretazione del nuovo testo della Costituzione, per evitare, come spesso è accaduto che il perseguimento di un interesse nazionale e di un diritto collettivo venga inibito da interessi locali e particolaristici. L’intervento della Corte è risultato spesso necessario nella materia “tutela dell’ambiente e del territorio” (lett. s, comma 2, del novellato art. 117 Cost), sulla quale si concentrerà il presente lavoro, dato che, nonostante sia annoverata nell’elenco delle materie oggetto di legislazione esclusiva statale, è stata spesso oggetto di un’avocazione di competenze da parte delle Regioni.
Il diritto all’ambiente salubre è considerato secondo una storica sentenza un diritto fondamentale dell’individuo ed interesse della collettività. Infatti, l’ambiente con tutte le sue componenti è manifestazione fisica dello spazio, in cui un organismo e una popolazione vivono nello stato naturale, e quindi costituisce l’habitat umano che, evidentemente, è una delle condizioni primarie da preservare e da tutelare affinché i cittadini stessi possano vivere la propria esistenza ancor prima di ogni altro istituto di diritto .
Allo scopo di garantire su tutto il territorio gli stessi standard qualitativi di habitat, è bene e necessario assicurarne la tutela in termini generali e, quindi, dall’alto degli organi statali competenti quali il Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare o, ancora, il Ministero della Salute, come ad esempio esplicitato nella sentenza n°134 del 2006 della Corte Costituzionale dove i giudice della Consulta hanno affermato la necessità di una disciplina uniforme sul territorio nazionale in materia di tutela della salute, non essendo “il bene salute suscettibile di alcuna differenziazione sostanziale territorialmente condizionata”. Come si illustrerà nel prosieguo del lavoro, questa considerazione non appare sempre ovvia dato che nella realtà dei fatti l’attribuzione delle competenze legislative residuali alle Regioni secondo l’articolo 117 della Costituzione di fatto agevola allo stesso modo una gestione amministrativa generale dei Comuni (secondo l’articolo 118) e lascia allo Stato la potestà solo in casi strettamente necessari e spesso anche controversi, in balia del rischio che l’interesse particolare prevalga su quello generale.


1 Il sistema delle autonomie nella fase di transizione dal modello originario al nuovo assetto costituzionale

1.1 La Repubblica delle autonomie: il nuovo sistema delle autonomie alla luce della riforma della parte seconda del Titolo V

La Costituzione italiana sancisce la scelta della forma di Stato regionale all’art. 5: “la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.
Tale articolo eleva il principio autonomistico a principio fondamentale dell’ordinamento costituzionale stabilendo che «La Repubblica, una ed indivisibile» «riconosce e promuove» le autonomie ed il decentramento e si impegna, inoltre, ad «adeguare i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento» . Il contenuto della sfera di autonomia che l’articolo 5 riconosce a tutti gli enti locali, è poi precisato nel Titolo V della Parte seconda della Costituzione, secondo il modello del “separatismo duale” consistente in una rigida separazione di competenze tra Stato Centrale ed Enti territoriali .
Nonostante la dichiarazione d’intenti espressa dall’art. 5, nel Titolo V del testo costituzionale del 1948, gli enti territoriali si trovavano in una condizione di subordinazione allo Stato già nella formulazione dell’art.114 (“la Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni”) che, appunto, non menzionava lo Stato tra gli enti in cui si ripartiva la Repubblica. Il riparto delle competenze legislative e amministrative si attuava, invece, sulla base del contenuto degli art.117 e 118 i quali fissavano, rispettivamente, l’elenco tassativo delle materie in cui le Regioni potevano emanare norme legislative “nei limiti dei principi fondamentali stabiliti dalle leggi dello Stato e sempreché le
norme stesse non siano in contrasto con l’interesse nazionale e con quello di altre Regioni” e l’attribuzione delle competenze amministrative, secondo il principio del parallelismo, nelle stesse materie elencate dall’art. 117, tranne quelle di interesse esclusivamente locale che potevano essere attribuite dalle leggi della Repubblica alle Province, ai Comuni o ad altri enti locali, o funzioni amministrative che potevano essere delegate dallo Stato alla Regione.
L’entrata in vigore della Costituzione (1° gennaio 1948) non corrispose alla sua concreta attuazione tanto che alcuni studiosi e politici del tempo parlarono di “spaventosa carenza istituzionale” e di “Costituzione inattuata”, circostanze addebitate all’“ostruzionismo della maggioranza” vale a dire alla volontà della maggioranza di ritardare il costituirsi delle istituzioni repubblicane.
Il dibattito sulle istituzioni riprese nel periodo 1958-1968, data in cui si adottò la legge sui consigli regionali: oggetto di particolare attenzione da parte dei costituzionalisti fu innanzitutto il problema dell’attuazione della Costituzione e, in particolare, l’istituzione concreta delle Regioni. Nel 1970 furono eletti per la prima volta i Consigli regionali e si procedette alla concreta attivazione dell’ordinamento regionale, spogliando di alcune competenze amministrative lo Stato e delegandole alle Regioni (legge n. 382 del 1970 e decreti legislativi n. 1-11 del 1972). Tuttavia, a partire dall’attuazione del 1970, la struttura regionale ideata dalla Costituente si è rilevata inadeguata alle esigenze localistiche e autoctone, incastrate in un modello “top-down” , con politiche centrali poco coerenti con le realtà locali, con un conseguente effetto deresponsabilizzante degli enti locali. Inoltre, il decentramento amministrativo avveniva di fatto tramite uno schema vertice-base posto come modello organizzativo ovvero era “lo Stato che decentrava le proprie competenze sia conservandone l’amministrazione, sia delegando le funzioni amministrative statali alle Regioni, sia, infine, determinando con proprie leggi le competenze e le funzioni che riteneva di interesse locale da attribuire a Comuni e Province” ad esempio come avvenne con “la prima legge delega n. 150/1953 e con i successivi decreti delegati, i quali attribuirono a Province e Comuni alcune competenze esercitate fino ad allora da organi decentrati delle amministrazioni statali” .
Tornando al dettato costituzionale dell’art. 5 – che definisce un po’ il DNA dell’ordinamento e rientra nei principi fondamentali della Carta stessa –, esso cita due termini complementari ma non uguali, ovvero il “decentramento” e l’“autonomia” che permettono due interpretazioni di tale articolo: da un lato, nel primo caso si può tendere verso una distribuzione del potere in senso verticale, ammettendo una distribuzione di funzioni tra organi dello stesso ente come lo Stato alle Regioni seguendo lo schema centro-periferia; dall’altro lato, nel secondo caso si ci può indirizzare verso un’interpretazione più in linea poi con la successiva e lontana riforma del 2001 stabilendo che il termine “autonomia” potesse in qualche modo autorizzare tramite una distribuzione del potere in senso orizzontale una compresenza accanto all’ente Stato di altri soggetti ovvero altri enti non proprio direttamente identificabili nello Stato stesso.
Quindi la Carta costituzionale, fin dall’inizio, permetteva di fatto una distribuzione del potere sia in termini sia regionalisti sia federali.
Per risolvere tali anomalie del sistema originario e soprattutto rispondere alle esigenze locali che con lo scorrere del tempo si manifestavano, sono state percorse varie strade.
In particolare, dal 1980 abbiamo assistito ad intensi dibattiti dottrinali accompagnati, dapprima, da un riformismo statutario dal basso (in tale direzione, le regioni Piemonte, Umbria, Toscana ed Emilia Romagna adottarono importanti modifiche ai rispettivi Statuti) e, successivamente, nel corso degli anni Novanta, dalle prime concrete iniziative legislative centrali volte al riconoscimento delle funzioni attribuite alle Regioni e alla garanzia del loro concreto espletamento , intervallate da infruttuosi tentativi di mettere mani alla Costituzione attraverso procedimenti di revisione costituzionale elaborati da un apposito comitato di studio, il Comitato Speroni del 1996, e la commissione bicamerale per le riforme costituzionali presieduta dall’On. D’Alema.
La svolta decisiva è tuttavia giunta quando ci si è avveduti dell’impossibilità di riformare in modo organico l’ordinamento della Repubblica relativo alla forma di Stato e, conseguentemente, dell’opportunità di procedere con piccole riforme costituzionali, settoriali e incisive. Questa consapevolezza ha prodotto il cosiddetto “big bang normativo”, consistito nell’approvazione di due leggi costituzionali dalla portata innovativa in meno di due anni: la legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1 “Disposizioni concernenti l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e l’autonomia statutaria delle Regioni” e la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 “Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione”. Soffermando l’attenzione sulla legge cost. n. 3/2001, si nota innanzitutto come in base al (novellato) articolo 114 la Repubblica risulti “costituita” da Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, laddove il testo previgente stabiliva che la Repubblica “si riparte” in Regioni, Province e Comuni”.
Cambia così il significato ascritto per tale aspetto alla Repubblica, riconfigurata quale ordinamento generale di cui lo Stato è parte e di cui Regioni ed enti locali sono componenti con pari dignità istituzionale. Conseguenza immediata di questa scelta si rinviene nei rapporti fra Stato e Regioni, i soli enti titolari di potestà legislativa: il nuovo articolo 117 fissa, al comma 1, i limiti di ordine generale paritariamente apposti alla legislazione sia statale che regionale (individuati nella Costituzione, nei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e negli obblighi internazionali). Il
portato innovativo della riforma del Titolo V è, infatti, contenuto nel nuovo dettato dell’articolo 117. A differenza di quanto disposto dal testo antecedente alla riforma, in base al quale la potestà legislativa regionale era esercitabile nelle sole materie ivi elencate, nella nuova formulazione, il nuovo articolo 117 innanzitutto:
- elenca tassativamente le materie in cui lo Stato ha legislazione esclusiva (comma 2);
- individua le materie oggetto di legislazione concorrente (comma 3), ove spetta alle Regioni la potestà legislativa salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato;
- attribuisce alle Regioni “la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato” (comma 4).
In secondo luogo, il nuovo testo sancisce la fine del criterio del parallelismo tra le funzioni legislative ed amministrative attribuite, rispettivamente, allo Stato e alle Regioni: al parallelismo delle funzioni, già eroso, se non esplicitamente superato, dalla legge delega n. 59 del 1997 e dai conseguenti decreti delegati (in primis, il decreto legislativo 112 del 1998) corrispondeva, nel precedente ordinamento, un rigido modello di garanzia delle sfere di attribuzione statali e regionali che era stato tuttavia più volte contraddetto dalla introduzione in via legislativa di moduli di integrazione e cooperazione, con i conseguenti problemi applicativi e interpretativi, e che, per altro verso, aveva finito col mortificare le autonomie territoriali in nome di un risalente culto per l’uniformità. Nel nuovo testo dell’articolo 117, al comma 5, si afferma invece che “la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salva delega alle Regioni. La potestà regolamentare spetta alle Regioni in ogni altra materia. I Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite”.
Nel nuovo impianto del Titolo V, inoltre, la competenza legislativa regionale incontra garanzie particolarmente intense, anche per effetto della soppressione del controllo governativo preventivo sulle leggi e della scomparsa dell’interesse nazionale, quale limite di merito alla legislazione regionale che il vecchio testo dell’articolo 127 assegnava al discrezionale apprezzamento del Parlamento nazionale.
Né va dimenticato che, accanto ai controlli della Corte dei Conti e del Consiglio di Stato (soppressi per effetto dell’abrogazione degli artt. 124 e art.125 primo comma) , è venuto meno altresì quel meccanismo del controllo ex ante che si concretava nel visto dei Commissari di governo (uno strumento che, di fatto, consacrava la supremazia del ruolo dello Stato sul Consiglio regionale) e si è equiparato il piano di azione dello Stato e delle regioni. Infatti il nuovo art. 127 garantisce la possibilità da parte del Governo di impugnare le leggi regionali davanti la Corte costituzionale (comma 1: “il Governo, quando ritenga che una legge regionale ecceda la competenza della Regione, può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale entro sessanta giorni dalla sua pubblicazione”) e, allo stesso modo, prevede un eventuale ricorso da parte delle Regioni (comma 2: “la Regione, quando ritenga che una legge o un atto avente valore di legge dello Stato o di un’altra Regione leda la sua sfera di competenza, può promuovere la questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale entro sessanta giorni dalla pubblicazione della legge o dell’atto avente forza di legge.
In riferimento invece alla riarticolazione territoriale delle funzioni amministrative, essa è improntata ai più flessibili principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, i quali richiedono in ogni caso congegni di raccordo soprattutto infraregionali, previsti dall’art.118. Sulla scia dell’insegnamento appreso dal diritto comunitario, infatti, la legge costituzionale 3/2001 ha introdotto all’art.118 la previsione del principio di sussidiarietà: “le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. I Comuni, le Province e le Città metropolitane sono titolari di funzioni amministrative proprie e di quelle conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze. La legge statale disciplina forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui alle lettere b) e h) del secondo comma dell’articolo 117, e disciplina inoltre forme di intesa e coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali. Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà” .
In tale ambito viene indicato con la locuzione principio di sussidiarietà “quel principio sociale e giuridico amministrativo che stabilisce che l’intervento degli Enti pubblici territoriali, sia nei confronti dei cittadini sia degli enti e suddivisioni amministrative ad esso sottostanti (ovvero l’intervento di organismi sovranazionali nei confronti degli stati membri), debba essere attuato esclusivamente come sussidio (ovvero come aiuto, dal latino subsidium) nel caso in cui il cittadino o l’entità sottostante sia impossibilitata ad agire per conto proprio” . Il principio di sussidiarietà stabilisce, pertanto, che le attività amministrative dovrebbero essere svolte dall’entità territoriale amministrativa più vicina ai cittadini (i Comuni ), con la possibilità di trasferire dette attività ai livelli amministrativi territoriali superiori (Regioni, Province, Aree metropolitane, Comunità montane ed isolane) solo se questi possono rendere il servizio in maniera più efficace ed efficiente. Si parla di sussidiarietà verticale quando i bisogni dei cittadini sono soddisfatti dall’azione degli enti amministrativi pubblici, e di sussidiarietà orizzontale allorquando tali bisogni siano soddisfatti dai cittadini stessi, magari in forma associata e/o volontaristica .
La riforma del Titolo V, pertanto, ha agevolato lo svolgimento delle funzioni regionali, superando il gap istituzionale in cui queste versavano ma ha anche provocato altri e non meno rilevanti problemi .
La formulazione del nuovo art. 117, infatti, ha attivato un doppio percorso.
Il primo percorso ha visto Regioni e Stato ricorrere innumerevoli volte alla Corte Costituzionale nel suo ruolo di garante della Costituzione e della certezza del diritto, per conflitti di attribuzione derivanti proprio dalla non chiara formulazione del Titolo V. In particolare, infatti, spesso le Regioni hanno fatto ricorso per la violazione delle loro competenze legislative, regolamentari ed amministrative, ma altrettante volte lo Stato è ricorso alla Corte non più per il perseguimento dell’interesse nazionale, ma per la garanzia di esercizio unitario e dei livelli minimi dei diritti sociali, come accade in materie quali salute e ambiente ad esempio, le quali, pur essendo di competenza esclusiva statale sia a livello legislativo che regolamentare, vengono spesso avocate dagli enti territoriali a livello amministrativo .
Il secondo percorso ha indotto invece a operare una “riforma della riforma” attraverso progetti di revisione costituzionale del Titolo V, quali:
- il disegno di legge costituzionale sulla c.d. devolution che, approvato in prima lettura dal Senato nel dicembre 2002, il 14 aprile 2003 è stato licenziato, sempre in prima lettura, dalla Camera dei Deputati ;
- lo schema di d.d.l. cost. approvato dal Consiglio dei Ministri l’11 aprile 2003, su iniziativa del Ministro La Loggia, e successivamente archiviato 38;
- un progetto organico di riforma dell’intera seconda parte della Costituzione (disegno di legge costituzionale n. 2544/2004) che, tra il 2004 ed il 2005, dopo una falsa partenza segnata dal primo testo approvato dal Senato (il 25 marzo 2004) e profondamente modificato dalla Camera (15 ottobre 2004), è stato approvato in seconda lettura dai due rami del Parlamento (rispettivamente, il 23 marzo 2005 e il 20 ottobre 2005), ma è stato bocciato nel referendum popolare tenutosi nei giorni 25 e 26 giugno 2006 .

1.2 Il potere legislativo e il problema delle materie trasversali

Uno dei punti centrali della riforma del 2001 è, come già accennato, l’attribuzione della potestà legislativa alle Regioni, potestà legislativa sia concorrente (comma 3. dell’art. 117 della Cost.) che residuale (comma 4), in tutte le materie non riservate dal comma 2 del medesimo articolo 117 alla competenza esclusiva dello Stato.
Il riparto delle competenze legislative tra Stato e Regione, tuttavia, non emerge chiaramente dalla lettera dell’art. 117. Il suddetto articolo, infatti, non sancisce una divisione letterale e rigida delle competenze ma “è necessario interpretarla alla luce dell’intero impianto costituzionale dei rapporti Stato-Regioni: molte volte gli intrecci degli interessi nazionali e regionali presenti in molte materie non consentono di fermarsi al mero dato testuale” .
Il ruolo di giudice di questi conflitti attributivi è svolto dalla Corte Costituzionale. Il nuovo dettato costituzionale, infatti, carica di grandi aspettative ogni decisione della Corte “proprio perché si attende da essa la soluzione di numerosi nodi interpretativi che riguardano l’assetto dei rapporti tra Stato, Regioni ed autonomie locali” . Il parere della Corte diviene quindi essenziale nella risoluzione dei rapporti tra nuova e vecchia formulazione del titolo V e, soprattutto, nella descrizione del nuovo “modo di essere dei rapporti tra la Costituzione e le fonti ad essa subordinate”. Alla luce del nuovo testo costituzionale, infatti, “ tanto lo Stato, quanto le Regioni trovano direttamente nella Costituzione la delimitazione del proprio ambito” ovvero i settori materiali di competenza e, nel caso in cui l’attribuzione di una materia non emerga chiaramente dalla predeterminazione costituzionale, “deve ritenersi in linea di principio competente il legislatore regionale”.
Ebbene è proprio questa potestà legislativa residuale delle Regioni, a scatenare dubbi e incomprensioni in quanto essa esprime una quantità non limitata a priori e, quindi, potenzialmente indeterminata di materie delegate alla potestà regionale. È stato argomentato, però, che la clausola di attribuzione residuale contenuta nell’art. 117 al comma 4 non qualifica la potestà legislativa regionale come nelle materie innominate e non vi è quindi una espressa previsione di potestà legislativa esclusiva delle Regioni. Questo è il punto di partenza interpretativo per comprendere la regola di riparto delle materie e scoraggiare il tentativo di definire un “nuovo tipo di potestà legislativa regionale” e apprezzare gli elenchi contenuti al comma 2 e 3 dell’art. 117 che impongono un limite alla “capacità di intervento dello Stato”, rintracciando al comma 4 una “pianificazione tra legge statale e regionale”.
Partendo da questo presupposto la “ricognizione delle materie innominate” rimane un arduo compito.
L’individuazione delle materie attribuite alla potestà legislativa residuale comporta, infatti, un’operazione di “ricognizione, di interpretazione e di confronto tra il vecchio e il nuovo testo dell’art. 117”e “tra le etichette riportate in questi elenchi” e, inoltre, gli ambiti di applicazione delle materie definiti con la legislazione ordinaria . La riforma ha riproposto quesiti interpretativi già presenti in passato riguardo l’ambito delle materie e li ha addirittura intensificati con il nuovo testo sia per la genericità di alcune diciture – come ad esempio, “professioni”, “ordinamento della comunicazione”, “governo del territorio” – sia per il riferimento di alcuni ambiti di intervento a valori costituzionali piuttosto che a semplici materie, come ad esempio “tutela della salute” e “tutela
dell’ambiente”. La Corte è intervenuta sull’argomento nella sentenza n. 407 del 2002, parlando di “materie-non materie” ovvero sancendo un riferimento implicito a valori costituzionali che inducono quindi una trattazione di queste in maniera più scrupolosa e responsabile che ispiri lo Stato e le Regioni al migliore perseguimento, escludendo la definizione a priori dell’ambito di competenza, ma solo a seguito di un’attenta analisi e di un contemperamento più che ponderato degli interessi in gioco.
Nell’ambito della “tutela dell’ambiente” la giurisprudenza costituzionale ha escluso l’esistenza di una materia in senso tecnico dato che la disciplina in oggetto non può essere limitata e circoscritta alla competenza statale in quanto essa si interseca con altri interessi in gioco e altre competenze. Vi sono, inoltre, materie residuali che includono materie affini alla tematica ambientale e che, quindi, benché di competenza regionale, in quanto rientranti in “una configurazione di ambiente come valore costituzionalmente protetto”, divengono delle materie “trasversali” per le quali lo Stato può in caso di esigenze unitarie determinare una “disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale” . Con la citata sentenza, la Corte ha fatto luce per la prima volta su un punto focale del criterio di distribuzione delle competenze, fino ad allora improntato su una struttura a compartimenti stagni, dicendo che “non tutti gli ambiti materiali specificati nel secondo comma dell’art. 117 possono, in quanto tali, configurarsi come «materie» in senso stretto, poiché, in alcuni casi, si tratta più esattamente di competenze del legislatore statale “idonee ad investire una pluralità di materie”. Eppure questa storica sentenza ha legittimato, salvandola dall’annullamento, la legge regionale Lombardia n. 19 del 2001 recante “Norme in materia di attività a rischio di incidenti rilevanti”, impugnata dal Presidente del Consiglio dei Ministri in via principale. Infatti, in questo caso, la normativa regionale era più restrittiva della disciplina statale per quel che riguardava gli standard richiesti, ritenendo sufficiente una quantità di sostanze pericolose presenti in determinati stabilimenti in misura inferiore rispetto a quella richiesta dalla legge statale. Quindi la denunzia di illegittimità costituzionale era stata avanzata da parte dell’Avvocatura dello Stato per due motivi di motivi: da un lato, una semplice e netta rivendicazione di attribuzione della materia “attività a rischio di incidenti rilevanti”, in quanto inclusa nella dicitura “tutela dell’ambiente” alla lettera s) del secondo comma dell’art. 117; dall’altro, l’assunta censura di disparità concorrenziali, dato che le imprese localizzate in queste zone avrebbero dovuto sostenere costi aggiuntivi a causa di standard più restrittivi.
La decisione della Corte in questo caso si è indirizzata verso un’ottica localista in quanto la “tutela dell’ambiente” non configura, secondo la Consulta, un ambito materiale circoscritto riferibile alla sola competenza statale, ma al contrario “investe e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze”. Dunque l’ambiente, essendo un “valore costituzionalmente protetto che, in quanto tale, delinea una sorta di materia trasversale”, investe anche una pluralità di competenze “che ben possono essere regionali”, essendo legate fra loro dalla unicità dell’interesse costituzionalmente rilevante da tutelare e rispetto alle quali spettano allo “Stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale”. Quindi – secondo questa interpretazione della Corte – “(…) l’intento del legislatore di riservare allo Stato il potere di fissare standard di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale” non esclude che la cura degli interessi qui citati di questo settore, anche se collegati con quelli ambientali non possa essere di competenza regionale e che la Regione non abbia esigenze diverse e più restrittive di quelle statali: nel caso specifico, la Corte ritiene che nell’articolato della legge regionale lombarda vi siano i profili materiali di competenza regionale (“governo del territorio”, “tutela della salute”, “protezione civile”, “tutela e sicurezza del lavoro”) in base ai quali si giustifica tale intervento normativo all’interno del nuovo quadro costituzionale.
La legittimazione della fonte regionale e l’individuazione di “materie-non materie” e di “materie-valore” è stata parzialmente smentito con la sentenza n. 536 del 2002 che ha accolto un ricorso in via principale promosso dal Governo contro la legge regionale Sardegna n. 5/2002, che estendeva il periodo di svolgimento della caccia oltre il termine stabilito in via generale dalla legge nazionale n. 157 del 1992. In questa pronuncia vi è una posizione della Consulta sostanzialmente invertita rispetto alla precedente: si riafferma, infatti, che “la tutela dell’ambiente non può ritenersi propriamente una «materia», essendo invece (...) un «valore» costituzionalmente protetto”, ma si sostiene anche che “l’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione esprime una esigenza unitaria per ciò che concerne la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, ponendo un limite agli interventi a livello regionale che possano pregiudicare gli equilibri ambientali” e legittimando lo Stato a “dettare standard di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale anche incidenti sulle competenze legislative regionali ex art. 117 della Costituzione”.
Quindi si torna al punto precedente senza poter dare per superati i quesiti anteriori.
Infatti, in quest’altra occasione la Corte si erge a difensore del valore ambiente e della tutela dell’ecosistema mentre il diritto di caccia, nel contemperamento degli interessi, gode di una protezione sotto ordinata rispetto alle esigenze uniformi degli standard statali, compresi anch’essi in un contesto normativo europeo e internazionale. Ciò comporta l’annullamento della legge regionale della Sardegna nell’intento “di garantire il sistema ecologico nel suo complesso”: in particolare, la Corte sottolinea che “la disciplina statale che prevede come termine per l’attività venatoria il 31 gennaio si inserisce (...) in un contesto normativo comunitario e internazionale rivolto alla tutela della fauna migratoria”; proprio tale disciplina statale “risponde senz’altro a quelle esigenze di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema demandate allo Stato e si propone come standard di tutela uniforme che deve essere rispettato nell’intero territorio nazionale, ivi compreso quello delle Regioni a statuto speciale”. È in questa prospettiva, secondo i giudici della Consulta, che “la legge della Regione Sardegna, privilegiando il «diritto di caccia» rispetto all’interesse della conservazione del patrimonio faunistico (...) non rispetta il suddetto standard di tutela uniforme e lede, pertanto, i limiti stabiliti dallo Statuto della Regione Sardegna (art. 3, primo comma, della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3)” secondo il quale la Regione stessa può esercitare la propria potestà legislativa su una serie di materie ma “in armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e col rispetto degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica” .
Le due posizioni in apparenza diametralmente opposte mostrano, innanzitutto, una inclinazione della Corte verso un atteggiamento garantista del valore costituzionale ambiente, allorché l’incertezza in ordine al riparto di competenze fra Stato e Regioni potrebbe compromettere la qualità dell’ambiente e dell’ecosistema. Quindi la Consulta, stante l’esplicita previsione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), non ammette che le Regioni, rivendicando proprie competenze, compromettano suddetto valore. Nulla esclude, però, che la Corte riconosca la competenza regionale in materia nel caso in cui le stesse Regioni introducano discipline più rigide e quindi di maggior tutela rispetto a quelle statali, afferenti ad ambiti materiali di propria competenza riguardanti la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, purché si muovano nell’ambito degli standard previsti da leggi dello Stato e, quindi garantiscano più intensamente l’integrità ambientale.
Vista la ripresa del concetto di ambiente in tale senso anche nella giurisprudenza successiva , si può “sostenere che la definizione di ambiente come valore trasversale sia ormai ripresa tralatiziamente nella giurisprudenza costituzionale” . Allo stesso tempo, i diversi giudizi hanno confermato che l’individuazione di materie trasversali nell’ambito della rigida ripartizione sancita dall’art.117 cost., da un lato, conferisce ampia competenza legislativa allo Stato per permettergli di garantire standard minimi di tutela che siano uniformi su tutto il territorio e, dall’altro, realizza il dettato del testo costituzionale confermando il principio della legislazione concorrente perché pone su un piano di perfetta parità Stato e Regioni, come nel caso preso in esame della decisione n.407 del 2002 e ribadito anche nella sentenza 307 del 2003.
Ancora in sentenze successive (ad esempio la decisione n. 214 del 2005), la Corte ha precisato che la “tutela dell’ambiente” è un valore costituzionalmente protetto e che investe anche altre materie di competenza concorrente regionale.
Altro problema da affrontare, una volta assodata la definizione e la disciplina di “materia trasversale”, è la convivenza della potestà legislativa statale nel sancire standard di tutela uniformi sul territorio e la potestà regionale nella gestione del proprio territorio che rischia di poter essere sopraffatta dall’interesse afferente alla materia-valore ambientale.
Dalla posizione presa dalla Corte nella sentenza n. 307 del 2003 si riconosce la competenza delle Regioni e degli Enti locali sotto il profilo della potestà di regolazione dell’uso del proprio territorio seppur nel rispetto dei limiti o valori individuati dallo Stato. Tale attribuzione è poi ulteriormente rafforzata dalla circostanza che l’art. 118 Cost. attribuisce ai Comuni la generalità delle funzioni amministrative, lasciando a Province, Regioni e Stato solo quelle loro conferite per assicurarne l’esercizio unitario secondo i noti principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. L’interpretazione della Corte scaturisce appunto dalla ormai riconosciuta affermazione che l’ambiente non deve essere considerato come una materia ma come un valore e quindi come tale tutelabile da tutti i soggetti pubblici dotati di competenze e potestà di intervento quindi anche le Regioni e gli Enti locali. E inoltre le diverse connotazioni giuridiche e scientifiche dell’ambiente come habitat, come paesaggio e ancora come territorio oppure come l’insieme delle risorse naturali ed infine come il «recipiente» del metabolismo della biomassa (rifiuti e residui, organici ed inorganici). La manifestazione di queste molteplici sfaccettature dell’interesse ambientale nell’ordinamento porta alla necessaria integrazione degli interessi ambientali nelle politiche pubbliche le quali devono realizzarsi mediante il bilanciamento tra i vari interessi pubblici coinvolti e l’applicazione del principio di proporzionalità.
Come possiamo vedere dalle sentenze n. 62 del 2005 e n. 108 del 2005, la Corte ha espresso un’ulteriore chiarificazione sugli standard di tutela e sulla determinazione degli stessi da parte delle Regioni. In questi frangenti è evidente il contemperamento degli interessi da parte della Consulta che si qualifica come paciere nel conflitto attributivo tra Stato e Regioni, cercando di definire delle linee guida per la risoluzione della problematica attributiva e di chiarire anche le sue altalenanti posizioni passate in materia.
Nella sentenza n. 62 del 2005, la Corte è stata investita di un ricorso in via principale promosso da parte del Governo contro tre leggi regionali che dichiaravano i rispettivi territori a carattere “denuclearizzato e precluso al transito e alla presenza di materiali nucleari provenienti da altri territori”. Il Governo dissentiva sul fatto che le competenze statutarie delle Regioni in materia di urbanistica potessero legittimare una competenza legislativa esclusiva regionale nella materia ambientale dato che essa è notoriamente di competenza statale, mentre, allo stesso modo, le Regioni in questione, appellandosi ai precedenti giurisprudenziali delle decisioni prese dalla Consulta, sostenevano che la materia ambientale non costituisse una materia in senso tecnico (e quindi, come tale, circoscritta alla competenza statale), intrecciandosi piuttosto e inequivocabilmente con altri interessi e soprattutto con altre competenze regionali trasversali che spezzano l’unità della materia. La sentenza de qua incarna un esempio di contemperamento di interessi dato che, nonostante la rivendicazione legittima da parte delle Regioni, l’oggetto delle restrizioni alla circolazione e al deposito di rifiuti radioattivi devono essere fondate, seconda la Corte, “su dati scientifici attendibili e non su valutazioni genericamente prudenziali, suggerite dalle convinzioni locali, non motivate sperimentalmente”. Rispetto alla posizione assunta nella sentenza 307 del 2003, la Corte non ha ammesso standard di tutela più restrittivi di quelli nazionali in quanto si porrebbero in contrasto “insieme ad altri interessi di rilievo nazionale, con lo stesso interesse alla salute in un ambito più vasto” . In questo caso la limitazione della competenza legislativa regionale si è verificata nel caso in cui “esigenze unitarie di tutela dell’ambiente si intreccino con una delle materie comprese negli elenchi dell’art.117, comma 3” mentre ciò può accadere anche quando “incidano su materie di competenza regionale di tipo esclusivo”.
Nella sentenza n. 108 del 2005 la Corte, di fronte ad una richiesta da parte della Regione del potere di apportare deroghe alla normativa statale in materia di cave, materia non ricompresa negli elenchi dei commi 2 e 3 dell’art. 117 e quindi, secondo il comma 4, di competenza esclusiva della Regione, facendo appello al concetto di materia valore per quel che riguarda la materia ambientale come anche nelle precedenti sentenze n. 407 del 2002 e n. 307 del 2003, non ha concesso alla Regione Umbria di apporre delle deroghe agli standard nazionali e di poter fare degli interventi di ampliamento o completamento delle cave in servizio o di reinserimento o recupero ambientale di cave dismesse all’interno di parchi nazionali e regionali.
A conclusione di questi brevi esempi, emerge un quadro giurisprudenziale a tratti contorto e a tratti chiarificatore.
La Corte, infatti, sancisce ormai in maniera consolidata la nozione di materia ambientale trasversale e la erge a valore costituzionale e non assimilabile ad una semplice materia tecnica, ma nei vari casi
specifici qui trattati “non vengono ammesse deroghe in sede regionale nemmeno quando esse siano più restrittive della materia statale”. Nella sentenza n. 108 del 2005, il contemperamento degli interessi operato dalla Corte potrebbe, in particolare, sembrare contraddittorio in quanto invece di aumentare la qualità a livello locale dell’ambiente operando degli standard più restrittivi si opta per l’uniformità nazionale.
È certo, pertanto, che il limite tra l’interesse nazionale e quello locale nel caso di queste materie trasversali dipende da ogni singolo caso e il confine è molto labile .
Dopo la scomparsa della dicitura “interesse nazionale” dalla Carta Costituzionale questa mobilità tra interesse locale e statale è quindi oggi governata dal principio di sussidiarietà, come si illustrerà in seguito.
Si può trarre una conclusione piuttosto omogenea per quel che riguarda la materia ambientale.
Essa, infatti, da più decisioni della Corte appare come “un compito” dalla sentenza n. 336/2005, o ancora un come un “valore trasversale” come anche nella sentenza n. 536/2002, ed infine come “una materia-funzione” dalla sentenza n. 272/2004. Di qui l’importanza del criterio della finalità che permette al legislatore statale di garantire valori “da tutelare nell’ambito di tutte le discipline che in qualche modo possano su di esso incidere” dalla decisione della sentenza n. 133/2006, data la natura di finalità della materia. Proprio per il perseguimento di tale finalità spesse volte è lo Stato ad occuparsene proprio per la natura “teleologica” di tale materia e la competenza statale si presenta “sovente connessa e intrecciata inestricabilmente con altri interessi e competenze regionali” come ad esempio nelle sentenze 32 del 2006 e la 135 del 2005, “le quali possono essere di natura concorrente, ad esempio quelle in materia di protezione civile, quando venga in rilievo la tutela dell’ambiente” ed anche di natura residuale, come quella in materia di trasporto pubblico locale, quando venga in rilievo la tutela della concorrenza come nelle sentenze n. 29 del 2006 e n. 80 del 2006.
Lo Stato però non è l’unico soggetto legittimato ad occuparsi di tale materia in quanto, come visto dalla sentenza numero 536 del 2002, esso si limita a fissare standard minimi di tutela uniforme ovvero norme dotate di un carattere di generalità ovvero “determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale” (come statuito nelle sentenze n. 222/2003, 135/2005) e “non può negarsi la legittimità di una legislazione delle Regioni, le quali, nel quadro ed in armonia con quella statale, nell’esercitare la competenza che loro appartiene riguardo ad altre materie (…) approntino ulteriori strumenti di tutela, legati alla specificità dei luoghi”.
Bisogna tuttavia chiarire quali siano “le esigenze unitarie, gli interessi “infrazionabili” che devono cioè essere garantiti in modo uniforme sul territorio nazionale”. Sull’argomento, la Corte si è pronunciata in merito alla competenza statale in tema di “livelli essenziali”, anche se il riferimento ai “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”, è ritenuto dalla Consulta invocabile “solo in relazione a specifiche prestazioni, delle quali la normativa nazionale definisca il
livello essenziale di erogazione, mentre esso non è utilizzabile al fine di individuare il fondamento costituzionale della disciplina, da parte dello Stato, di interi settori materiali”. Più volte la Consulta ha individuato il titolo dell’intervento statale e ha negato la disciplina regionale differenziata. Essa ha fatto più volte appello alle “esigenze unitarie” e ha riconosciuto la competenza dello Stato quando entra in gioco la tutela di interessi considerati fondamentali o valori “che permeano di sé la prima parte della Costituzione”; data la loro fondamentale rilevanza costituzionale, la loro tutela deve essere garantita uniformemente sul territorio nazionale. Tra questi valori costituzionali vi è ad esempio la tutela della salute che è affidata alla competenza concorrente ma spetta alle Regioni per tutto ciò che non sia principio fondamentale. Infatti, secondo la sentenza n. 361 del 2003 la salute della persona “è un bene che per sua natura non si presterebbe ad essere protetto diversamente alla stregua di valutazioni differenziate, rimesse alla discrezionalità dei legislatori regionali”.
Come già visto largamente in precedenza, anche la tutela dell’ambiente è infrazionabile in quanto “l’interesse sotteso non tollera discipline differenziate”. Come è noto, la Corte riconosce che la competenza statale sulla tutela dell’ambiente si intreccia spesso con altri interessi e competenze regionali concorrenti, in particolare con la competenza regionale concorrente in materia di tutela della salute, governo del territorio e protezione civile.
Eppure vi è “un limite invalicabile per il legislatore regionale”, individuato dalla Corte “nella riserva allo Stato del compito di fissare standard di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale, rimanendo la possibilità di eventuali interventi specifici del legislatore regionale, nel rispetto di quelli”, come già visto ad esempio nella sentenza 407 del 2002 .

1.3 Il potere amministrativo e il principio di sussidiarietà

L’esercizio della funzione amministrativa in capo al sistema delle Autonomie territoriali assume oggi connotazioni ben diverse rispetto al disegno costituzionale originario: in seguito alla riforma del 2001, la struttura di tale funzione pone infatti “al centro il principio di sussidiarietà insieme ai connessi principi di differenziazione ed adeguatezza come cardini del sistema amministrativo” . Le decisioni della Corte costituzionale – come abbiamo potuto vedere – hanno un alto grado di discrezionalità e differenziazione e diventa, quindi, complesso il reperimento di coerenze tra le diverse pronunce. Eppure possiamo ricondurre molti giudizi all’utilizzo del principio di sussidiarietà, come un parametro di riferimento per la definizione dei confini di attribuzione e l’allocazione delle funzioni tra i diversi enti territoriali. Infatti il principio di sussidiarietà, (riconosciuto dal Trattato dell’Unione Europea di Maastricht ), come già precedentemente detto, é un fondamentale principio di libertà e di democrazia, cardine della nostra concezione dello Stato e fondamento nei rapporti tra Stato e società.
La Corte non ha potuto sottrarsi dall’utilizzare tale strumento, inteso quale “il principio sociale e giuridico amministrativo che stabilisce che l’intervento degli Enti pubblici territoriali (Regioni, Aree Metropolitane, Province e Comuni), sia nei confronti dei cittadini sia degli enti e suddivisioni amministrative ad esso sottostanti (ovvero l’intervento di organismi sovranazionali nei confronti degli stati membri), debba essere attuato esclusivamente come sussidio nel caso in cui il cittadino o l’entità sottostante sia impossibilitata ad agire per conto proprio” .
Seppur tale principio sia di chiara comprensione, la sua applicazione nelle diverse decisioni della Corte sembra assumere fattezze differenti di volta in volta. Può assumere fattezze simili al criterio della “dimensione dell’interesse” come un tempo “l’interesse nazionale” prima della sua scomparsa “caratterizzava il senso delle relazioni tra Stato e Regioni durante la vigenza del testo costituzionale del 1947” . Però questo criterio (sent. n. 219 del 2005) nasconde la supremazia dell’indirizzo politico statale rispetto a quello regionale non accordandosi quindi con la equiordinazione tra gli “enti che compongono la Repubblica che la Corte e la dottrina hanno ritenuto di dover desumere dal nuovo articolo 114 della costituzione” . Vi sono poi molte decisioni in cui la Corte prova ad utilizzare la sussidiarietà come un parametro autonomo facendo leva soprattutto sul principio dell’adeguatezza, ricavandone un giudizio di adeguatezza-inadeguatezza. In altre occasioni il criterio utilizzato è invece del tipo dimensionale, ovvero “si fa riferimento all’ambito territoriale coinvolto dalla valutazione che è chiamato a svolgere il titolare della funzione avocata” (sent. n. 6 del 2004 e sent. n. 242 del 2005). In altre sentenze ancora, le valutazioni fatte non riempiono il principio di sussidiarietà di un contenuto sostantivo in grado di guidare le valutazioni del giudice costituzionale ma si affida invece la sua operatività al combinato dispiegarsi delle pratiche del giudizio di ragionevolezza e della leale collaborazione tra i livelli di governo (sent, n. 303 del 2003). Sulla scia di una dottrina, si tende dunque a sciogliere la sussidiarietà nella collaborazione ai processi decisionali” .
Questi esempi servono solo a dimostrare “l’assenza di un univoco approccio alla questione nell’ambito della giurisprudenza costituzionale”. È evidente che non si è in grado di estrapolare un univoco punto di vista della Corte anche riguardo ad uno specifico tema come il principio di sussidiarietà e neanche il suo parere circa “il senso complessivo delle relazioni tra i livelli di governo”.
La sentenza n. 303 del 2003, ha, comunque, celebrato il ruolo cardine del principio di sussidiarietà sancendo che tale principio apporta la dinamicità necessaria in un sistema dove convivono diverse attribuzioni e funzioni in uno schema statico. Infatti in seguito alla riforma, da un lato, secondo il dettato costituzionale (“Le funzioni amministrative sono attribuite ai Comuni”), e si potrebbe essere indotti a definirla ancora una attribuzione statica di competenze ma, dall’altro lato, grazie al principio di sussidiarietà, il sistema si arricchisce di una “vocazione dinamica”: infatti la formula “(…) salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.” permette il perseguimento di esigenze unitarie.
La Corte in tale sentenza ha respinto ogni ricorso da parte delle Regioni contro alcune disposizioni della legge numero 443/2001 (“Delega al governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici”) e dei relativi decreti delegati (d.lgs. n. n.190 e n. 198 del 2002). Le Regioni ritenevano lesa la propria autonomia legislativa e amministrativa nella materia di “lavori pubblici” mentre la Corte ha precisato che tale criterio dinamico permette di riallocare a livelli di governo più elevati le funzioni amministrative e anche la distribuzione delle competenze legislative per svolgerne un esercizio unitario e ciò viene garantito proprio perché il principio di legalità obbliga che anche tali funzioni riallocate siano disciplinate dalla legge e quindi sarebbe impossibile avere diverse discipline regionali per regolamentare le funzioni amministrative avocate a livello nazionale.
Dal nuovo testo del titolo V si ricava un’immagine speculare del sistema amministrativo rispetto al passato: infatti il nuovo art. 118 “prefigura una ricomposizione/ricostruzione del sistema esistente e una redistribuzione delle funzioni che parte dalle istituzioni base” , ovvero partendo dai Comuni per poi risalire fino allo Stato. Questo nuovo “modo di essere dell’amministrazione nel suo rapporto con la realtà sociale ed economica” sviscera la necessità di vicinanza con il territorio per poter rispondere alle esigenze locali in maniera efficiente, efficace e tempestiva e per superare lo scollamento avvenuto nel passato tra il vertice della piramide amministrativa, ovvero lo Stato, e la base composta dalla collettività. Proprio per queste esigenze, l’attuale riparto delle competenze amministrative e legislative non è più ordinato secondo uno schema basato sul parallelismo tra l’art.117 e il 118, bensì è definito per funzioni. Detto altrimenti, mentre in passato si “andava dall’istituzione alla funzione”, il nuovo art.118 “muove in senso opposto” ovvero dalla funzione all’istituzione.
Eppure, sovente questo criterio non semplifica l’interpretazione del dettato costituzionale in quanto è comunque difficile stabilire a quale livello di interesse attribuire tale funzione, potendosi ben riscontrare una “compresenza di tutti i livelli di interesse”: infatti il nuovo articolo si limita “ad enunciare dei principi sul riparto e dei principi suscettibili di attuazione diversificata per ambiti funzionali e territoriali” pur stravolgendone di fatto l’assetto dell’organizzazione amministrativa e ridisegnando un “sistema flessibile e mobile” . Ciò malgrado, l’attuazione della prospettiva costituzionale da parte del legislatore regionale e statale non è stata attuata secondo la concezione federalista che (pure) ispirava la riforma stessa, bensì “secondo la precedente prospettiva del decentramento dello Stato alle Regioni e dalle Regioni agli altri enti autonomi territoriali”. La Corte è sembrata contraria a questo tipo di atteggiamento soprattutto per quel che riguarda la riviviscenza dell’interesse nazionale come “titolo di legittimazione della competenza statale” e, con ciò, anche al “dilatarsi delle funzioni amministrative statali nelle materie concorrenti e in quelle residuali regionali”. La Consulta ha invece decretato il principio di sussidiarietà alla stregua di criterio mobile e dinamico per l’attribuzione di competenze amministrative e legislative: secondo questo indirizzo interpretativo, infatti, lo Stato può avocare a sé materie di competenza regionale a carattere sia concorrente (sentenza numero 303 del 2003) sia residuale (sentenza numero 6 del 2004). Qui si evidenzia in particolar modo il criterio finalistico per il perseguimento di un determinato obiettivo che, proprio grazie al principio di sussidiarietà, permette tale avocazione per migliorare i risultati ottenibili qualora il livello superiore può perseguirli in maniera più efficace del livello inferiore.
Con la sentenza n. 303 del 2003 la Corte ha inoltre innalzato a criterio di flessibilità la sussidiarietà, con ciò ha allargando il dettato dell’art.117, in quanto tale principio stabilisce non solo il riparto delle funzioni amministrative ma anche quelle legislative (criterio c.d. della sussidiarietà legislativa): anche se tale ricostruzione – a prima vista azzardata – è temperata dalla precisazione che per modificare anche le attribuzioni dell’art.117 bisogna prima esaurire una “fase di scrutinio di ragionevolezza e di stretta compatibilità con i principi di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione sotto il profilo sostanziale” ed inoltre “tali attribuzioni devono riflettere un sentimento ed un’azione collaborativa tra i diversi livelli di governo competenti ovvero la cosiddetta “chiamata in sussidiarietà” in senso accentratore può avvenire ma solo se concordata”.
Tale sentenza dà quindi delucidazioni in merito al “funzionamento del principio di sussidiarietà ascendente” nell’ambito delle competenze legislative” che permette alla legge statale di attrarre allo Stato funzioni amministrative anche in materie di competenza non esclusivamente statale, come chiarito poi nella sentenza n. 242/2005. Quando lo Stato avoca a sé suddette competenze può, come già detto in precedenza, secondo il principio di legalità, occuparsi anche della competenza legislativa seppur in modo ragionevole e ben ponderato come già spiegato precedentemente. Questa traslazione verso l’alto delle competenze è però un’anomalia rispetto al normale riparto delle stesse e comporta conseguenze, ovvero “la salita di funzioni amministrative normalmente assegnate in basso in capo allo Stato” e la “possibilità di leggi statali di dettaglio anche in materie concorrenti o residuali” (sent. n. 6 del 2004) e, da ultimo, la possibilità di un intervento regolamentare dello Stato.
Tutto ciò comporta conseguenze importanti se addirittura i commentatori parlarono di “bagliori di potere costituente” in quanto con la sentenza n.242 del 2005 “si aprono alla competenza statale spazi che la lettera dei cataloghi dell’art. 117 non prevede, al di là di quanto sia possibile attraverso la disciplina delle leggi-cornice (o attraverso l’incidenza delle materie trasversali). Ciò che permette suddetta “chiamata in sussidiarietà” sono le esigenze di carattere unitario, che legittimano lo Stato ad occuparsi delle competenze a lui cosi avocate sempre però nei casi in cui sia indispensabile al perseguimento di tali fini (sentenza n. 31/2005) e, comunque, siano assicurate in questi casi “adeguate forme di coinvolgimento delle Regioni interessate sono ineliminabili” (sentenza n. 270/2005).
La Corte ribadisce ancora, nella medesima sent. numero 303 del 2003, che sono necessari “criteri di stretto scrutinio, condizionando l’operatività della disciplina ad un’intesa “forte”, in assenza della quale non è possibile concludere il procedimento di localizzazione” . Ciò ribadisce l’importanza dedicata alla partecipazione dei livelli di governo coinvolti attraverso strumenti di leale collaborazione o, comunque, adeguati meccanismi di cooperazione. La “chiamata in sussidiarietà” rimane comunque uno strumento di “prassi” che serve ad aiutare la rigidità dell’enumerazioni dell’art.117, ma andrebbe in qualche modo dotato di dignità costituzionale per completare il criterio procedurale del principio di sussidiarietà . In particolare è un termine usato in sede di commento alla 13 del 2004: il diritto vivente costituzionale nella già citata sentenza 303 del 2003, “ammette chiaramente che l’art.117 possa essere interpretato utilizzando l’art. 118 e non viceversa” e, quindi, di fatto, ammette che “lo Stato potrà riscrivere l’art.117 cost. e, quindi, disporre del criterio di chiusura del sistema delle fonti del diritto”.
È forse questo un aspetto negativo della perdita col nuovo titolo V del principio del parallelismo : adesso la funzione assegnata al principio di sussidiarietà è la stessa che un tempo aveva l’interesse nazionale, che fungeva da limite di merito proprio per modificare l’assetto delle attribuzioni in nome di istanze unitarie. Oggi, come argomentano i giudici della Corte costituzionale, in seguito alla riforma del Titolo V “non è previsto l’interesse nazionale né come limite di merito né come limite di legittimità”, ebbene con questa cancellazione pare che “il Parlamento abbia inteso, non già liberare le Regioni dal limite degli interessi nazionali, ma semplicemente scaricare per intero il peso della difesa di essi sulla Corte costituzionale” . Quindi il ruolo della Corte è sempre più scomodo in quanto chiamata troppo spesso a risolvere conflitti attributivi e a sancire con un metodo a casistica se si ci trovi di fronte ad un interesse nazionale o se vi sia l’esigenza di tutelare gli interessi non frazionabili. Il problema rilevante si pone quando, in assenza di un principio di riferimento univoco da parte della Corte, si avranno diverse risoluzioni caso per caso, la qual cosa potrebbe danneggiare materie (o, meglio, tematiche) sensibili per le quali i diversi metodi di giudizio e di risoluzione potrebbero provocare degli squilibri, tra valutazioni di una situazione ed un’altra, in grado di innescare effetti propulsivi a domino che colpirebbero indirettamente la qualità generale dell’oggetto delle risoluzioni stesse. È sicuramente il caso, ad esempio, della tutela dell’ambiente e della salute che, infatti, necessitano di una tutela uniforme e omogenea per far sì che il livello della tutela stessa possa essere efficace, basti pensare, ad esempio, al carattere transfrontaliero dell’inquinamento.
La Corte dovrebbe segnare un netto taglio con il passato e creare dei luoghi di contrattazione per una collaborazione tra Stato e Regione e tra Regioni e quest’ultima deve “esserci e deve essere leale, deve corrispondere ai criteri che la stessa Corte ha fissato in passato e che dovrebbe continuare a produrre in futuro”. Ovviamente è il legislatore che deve in primis individuare tali sedi di contrattazione e disciplinarle in modo tale di liberare la Corte dalla “infausta situazione in cui è stata spinta da anni di regionalismo dominato dalla supremazia dello Stato sulle Regioni e dalle sue conseguenze giuridiche”, in modo tale da non dover più rivestire “una veste giuridica per tutte le decisioni che dipendono da valutazioni squisitamente politiche.” Cosi che “la Corte potrebbe finalmente tornare a fare il custode delle regole del gioco, anziché essere costretta a riscriverle di continuo” .


2 La scomparsa del limite dell’interesse nazionale

L’interesse nazionale era (per definizione) la finalità statale per eccellenza allorquando gli interessi in gioco erano di rilievo sovraregionale e il perseguimento degli obiettivi comunitari, di parallela importanza rispetto a quelli interni, non poteva che essere elaborato, programmato e raggiunto da un’unica cabina di regia che, in questo caso, era lo Stato, il quale rispondeva della responsabilità politica e giuridica verso la Comunità europea. L’articolo 127 della Costituzione (nella formulazione originaria) specificava che l’interesse nazionale era un vincolo alla libertà legislativa regionale qualora una legge approvata dal Consiglio regionale avesse contrastato con gli interessi nazionali o con quelli di altre Regioni. La locuzione “interesse nazionale” ha rappresentato, da un lato, uno strumento in mano al Parlamento per bloccare le leggi regionali e, dall’altro, un’esigenza connaturata in uno Stato pre-federale per ricondurre all’esercizio unitario la tutela e la gestione di materie delicate, che non potevano essere gestite altrimenti per il bene generale.
L’art. 127 cost., nel testo modificato dalla novella del 2001, mostra un impianto completamente diverso: infatti, eliminato il sistema dei controlli dello Stato sulle Regioni, esso ristabilisce di fatto l’ordine dalla convivenza tra i due enti equiparandoli e conferendo a entrambi il ruolo di controllore e controllato, come descritto nei commi 1 e 2 dello stesso articolo. Ma il dato più significativo della riforma si evince in ordine all’ipotesi che la legge regionale “ecceda la competenza della regione”: invero è agevole osservare l’assenza di ogni riferimento alla dicitura degli “interessi nazionali”, come statuiva fino al 2001 il comma terzo dell’art.127. Questa grande assenza fa sì che sia la Corte Costituzionale, ancora una volta, a dover sindacare sulla reviviscenza di tale interesse per assurgere allo Stato competenze attratte dalle Regioni e dare un ordine e un equilibrio alla struttura della riforma, riconoscendo i poteri sostitutivi allo Stato quando Essa lo ritenga opportuno.
Sia per chi “militi dalla parte del federalismo, sia per chi militi dalla parte della sopravvivenza dell’unità e dell’indivisibilità della Repubblica, nel senso indicato dall’art. 5 della Costituzione” , l’importanza dell’interesse nazionale è innegabile anche se frutto di discordia per quanto riguarda la legislazione concorrente che costituisce il punto cruciale dei rapporti fra Stato e Regioni.
L’’articolo 117 incarna quindi il crocevia della organizzazione delle competenze tra i vari organi dello Stato 92, sia prima che dopo la riforma, ma non risolve i possibili conflitti attributivi e, soprattutto, l’implicito rimando al concetto di interesse nazionale (che pure nel nuovo testo costituzionale non è elencato esplicitamente) oggi viene tutelato dalla valutazione della Corte costituzionale quando il Governo ritenga necessario un giudizio di legittimità.
Detto altrimenti, la scomparsa del rimando costituzionale all’interesse nazionale nell’articolo 127 lascia un vuoto legislativo e, quindi, non si comprende bene quale sia la finalità dell’articolo 120, ovvero se in un certo qual modo esso lo enuclei implicitamente con i suoi poteri sostitutivi statali nei casi elencati, e ancora nell’art.118 con l’applicazione del principio di sussidiarietà verticale, oppure se il legislatore non voleva riferirsi all’interesse nazionale direttamente ma voleva lasciare una traccia da seguire al momento della scelta tra interessi diversi e il loro contemperamento da operare da parte dell’interprete. Infatti sia le materie di competenza esclusiva dello Stato sia gli istituti che permettono l’esercizio dei poteri sostitutivi, possono intendersi come una manifestazione dell’interesse generale. Eppure dopo la riforma l’interprete ha una minore ampiezza del campo di discrezionalità in quanto non viene più nominato “l’interesse generale” in astratto, ma non può essere di interesse nazionale ciò che non ha nulla a che vedere con la logica dell’elenco dell’art.117 a numero chiuso e, viceversa, ciò che è chiaramente enumerato come legato ad esigenze unitarie è quindi inequivocabilmente di interesse nazionale.
Nonostante questa illusoria semplificazione operata dalla riforma costituzionale, i dubbi attributivi e soprattutto la decisione di quando l’interesse nazionale sia preminente, rispetto all’autonomia legislativa e amministrativa configurato dal nuovo sistema di apparato statale, è ancora difficile e piena di soggettività. È l’interprete, infatti, che deve definire volta per volta a quale livello di governo assegnare le competenze quando esse richiedano un esercizio unitario.
L’instabilità e l’incertezza della discrezionalità dovuta all’attribuzione alla Consulta di un ruolo cruciale nel gestire il crocevia delle attribuzioni che evidentemente in materie sensibili come quelle citate nell’art.120 e, più in particolare, la “tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” e il “pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica. I giudizi della Corte possono dunque tendere a volte verso un’inclinazione autonomista, altre volte verso una gestione unitaria da parte dello Stato, conferendogli i poteri sostitutivi come previsto sempre dall’art.120.
In alcuni casi sussistono “materie-valore” (come, appunto, la tutela dell’ambiente) che hanno confini più vasti dei territori regionali – si pensi per esempio al già citato carattere transfrontaliero dell’inquinamento – per le quali non è quindi facile “tagliare con l’accetta” le competenze. Inoltre in questi casi decisioni della Consulta discordanti possono creare incertezze interpretative per il futuro e, soprattutto, danni alla qualità nazionale ed internazionale dello stato dell’ambiente e delle condizioni offerte dei diritti essenziali e imprescindibili sul territorio nazionale. Proprio questo implicito riferimento all’interesse nazionale – che definirei strutturale alla materia-valore ambientale – permette la riviviscenza dello stesso, anche se non espressamente elencato nella Costituzione. La grande differenza con il passato è però l’attribuzione di questa scelta discrezionale non più ad un organo politico, il Parlamento, bensì alla Corte che vede quindi gravare sulle sue spalle una gravissima responsabilità forse e non solo tecnico-giuridica.

2.1. La scomparsa dell’interesse nazionale nel nuovo testo del Titolo V

Nel testo costituzionale del 1948, l’interesse nazionale rivestiva una duplice dimensione: da un lato, era un “limite di legittimità all’interno delle materie, della competenza regionale”; dall’altro, costituiva un “limite di merito di portata generale” che si configurava come una sorta di “ostacolo da non superare e non come fine da perseguire”.
Nella sentenza n. 37 del 1966 a proposito della materia “agricoltura” (di competenza regionale, secondo il vecchio testo della costituzione all’art.117), la Corte Costituzionale stabilì che il “limite degli interessi nazionali valeva anche nel senso di offrire la base per il legittimo esercizio dello Stato nei settori in cui per effetto del limite stesso l’attività regionale non poteva esplicarsi”.
Con questa ed altre successive sentenze, la Consulta ha consolidato l’uso in positivo del limite dell’interesse nazionale. Esistono due tipi di interessi, quello nazionale e quello locale, i quali viaggiano in una strada a due corsie: il primo appartiene ad una categoria di interessi non frazionabili e quindi la cura di questi interessi unitari è affidata allo Stato; il secondo descrive degli interessi localizzati affidati alla cura agli enti “esponenziali di interessi di livello regionale”.
Questa visione a due strati degli interessi ha caratterizzato tutta la posteriore giurisprudenza costituzionale. Eppure l’interesse nazionale non è mai stato definito in modo univoco ma vengono presentati nella giurisprudenza diversi aspetti di questo, a volte come interesse infrazionabile, altre come espressione di esigenze di uniformità di disciplina collegate ad esempio con il principio di uguaglianza o anche a quello di unità della Repubblica come nell’articolo 5 della costituzione .95 Questo aspetto potrebbe rappresentare proprio il collante tra il Titolo V e la prima parte della Costituzione che definisce i principi, un legame che viene a mancare con la riforma del 2001 che ha espunto ogni riferimento sia all’“interesse generale” sia all’“interesse delle altre Regioni” (rispettivamente, artt. 117 e 118, testo originario).
Inoltre la citata riforma ha aumentato la concorrenza tra le Regioni in quanto definisce diversi gradi di autonomia (art. 116 cost. comma 3), che potrebbe portare ad una conseguente diminuzione della cooperazione e all’aumento dei conflitti di interesse tra Regioni più ingegnose ed intraprendenti e Regioni meno capaci e maggiormente arretrate.
Ne consegue che oggi la Corte costituzionale assume, oltre al compito di riordinare il disegno della riforma, anche il ruolo di acquietare la competizione e sviluppare la cooperazione tra lo Stato e Regioni e tra le Regioni stesse. Eppure “nel caso italiano” (secondo parte della dottrina) “l’evoluzione istituzionale è sfociata troppo spesso nell’appiattimento dell’interesse nazionale con l’interesse del livello di governo statale, in una prospettiva squisitamente gerarchica, anziché collaborativa”. Questo scontro duale tra le interpretazioni dell’ordinamento è ben evidente nelle norme costituzionali che si occupano della ripartizione delle competenze legislative tra Stato e Regioni: infatti esse incarnano tutta la tensione tra la rinnovata vocazione autonomista e policentrica dell’ordinamento e la persistente vigenza del principio unitario o, se si vuole, dell’interesse nazionale”. Come già discusso in precedenza, la ripartizione di competenze legislative disegnata dall’art.117 della Costituzione non può essere una divisione netta e immutabile in quanto vi è una “inevitabile cedevolezza di fronte alle esigenze di garanzia delle istanze unitarie dell’ordinamento”, essendo possibile la riattribuzione alla potestà esclusiva soprattutto nel campo delle “materie trasversali” (sentenza n. 407 del 2002) in quanto “funzioni ascrivibili al carattere unitario dell’ordinamento” e quindi “insuscettibili di frazionamento territoriale (tutela dell’ambiente, tutela dei beni culturali, concorrenza, livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, nonché, tra quelle di cui si propone l’introduzione con la delibera legislativa di
revisione: norme generali a tutela della salute, sicurezza e qualità alimentari, grandi reti strategiche di trasporto e navigazione di interesse nazionale, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, etc.)”.
Anche il nuovo principio di sussidiarietà può essere un implicito richiamo all’interesse nazionale con la sua “la forza espansiva”, descritta nella sentenza numero 303 del 2003 “nei termini di vero e proprio dovere di intervento dei livelli superiori di governo, laddove ricorrano determinate condizioni”. Al punto che per interpretare il ruolo di tale principio nell’ordinamento in sintonia con la prima parte della Costituzione, bisogna inquadrarlo “nello sfondo cooperativo che impronta anche strumenti di tutela degli interessi unitari nel nuovo ordinamento policentrico”, in modo tale che “ le ragioni dell’unità non risultino imposte dallo Stato, bensì definite con il concorso di tutte le componenti della Repubblica” .
L’applicazione di tali raccomandazioni nell’applicazione e interpretazione dei precetti costituzionali si basa sempre su quel diritto vivente costituzionale che, quindi, supplisce e spiega volta per volta lo schema del nuovo assetto distributivo delle competenze tra Stato e Regioni.
L’esigenza di “sentire”la Consulta nasce quindi dal caos attributivo generatosi con la riforma ed è sempre più stringente l’esigenza di “una riforma alla riforma” che metta nero su bianco, a distanza di ormai sette anni, i ragionamenti e gli accordi interpretativi trovati dalla giurisprudenza e dalla dottrina durante questo lungo periodo di assimilazione, in modo tale da sollevare la Corte da tale incarico.

2.2. La Corte e il suo ruolo di garante dell’interesse nazionale nell’ambito delle problematiche ambientali, prima e dopo la riforma

La Corte costituzionale non risulta configurata nel nostro ordinamento costituzionale come organo appartenente all’organo giudiziario ma, allo stesso tempo, non può essere definito come un organo politico, posto che “la Corte agisce secondo le regole e le forme della giurisdizione, effettua giudizi i cui parametri consistono in norme giuridiche e conclude sui giudizi con atti tipici del potere giurisdizionale” , ovvero le sentenze. La Corte costituzionale assume una posizione d’indipendenza rispetto agli altri organi statali, affinché sia ne rispettata la garanzia di imparzialità: questa fondamentale clausola, che permette ad essa di essere un organo di controllo esterno all’attività legislativa del Paese, si scontra con un’ipotetica ed inammissibile connotazione in senso rappresentativo. È evidente invero che un organo, se deve poter agire in modo imparziale al momento del giudizio, non può essere rappresentativo di categorie, enti o soggetti diversi, altrimenti ne sarebbe inevitabilmente in qualche modo influenzato.
La nostra Corte è formata da giudici di estrazione diversa, ma non per rappresentare delle categorie bensì per far sì che vi sia un apporto equilibrato di diverse esperienze professionali e culturali. La Corte costituzionale ha una posizione di indipendenza e terzietà che le permette di poter giudicare obiettivamente e risolvere in modo imparziale anche i contrasti tra Stato e regione. Questa autonomia (garantita dalla Costituzione) sarebbe messa in discussione qualora entrassero a farne parte i giudici di estrazione regionale, come ad esempio nel caso della proposta della riforma federale del 2003, in quanto “non si comprende in che senso il loro approccio culturale si differenzierebbe rispetto a quello delle altre componenti, a meno di non sostenere che, data la loro estrazione, dovrebbero essere per principio portati a privilegiare le istanze delle Regioni, o in genere delle autonomie” . In questo modo ci sarebbero delle influenze inevitabili che comprometterebbero il carattere di imparzialità della Corte stessa.
Secondo l’articolo 134 cost., la Corte costituzionale “giudica: sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni; sui conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato e su quelli tra lo Stato e le Regioni, e tra le Regioni;sulle accuse promosse contro il Presidente della Repubblica, a norma della Costituzione”. Si può quindi affermare che essa svolge una funzione di garante della legittimità e della legalità costituzionale e una funzione di arbitro per quello che riguarda i conflitti.
Essa emette un giudizio sulle leggi; sono previsti due tipi di accesso al giudizio: il primo è il procedimento in via incidentale o di eccezione, dove la questione di legittimità può essere sollevata nel corso di una giudizio e davanti ad una autorità giurisdizionale; il secondo è invece il c.d. procedimento in via di azione o principale nel quale la questione di legittimità deve essere presentata direttamente con un ricorso di incostituzionalità avverso le leggi regionali da parte dello Stato o di un’altra Regione e, viceversa, di una legge statale da parte delle Regioni. La facoltà di ricorrere al giudizio principale è riservata unicamente allo Stato, alle Regioni e alle Province autonome di Trento e Bolzano; la giurisprudenza ha poi in fine aggiunto l’ipotesi del conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato determinato da una legge o atto avente forza di legge mentre è stata scartata dal Costituente la proposta di consentire ai cittadini di ricorrere direttamente alla Corte.
Dai dati contenuti nell’annuale Relazione della Corte costituzionale (2005) si può notare un trend di crescita dello sviluppo del contenzioso tra lo Stato e le Regioni 106 nei giudizi rimessi alla Corte, ad ulteriore riprova della situazione di confusione per quel che concerne l’attribuzione delle competenze tra gli apparati dello Stato, frutto dell’incuranza e della fretta della riforma del 2001. A testimonianza delle lacune lasciate irrisolte dal legislatore al momento della riforma, si nota dalla disamina della Relazione “la preponderanza numerica del giudizio in via incidentale, le cui decisioni coprono il 64,13% del totale” mentre “il giudizio in via principale occupa il 21,75%, e i giudizi per conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni e tra Regioni, rispettivamente, a quota 4,26% e 9,19%”. Ma il dato eclatante è la diminuzione di quelli in via incidentale e l’aumento dei giudizi in via principale .
Tale analisi consente di accertare tramite l’evidenza empirica ciò che la dottrina asserisce, ovvero l’incompletezza della riforma e l’aumento del ricorso alla Corte nella risoluzione delle controversie tra Stato e Regioni, affidandole un ruolo di primissimo piano nella conformazione del diritto che regola le relazioni tra gli enti territoriali che compongono la Repubblica.
Oggi più che mai la Corte ha svolto questo ruolo, definendo la formazione di un nuovo diritto delle autonomie per così dire “vivente”, a volte poco guidato dal testo delle disposizioni costituzionali, e con un margine di prevedibilità delle decisione del giudice costituzionale sempre più scarso: “troppe volte si avverte la sensazione che quest’ultimo risolva le questioni sottoposte ai propri giudizi in modo che ci si senta indotti a definirlo arbitrario; cercando, cioè, un equo contemperamento delle reciproche pretese in gioco nei casi concreti, e non, invece, affidandosi alla forza deontica delle norme costituzionali o, quantomeno, di un parametro costituzionale dotato di un sufficiente grado di certezza e stabilità nel tempo” . Ciò è confermato dal fatto che non sempre si è in grado di tracciare delle linee coerenti tra le diverse pronunce e tra le norme su cui la Corte esprime il suo giudizio e le disposizioni costituzionali delineando i profili di un diritto costituzionale “vivente”. Ad esempio il principio di sussidiarietà inteso “come parametro di costituzionalità delle scelte di allocazione delle funzioni” e come tale parametro debba funzionare non è un problema di facile risoluzione.
Quindi, in conclusione, viene da domandarsi: “è sparito l’interesse nazionale”?
Visto che non è più elencato nella Costituzione, è sempre la Corte costituzionale che ha compiuto una ricostruzione del nuovo assetto introdotto dalle modifiche del titolo V, capace di svelare le risorse di razionalità insite in esso, sulla scorta dei principi enunciati nelle disposizioni della legge costituzionale n. 3/2001, grazie alla sua attenta analisi delle leggi dello Stato e la loro approvazione, anche ricadenti su aspetti inclusi in materie regionali, o anche a proposito di leggi regionali impugnate dal Governo sull’assunto di una loro pretesa invasività della sfera di competenza dello Stato. Le posizioni della Corte hanno mostrato la “capacità di flettersi nel segno delle esigenze da soddisfare” del “rigido assetto corrispondente alla separazione delle competenze per materia”. Né è un esempio “l’attrazione in sussidiarietà allo Stato di funzioni delle Regioni”: secondo il diritto vivente della Corte, “il titolo di legittimazione che abilita lo Stato ad attrarre alla sua competenza funzioni amministrative delle Regioni sono le istanze unitarie”, le quali “pure in assetti costituzionali fortemente pervasi da pluralismo istituzionale giustificano, a determinate condizioni, una deroga alla normale ripartizione delle competenze [basti pensare al riguardo alla legislazione concorrente dell’ordinamento costituzionale tedesco (Konkurrierende Gesetzgebung) o alla clausola di supremazia (Supremacy Clause) nel sistema federale statunitense]” (così, testualmente, la sentenza 303 del 2003). Così si spiegano di fatto quelle “istanze unitarie che possono dunque giustificare una deroga al normale riparto delle competenze” e che solo lo Stato, con la propria legislazione, può svolgere questo “compito unificante”.
Altro tipo di “deroga all’ordine delle competenze Stato-Regioni, a tutela di esigenze unitarie (rispetto di norme e trattati internazionali, tutela dell’unità giuridica o unità economica, e in particolare tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali)” è riconosciuto con l’esercizio dei poteri sostitutivi ex art. 120, comma 2, “pur se il presupposto dell’esercizio del potere in discorso è quello della mancata adozione di atti obbligatori; e pur se la sostituzione si concreta in una alterazione puntuale e temporanea dell’ordine delle competenze, diretta a salvaguardare interessi unitari che sarebbero compromessi dall’inerzia o dall’inadempimento: alterazione che peraltro si trattiene sul piano dell’esercizio delle competenze” (sentenza n. 43/2004).
Quindi in questi due esempi che incarnano un po’ le linee risolutive dinamiche per interpretare l’ordinamento con la chiamata in sussidiarietà, è possibile rinvenire gli strumenti che la Corte ha in un certo senso indicato per superare la situazione di stallo creata dalla ripartizione, troppo statica, operata dalla riforma del 2001: e sarà la stessa Corte che dovrà indicare la strada interpretativa e la possibile applicazione dello stesso art. 116 al comma 3 dove indica un ulteriore via di fuga possibile da tale assegnazione delle competenze.


3 Le politiche pubbliche di tutela dell’ambiente e i problemi di attribuzione della materia tra Stato e Regioni

3.1. I problemi di attribuzione della “tutela dell’ambiente”

Con la revisione del Titolo V della Costituzione, realizzata dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, l’ambiente ha trovato, per la prima volta, un riconoscimento esplicito nel testo costituzionale. Si è sancita in questo modo la “canonizzazione formale” 116 del fondamento costituzionale dell’ambiente, lungo il percorso delineato negli anni dalla dottrina, dalla legislazione ordinaria e dalla giurisprudenza costituzionale, al pari con altri modelli costituzionali nei quali è previsto uno specifico status costituzionale dell’ambiente, ovvero una definizione costituzionale della dimensione giuridica dell’ambiente stesso.
Tuttavia, la costituzionalizzazione della tutela dell’ambiente nell’ambito della modifica dell’art. 117 cost., ha comportato “un radicale mutamento di prospettiva rispetto al modello dei rapporti tra Stato e Regioni fino ad oggi vigente in tema di tutela dell’ambiente” . La tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, infatti, è affidata, nella nuova formulazione dell’art. 117, comma 2, lett. s), cost., alla legislazione esclusiva dello Stato.
La riforma costituzionale è apparsa però “il frutto di un irragionevole nuovo intento centralista” . Prima della modificazione del Titolo V, infatti, vi era la giusta convinzione che l’ambiente, inteso come valore costituzionale (e, quindi, come interesse trasversale ed orizzontale), risultasse collegato funzionalmente sia alle materie di competenza statale che a quelle di competenza regionale . Lo Stato fissava le norme di principio e le regole tecniche della materia e disponeva dell’esercizio di poteri sostitutivi, qualora le competenze regionali non venissero esercitate; le autonomie territoriali, invece, in virtù del principio di sussidiarietà, ancor prima del suo riconoscimento legislativo, operato dalla l. n. 59/1997 e dai decreti legislativi attuativi della l. n. 59/1997, in particolare dal d.lgs. 112/1998, dovevano essere necessariamente coinvolte, per l’assegnazione della competenza al livello di governo in grado di minimizzare le spese per garantire l’esercizio della funzione, sia per l’incidenza in ambito locale degli effetti delle principali politiche pubbliche . Nella giurisprudenza della Consulta vigeva, inoltre, il principio della “tutela più rigorosa del livello territoriale inferiore” (sent. n. 382/1999 e n. 407/2002), secondo cui la disciplina statale in materia di protezione ambientale costituisce, in linea generale, fatte salve espresse previsioni normative contrarie, un nucleo di garanzie minimali che le Regioni non possono derogare in peius, ma pur sempre variare in melius con misure di tutela più restrittive. Tale principio era inteso non in termini assoluti,
ma necessariamente sottoposto ad un limite di compatibilità con l’altro principio dell’azione unitaria a livello superiore, rinvenibile anche in ambito comunitario ove si riconosce agli Stati membri la potestà di mantenere o di introdurre misure più restrittive di quanto dispone la normativa europea onde assicurare una protezione ambientale ancora maggiore con misure non incompatibili con il Trattato di Maastricht (art. 176 del Trattato medesimo) .
Alla luce della riforma costituzionale e degli interventi chiarificatori della Corte costituzionale – la quale ha definito l’ambiente una materia-valore, un obiettivo orizzontale e trasversale che taglia tutte le competenze legislative, regolamentari ed amministrative, che possono essere riconosciute ai vari livelli di governo (v. retro, Parte I) –, Regioni ed Enti locali vedono ridotto il ruolo svolto finora in campo ambientale, specie se si collega la previsione dell’art. 117, comma 2, lett. s), a quella della precedente lettera m), che riconosce sempre alla legislazione esclusiva dello Stato la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. Al tempo stesso, però, Regioni ed enti locali continuano a esercitare le funzioni svolte finora, specie se si connette la tutela dell’ambiente-valore a tutte le materie di legislazione concorrente strettamente influenzate dalla tutela dell’ambiente, quali la tutela della salute, il governo del territorio, la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia, o competenza legislativa esclusiva, o alle materie di competenza residuale, quali l’agricoltura e le foreste, l’industria e l’artigianato, la produzione, il trasporto e la distribuzione regionale e locale dell’energia. Questo significa che le Regioni nell’esercizio delle loro funzioni legislative, potranno “adottare norme che tutelino le esigenze e gli interessi ambientali, all’interno delle materie affidate alla loro potestà legislativa concorrente o esclusiva” .
L’ambiente è però una materia che il novellato art. 117 cost. attribuisce alla competenza esclusiva dello Stato, con la conseguente centralizzazione delle misure da adottare in campo ambientale, con il solo effetto mitigatore del richiamo possibile alla norma del nuovo art. 116, comma 3, Cost., il quale apre a forme di regionalismo differenziato per alcune specifiche materie, tra cui appunto la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema.
Passando al versante della potestà regolamentare, nelle materie di competenza legislativa esclusiva, la potestà regolamentare è dello Stato, salva la possibilità di delegare tale potestà regolamentare alle Regioni (art. 117, comma 6), mentre l’art. 118, comma 1, attribuisce ai Comuni la generalità delle funzioni amministrative, salvo che, per assicurarne l’esercizio unitario, siano conferite a Province, Città metropolitane, Regioni e Stato, sulla base dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. A loro volta, i Comuni, le Province e le Città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite (cfr. ancora art. 117, comma 6, Cost.) e, quindi, anche in quelle funzioni che si connettono
alla materia ambientale.
In questo caos normativo, un intervento chiarificatore è risultato più che necessario. Le risposte ai mille quesiti sono state offerte dalla Corte Costituzionale.

3.2. Alcuni interventi della Corte Costituzionale

La Corte Costituzionale ha prodotto diverse sentenze che si sono occupate del riparto legislativo tra Stato e Regioni. Sulla scia della giurisprudenza precedente la riforma costituzionale 125 , infatti, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 407 del 10 luglio 2002 126, esaminando la normativa lombarda sulle attività a rischio di incidenti rilevanti, ha stabilito, innanzitutto, che la “tutela dell’ambiente” “non sembra configurabile come sfera di competenza statale rigorosamente circoscritta e delimitata”, ma al contrario “investe e si intreccia inestricabilmente con altri interessi e competenze”. Pertanto, l’ambiente deve considerarsi “una sorta di materia trasversale in ordine alla quale si manifestano competenze diverse che ben possono essere regionali, spettando allo stato le determinazioni che rispondono ad esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio
nazionale” senza che ne resti “esclusa la competenza regionale alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali”.
E poi aggiunge: “i lavori preparatori relativi alla lettera s) del nuovo art. 117 della Costituzione inducono, d’altra parte, a considerare che l’intento del legislatore sia stato quello di riservare comunque allo Stato il potere di fissare standard di tutela uniformi.” In questo modo, la materia “tutela dell’ambiente” oltre a formare oggetto di competenza esclusiva dello Stato, è connessa ed intrecciata in modo inestricabile con interessi e competenze delle regioni. Secondo l’indirizzo della Corte, allora, da un lato, proprio in ragione di tale naturale incidenza su competenze regionali, le disposizioni statali in materia devono limitarsi a fissare standard minimi di tutela uniformi o norme, comunque, dotate di generalità. Dall’altro, le leggi regionali sono legittimate a curare, in armonia con le prescrizioni statali, quegli stessi interessi afferenti alla “materia” in questione.
Nonostante alla Corte sia affidato un ruolo chiarificatore, tale organo ha sovente incentivato la confusione, con decisioni spesso altalenanti.
Nella sentenza n. 303 del 25 settembre 2003, la Corte costituzionale ha giudicato della legittimità di alcune norme della c.d. legge obiettivo (legge 21 dicembre 2001, n. 443) e dei decreti delegati che ad essa sono seguiti (20 agosto 2002, n. 190 e 4 settembre 2002, n. 198). In questa pronuncia, la Corte ha fondato sui descritti principi regolatori della funzione amministrativa dell’articolo 118 una importante possibilità di deroga al sistema di ripartizione delle competenze legislative, regolato dall’art. 117 Cost. . Infatti, per rigettare la censura di legittimità dell’art. 1, c. 1, della l. n. 443/ 2001, la Corte ha argomentato e sostenuto che quando per garantire “istanze di unificazione presenti nei più svariati contesti di vita le quali, sul piano dei principi giuridici, trovano sostegno nella proclamazione di unità e indivisibilità della Repubblica”, le funzioni amministrative devono essere attribuite allo Stato, naturale titolare delle attività “unificate”, lo Stato medesimo acquisisce per tali funzioni, pur se riguardanti materie di competenza concorrente, anche la relativa competenza legislativa. Tuttavia, aggiunge la Corte, la deroga, che in questo modo si introduce al regime delle competenze, deve essere conforme ai principi di proporzionalità e di adeguatezza ed essere disposta con procedure che garantiscano il rispetto della leale collaborazione tra lo Stato e le regioni .
La Corte ha specificato questo suo orientamento in successive pronunce. In particolare, nella sentenza n. 6 del 2004, nel giudizio sulla legittimità costituzionale del decreto legge 7 febbraio 2002, n.7 (convertito con legge 9 aprile 2002, n. 55) recante norme sulla sicurezza del sistema elettrico nazionale, la Corte ha delineato quattro condizioni che la legge statale deve rispettare per disciplinare, legittimamente, funzioni amministrative nelle materie di competenza concorrente o di attribuzione residuale delle regioni: è necessario che la legge, anzitutto, “rispetti i principi di sussidarietà, differenziazione ed adeguatezza nella allocazione delle funzioni amministrative, rispondendo ad esigenze di esercizio unitario di tali funzioni”; è necessario, poi, “che tale legge detti una disciplina logicamente pertinente, dunque idonea alla regolazione delle suddette funzioni”; ancora, la disciplina stessa deve risultare “limitata a quanto strettamente indispensabile a tale fine”; infine, “la legge deve risultare adottata a seguito di procedure che assicurino la partecipazione dei livelli di governo coinvolti attraverso strumenti di leale collaborazione o, comunque, deve prevedere adeguati meccanismi di cooperazione per l’esercizio concreto delle funzioni amministrative allocate in capo agli organi centrali”. In riferimento all’ultimo profilo, la Corte ha anche precisato, riprendendo la stessa argomentazione anche nelle successive sentenze n.196/2004 e 181/2006, citando testualmente un passaggio della sentenza del 2003: “nella perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni parlamentari e, più in generale, dei procedimenti legislativi – anche solo nei limiti di quanto previsto dall’art.11 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 – la legislazione statale di questo tipo può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà”. Con queste affermazioni la Corte ha identificato un nuovo principio di parallelismo, di contenuto inverso a quello proprio del precedente regime costituzionale: infatti, all’attribuzione al centro di funzioni amministrative segue anche quella della relativa disciplina legislativa. Non è l’amministrazione che segue la legge, come nel precedente regime costituzionale, ma è la legge che segue l’amministrazione. Inoltre, la Corte ha stabilito che il legittimo esercizio della funzione legislativa è condizionato, oltre che dal rispetto di una serie di principi (differenziazione, adeguatezza, proporzionalità), anche dalla conformazione che questa faccia della funzione amministrativa in concreto regolata secondo principi di leale cooperazione. In questo modo, la Corte ha mitigato il possibile intervento regionale in materia ambientale sancito dalla sentenza n. 407/2002, dato che con la sentenza 6/2004 ha legittimato l’espansione delle competenze legislative e, anche, di quelle amministrative dello Stato stesso.
Muta, così, anche l’interpretazione dell’art. 118 Cost. e del regime delle funzioni amministrative, dato che la Corte non esclude la possibilità di un assetto delle competenze amministrative fondato sul principio della separazione, ovvero della concentrazione in capo ad un solo soggetto della intera responsabilità di una determinata serie di attribuzioni, e ricorre al principio di leale cooperazione quale principio guida dell’allocazione delle funzioni amministrative, almeno per tutti i casi nei quali esse sono imputate all’amministrazione dello Stato, con la conseguenza di favorire un assetto condiviso tra più soggetti delle funzioni medesime 129.
Nella sentenza numero 259 del 2004 la Corte costituzionale esprime un giudizio di legittimità costituzionale promosso dal Presidente del Consiglio dei Ministri in merito alla legge della regione Toscana 4 aprile 2003, n. 19 recante disposizioni in materia di tutela della fascia costiera e di inquinamento delle acque, in modifica alla legge 1 dicembre 1998, n. 88. La suddetta legge regionale attribuisce agli enti locali e definisce le funzioni amministrative e i compiti nella materia urbanistica e pianificazione territoriale, protezione della natura e dell’ambiente, tutela dell’ambiente dagli inquinamenti e gestione dei rifiuti, risorse idriche e difesa del suolo, energia e risorse geotermiche, opere pubbliche, viabilità e trasporti , tutte materie conferite alla Regione dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112.
Si tratta innanzi tutto di un giudizio in via principale mosso dal Presidente del Consiglio in quanto convinto che la modifica dell’art. 20 potesse aggredire e invadere il campo di attribuzione della materia a competenza esclusiva dello Stato “tutela e gestione del territorio” e, quindi, di fatto attribuendo alle Province la competenza in materia di autorizzazioni riguardanti l’immersione in mare di alcuni materiali che non rientrerebbero tra quelle riconosciute alla competenza regionale, ovvero opere di ripascimento, ma delegando al potere autorizzatorio delle Regioni anche campi di competenza statale: in tal modo, verrebbero invasa la competenza esclusiva dello Stato nella materia della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema con precipuo riferimento alla necessità obiettiva di individuare standard uniformi di tutela sul territorio nazionale.
In questa sentenza lo Stato rivendica la propria competenza che ritiene essere usurpata, pur sapendo che il cammino del federalismo amministrativo avviatosi con la legge 59 del 1997 e conclusosi con l’attuazione fatta dal decreto legislativo 112 del 1998, che dice espressamente “in nessun caso le norme del presente decreto legislativo possono essere interpretate nel senso dell’attribuzione allo Stato, alle sue amministrazioni o ad enti pubblici nazionali, di funzioni e compiti trasferiti, delegati o comunque attribuiti alle Regioni, agli enti locali e alle autonomie funzionali dalle disposizioni vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo” (art. 1, comma 4, d. lgs. n. 112/98). Quindi nonostante il timore della perdita di terreno nell’ambito della sfera di competenza statale della materia ambientale elencato nella lettera s), il federalismo amministrativo potrebbe in questo caso effettivamente vincere la battaglia nell’attribuzione delle competenze amministrative. In questa occasione la Corte ha usato il principio di sussidiarietà come metodo per risolvere il conflitto attributivo, ovvero utilizzando proprio la definizione del principio stesso, essa ha ritenuto che si dovesse ricorrere ad un organo gerarchicamente superiore solo come subsidium nel caso in cui l’entità sottostante sia impossibilitata ad agire per conto proprio. Nello specifico caso della sentenza, “poiché la competenza a rilasciare le autorizzazioni per lo svolgimento delle attività previste dalla legge impugnata spetta alla Regione, la delega da quest’ultima alle Province del relativo potere autorizzatorio non è illegittima in quanto non risulta lesiva di alcun principio costituzionale ed, anzi, è coerente con il principio di sussidiarietà”.
La Corte ha quindi ritenuto in questo caso che non vi fossero i presupposti per assurgere alla competenza statale la materia in questione in quanto non ha ritenuto che l’interesse generale prevalesse su quello locale dato che quest’ultimo deteneva una potestà amministrativa legittima e conforme al principio di sussidiarietà quindi l’attribuzione alle Province operata dalla legge regionale della competenza a rilasciare le autorizzazioni per l’immersione in mare di materiali vari, non è incostituzionale.
Nella sentenza numero 214 del 2005 invece si dibatte a proposito della legittimità di una legge regionale che disciplina, al fine di limitare incidenti rilevanti, i “piani di emergenza esterni” negli stabilimenti in cui si impiegano sostanze pericolose, attribuendo la relativa competenza alle Province.
In detta pronuncia troviamo innanzi tutto ribaditi i concetti di materie trasversali e materie-valori, asserendosi che la tutela dell’ambiente si configura come una competenza statale spesso legata e intrecciata inestricabilmente con altri interessi e competenze regionali concorrenti. Nell’ambito di queste competenze concorrenti, risultano legittimi gli interventi posti in essere dalla Regione stessa, nel rispetto dei principi fondamentali, e l’adozione di una disciplina maggiormente rigorosa rispetto ai limiti fissati dal legislatore statale, come già visto nella sentenza numero 222 del 2003. Inoltre la Corte già in più occasioni ricorda di aver avuto modo di precisare che la “tutela dell’ambiente” si configura come un valore costituzionalmente protetto e può toccare anche altre materie anche di competenza concorrente regionale come la “protezione civile”. La disciplina dei piani di emergenza esterni che riserva allo Stato il compito di fissare standard di tutela uniformi sull’intero territorio nazionale (come sancito in precedenza dalle sentenze n. 307 del 2003 e la n. 407/2002), rende compatibile la competenza esclusiva dello Stato con interventi specifici del legislatore regionale.
Per quanto riguarda il problema dei pericoli di incidenti rilevanti, connessi con determinate sostanze pericolose, l’oggetto del contendere riguarda ancora una volta l’attribuzione delle competenze amministrative per la predisposizione di piani di emergenza esterni, che la legge regionale impugnata ha assegnato alla Provincia, mentre la legge statale le attribuisce al Prefetto.
La legge statale vigente in materia (d. lgs. n. 334 del 1999) può essere considerata, oggi come una “vecchia” legge-quadro di cui la legge regionale costituisce l’attuazione. Essendo la stessa normativa statale che autorizza la Regione ad intervenire sulle competenze amministrative, secondo la Corte, la norma impugnata non interferisce illegittimamente con la potestà legislativa statale laddove questa prevede la competenza del prefetto. L’attribuzione alla Provincia, da parte della Regione, di una competenza amministrativa, non solo non viola la potestà legislativa dello Stato, ma costituisce applicazione di quanto viene consentito alla Regione dalla stessa legge statale, anche se in attesa dell’accordo di programma previsto dalla norma statale; sotto tale profilo, la Corte ricorda inoltre che la normativa impugnata non è neanche operante in quanto le funzioni provinciali relative alla valutazione del rapporto di sicurezza saranno esercitate solo dopo che sarà raggiunto l’accordo di programma tra Stato e Regione per la verifica dei presupposti per lo svolgimento delle funzioni, nonché per le procedure di dichiarazione.
Molto simile è il parere reso dalla Corte nella sentenza n. 32 del 2006: infatti è la stessa Consulta a rifarsi direttamente alla sentenza 259 del 2005, in quanto già esauriente. Infatti – come nel caso precedente – l’attribuzione alla Provincia di competenze amministrative da parte della Regione, altrimenti spettanti a quest’ultima, non viola la potestà legislativa dello Stato, anzi rappresenta ancora applicazione di quanto alla Regione consente la stessa legge statale, anche se ancora in attesa del previsto accordo di programma. Si ribadisce ancora che la tutela dell’ambiente, anche se di competenza statale, è quasi sempre intrecciata con altri interessi e competenze regionali a carattere concorrente: nel caso di specie, ancora una volta, viene in rilievo la competenza regionale concorrente della “protezione civile”. Quindi, entro gli standard di tutela uniformi, sono possibili interventi del legislatore regionale che non violano per altro i principi di sussidiarietà e di adeguatezza. Quindi, anche in quest’occasione – la Corte si attesta su una posizione localista in quanto e, nell’ambito degli standard nazionali, si fa garante della piena autonomia alle Regioni a legiferare in materie anche affini a quella ambientale; nel caso specifico, i giudici della Consulta danno ormai per acquisito il principio secondo cui il legislatore statale avrebbe oramai rinunciato ad un modello di protezione civile centralizzato, optando piuttosto in favore di un’organizzazione diffusa a carattere policentrico .
A conclusione degli esempi apportati, si può dire che oggi la Corte è chiamata a definire il campo di applicazione delle clausole enumerate dell’articolo 117 non per individuare delle sterili materie, ma piuttosto per definire gli ambiti funzionali che legittimino l’intervento del legislatore statale all’interno di ogni forma di competenza legislativa e per individuare valori, interessi e metodi atti a costruire interventi legislativi nazionali ovvero trovare formule capaci di assentire interventi del Governo di tipo sostitutivo ex articolo 120 cost. Senza dimenticare, del resto, la più importante e rilevante fonte di tutela degli interessi nazionali, costituita dall’articolo 119, nuovo testo, che include il patto di stabilità europeo e quello interno conseguente, che ha un interesse condiviso da tutte le forze politiche.
Svolgendo questo ruolo la Corte rischia però di “scottarsi le dita nel fuoco della politica”: effettivamente, il suo compito provoca un’emarginazione del Parlamento “sia dalla Corte sia dalle sedi di relazione tra governo e Regioni”; proprio per questo, vi sono molteplici proposte di riforma finalizzate a “ infoltire la Corte con rappresentanti delle Regioni, quasi a fare della stessa una sorta di terza camera” . La Corte è al momento obbligata ad avere un ruolo preminente e autoritario (e soprattutto di “vice-legislatore”) e, quindi, indirettamente si appropria di poteri decisionali discrezionali interpretativi che sfiorano la dottrina, la politica e il gioco tra i poteri locali e centrali: di fatto, la Corte incarna al momento l’ago della bilancia nell’attribuzione di competenze importantissime.

3.3. Il futuro: il Codice dell’ambiente

I profili problematici della riforma costituzionale del 2001 meritano ulteriore attenzione, da parte della dottrina e della giurisprudenza, di fronte all’ambizioso progetto di riordino della legislazione in materia ambientale.
Dopo un complesso iter, infatti, è stata definitivamente approvata la Legge n. 308/ 2004 recante “Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l’integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione”. La legge delega prevede (art. 8) che “i decreti legislativi si conformano nel rispetto delle competenze per materia delle amministrazioni statali e delle attribuzioni delle regioni e degli enti locali come definite ai sensi dell’art.117 Cost. e della legge n. 59/97 e del D. lgs. n. 112/98 e del principio di sussidiarietà”. Nell’individuare i principi direttivi, ribadisce la “riaffermazione del ruolo delle Regioni ai sensi dell’art.117” (art. 8, lett. m), principio che si applica a tutti i decreti legislativi. La delega si rifà pertanto all’art.117 Cost. (nel testo novellato dalla legge cost. 3/2001) e al decentramento di funzioni amministrative del decreto legislativo n. 112/98.
In attuazione di questa delega, è stato approvato il c.d. Codice dell’ambiente, testo coordinato del Decreto legislativo n. 152 del 3 aprile 2006 (con le modifiche introdotte dal Decreto legislativo 8 novembre 2006, n. 284). Il provvedimento, un corpus normativo di 318 articoli, semplifica, razionalizza, coordina e rende più chiara la legislazione ambientale in sei settori chiave suddivisi in 5 capitoli: procedure per la valutazione ambientale strategica (VAS), la valutazione d’impatto ambientale (VIA) e l’autorizzazione ambientale integrata (IPPC); difesa del suolo, lotta alla desertificazione, tutela delle acque dall’inquinamento e gestione delle risorse idriche; gestione dei rifiuti e bonifiche; tutela dell’aria e riduzione delle emissioni in atmosfera; danno ambientale.
Il Testo unico ha lo scopo di accorpare le disposizioni riguardanti settori omogenei di disciplina, in modo da ridurre le ripetizioni e integrare i vari disposti normativi delle diverse previsioni precedentemente disseminate in testi eterogenei, così riducendo la stratificazione normativa generatasi per effetto delle innumerevoli norme che si sono nel tempo sovrapposte e predisponendo una serie di articolati aggiornati e coordinati, con la successiva abrogazione di disposizioni non più in vigore (per l’esattezza: l’abrogazione di cinque leggi, dieci disposizioni di legge, due decreti legislativi, quattro D.P.R. tre D.P.C.M. ed otto decreti ministeriali, cui sono da aggiungere le disposizioni già abrogate e di cui viene confermata l’abrogazione da parte dei decreti delegati) .
Benché da più parti sia stato notato come la disciplina del c.d. codice dell’ambiente sia “parziale ed instabile” , poiché esclude espressamente una serie di settori, le Regioni hanno da subito proposto ricorso alla Corte costituzionale su una serie di disposizioni del Codice, avendo il Governo sospeso l’efficacia di gran parte delle disposizioni contenute nel codice stesso (come quelle in materia di VIA, acqua, rifiuti, bonifica); nel frattempo, a complicare la situazione, sono stati già adottati ovvero sono in corso di preparazione da parte dell’Esecutivo una serie di decreti correttivi.
Il codice dell’ambiente disciplina una pluralità di diversi meccanismi di cooperazione tra lo Stato e le Regioni; con questo non si intende dire che il Codice possa (da solo) risolvere i problemi interpretativi e attributivi creati dalla riforma costituzionale: tuttavia, è auspicabile che il coinvolgimento delle Regioni nelle varie procedure amministrative ivi disciplinate possa facilitarne un loro concreto inserimento nella materia ambientale, di competenza esclusiva dello Stato, alleggerendo il gravame di cui è stata investita la Corte Costituzionale negli ultimi anni.
Meritevole di attenzione è comunque la recente novella del Codice attuata dal recente decreto legislativo 16 gennaio 2008, n. 4 che ha inserito, nell’articolato della Parte I del d. lgs.152/2006, i nuovi articoli da 3-bis a 3-sexies.
In particolare, l’art. 3-quinquies (rubricato “Principi di sussidiarietà e di leale collaborazione”) stabilisce che “i principi desumibili dalle norme del decreto legislativo costituiscono le condizioni minime ed essenziali per assicurare la tutela dell’ambiente su tutto il territorio nazionale” (comma 1): ne discende che “le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono adottare forme di tutela giuridica dell’ambiente più restrittive, qualora lo richiedano situazioni particolari del loro territorio, purché ciò non comporti un’arbitraria discriminazione, anche attraverso ingiustificati aggravi procedimentale” (comma 2), mentre “lo Stato interviene in questioni involgenti interessi ambientali ove gli obiettivi dell’azione prevista, in considerazione delle dimensioni di essa e dell’entità dei relativi effetti, non possano essere sufficientemente realizzati dai livelli territoriali inferiori di governo o non siano stati comunque effettivamente realizzati” (comma 3).
L’articolo in commento, come si vede, rigetta la tesi della maggiore protezione ambientale a tutti i costi, nella misura in cui legittima le Regioni (e le Province autonome di Trento e Bolzano) ad introdurre misure di maggiore protezione dell’ambiente sempre che “tali differenziazioni della tutela siano giustificate da situazioni oggettive riguardanti uno specifico territorio e che le misure introdotte non costituiscano uno strumento di discriminazione arbitraria e non comportino, in particolare, un ostacolo al funzionamento del mercato” .
Detto altrimenti, la norma impegna lo Stato e le Regioni ad una (equilibrata e matura) cooperazione istituzionale nel governo della materia ambientale, alla luce dei principi di sussidiarietà e di leale collaborazione. Sapranno farlo? La sfida si prospetta tanto ardua quanto affascinante.


4 Conclusioni

La disamina fin qui condotta per analizzare il riparto di competenze tra Stato e Regioni nel campo delle politiche di tutela dell’ambiente ha rilevato una grande complessità nell’esercizio delle funzioni legislativa e amministrativa. La (costante) proposizione di ricorsi innanzi alla Corte costituzionale per risolvere i conflitti attributivi ne è un esempio lampante: questa corsa nel cercare di accaparrarsi fette di potere per non lasciarle agli altri in un panorama legislativo confuso, ha prodotto un clima di tensione invece di ispirare una leale collaborazione tra Stato e Regioni.
Inoltre, gli esiti di questa “guerra di confine” sono sempre più nelle mani della Consulta, la quale perde il suo ruolo super partes,di garante del rispetto delle regole del gioco, per essere chiamata di fatto a svolgere una funzione indicativa e prescrittiva delle regole stesse.
Un nuovo riordino della Costituzione appare quindi sempre più necessario non solo per definire la natura dell’odierna forma di Stato ibrida (definire, cioè, se si ci intende orientare verso un modello federale, e in tal caso necessario dotare lo Stato degli apparati e degli strumenti necessari per poter governare in tale nuovo scenario amministrativo, legislativo, politico ed economico, così da abbandonare eventualmente il sistema regionale attuale), ma soprattutto per stabilire in maniera univoca i confini delle attribuzioni degli organi statali e ridurre conseguentemente ai minimi termini la discrezionalità della Corte costituzionale. Una maggiore chiarezza e la disciplina di sedi e strumenti di collaborazione porterebbero alla diminuzione dei giudizi in via principale e delle controversie sia tra Stato e Regione sia tra Regioni, di fatto così diminuendo il potere della Corte e uniformando il sistema .
Sebbene una parte della dottrina veda nel principio di leale collaborazione la strada verso la chiarezza, è anche vero che detto principio non è sufficiente se intravisto solo nella Costituzione e non descritto accuratamente nelle forme procedurali e organizzative e senza essere accompagnato al principio di partecipazione .
La discrezionalità odierna delle decisioni della Consulta è la naturale conseguenza delle lacune insite nella stessa riforma del Titolo V: il legislatore del 2001 ha proceduto invero alla definizione di un sistema di ripartizione troppo statico e, quindi, strumenti come la “chiamata in sussidiarietà”, propri della prassi giurisprudenziale, sono oggi utilizzati per ridare dinamicità al sistema, non avendo un posto nella Carta costituzionale, e permettono alla Corte di ricoprire un ruolo troppo interventista, lontano dal suo ruolo originario.
Per molte materie delicate, tra cui quella ambientale, un’ulteriore inerzia del legislatore nel riformare il sistema può portare a seri danni in quanto la risoluzione dei conflitti attributivi resterebbe affidato ad un mero metodo casistica, privo di una prospettiva di organicità e uniformità.
In siffatto contesto non è d’aiuto neppure il c.d. Codice dell’ambiente che, malgrado alcuni aspetti innovativi, appare ancora redatto, a mio parere, alla stregua di una raccolta di norme già esistenti, prestando il fianco ad un’eccessiva discrezionalità dei giudizi che non paiono davvero supportati da norme precise e/o da indicazioni politiche e scientifiche a supporto di un argomento dove gli interessi in gioco godono di una forte multidisciplinarietà.
Al legislatore si chiede maggiore coraggio nell’innovare e chiarificare il sistema, quel coraggio che non si è avuto nel 2001 e di cui il Paese e noi tutti, cittadini e fruitori del bene essenziale per eccellenza, ovvero l’ambiente, abbiamo bisogno. Quanto alle modalità in cui questa svolta riformatrice potrà concretizzarsi, sono persuasa che uno dei principi da utilizzare è quello di leale collaborazione, purché ne sia descritta in maniera molto accurata la modalità di applicazione da parte del legislatore. Penso però che tale principio debba accompagnarsi al rafforzamento della responsabilizzazione delle stesse Regioni le quali oggi si pongono sullo stesso piano dello Stato (art. 114 cost.) e, quindi, oltre a godere dell’autonomia loro riconosciuta, devono però essere tenute ad occuparsi delle politiche ambientali non in un’ottica separatista ed egoistica, bensì creare nei cittadini piena consapevolezza sulla delicatezza e trasversalità della problematica ambientale.
Ci si riferisce, solo per fare un esempio, alla sentenza n. 62 del 2005, sopra commentata, dove la Corte è stata costretta, per così dire, ad ammonire le Regioni che ostacolavano la realizzazione di insediamenti pericolosi sui rispettivi territori, secondo il motto del “not in my back yard” (sindrome NIMBY), un atteggiamento che non invoglia le controparti alla collaborazione (anzi, tutt’altro!). Ritengo che la tendenza della Corte c.d. localista, che riconosce autonomia regionale nel legiferare anche in tematiche confinanti con quella ambientale, sia da un lato giustificata e possa costituire una leva “di mercato”– mi si passi la locuzione – per far sì che le diverse Regioni abbiano la libertà di gestire l’ambiente in autonomia e, in tal modo, confrontarsi e ispirare anche le altre nella ricerca di strumenti di tutela suscettibili di differenziazione e adattamenti da un territorio all’altro.
Al contempo, occorre piena consapevolezza e maturità all’idea che oggi l’ambiente costituisca davvero una priorità: viene da chiedersi, allora, se le Regioni italiane siano davvero pronte a sobbarcarsi la responsabilità di occuparsene in un’ottica collaborativa o se, piuttosto, un simile compito sia più connaturato ad un livello istituzionale “più elevato”, qual è lo Stato.
Ed allora, in conclusione: eventuali forme di autonomia rafforzata, come quelle previste nell’articolo 116, comma 3, cost., possono integrare una situazione di pericolo, laddove non disciplinate nel dettaglio? E qualora la definizione di tale dettaglio dovesse ancora essere nelle mani della Corte costituzionale, sarebbe tutto ciò “cosa buona e giusta”?. O, piuttosto, è il caso che i giudici della Consulta siano affrancati dal fardello di (continuare a) coprire gli spazi vuoti lasciati nel 2001 dal Legislatore?


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Le sentenze della Corte Costituzionale citate nel testo sono consultabili sul sito web della Consulta, all’indirizzo www.giurcost.org.



 

*  Il testo riprende, con modifiche e integrazioni, il lavoro finale in Diritto Amministrativo e Diritto dell’Ambiente “I criteri di distribuzione delle competenze amministrative e legislative tra Stato e Regione: il caso delle politiche pubbliche di tutela dell’ambiente” che l’A. ha discusso nell’anno accademico 2007/2008 presso l’Università Commerciale “Luigi Bocconi” di Milano - Facoltà di Economia, Corso di Laurea in Economia delle amministrazioni pubbliche ed internazionali (Relatore: prof. Fabrizio Fracchia).

 

* Il testo riprende, con modifiche e integrazioni, il lavoro finale in Diritto Amministrativo e Diritto dell’Ambiente “I criteri di distribuzione delle competenze amministrative e legislative tra Stato e Regione: il caso delle politiche pubbliche di tutela dell’ambiente” che l’A. ha discusso nell’anno accademico 2007/2008 presso l’Università Commerciale “Luigi Bocconi” di Milano - Facoltà di Economia, Corso di Laurea in Economia delle amministrazioni pubbliche ed internazionali (Relatore: prof. Fabrizio Fracchia).
° nicolecutrufo@hotmail.it.


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Cassazione, sent. n. 421 del 18 gennaio 1983 , Iannucci C. Inps, p.3151, in Foro italiano.
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Definizione di ambiente nell’atto unico nell’allegato IV della direttiva 8 CE del 1998: “acque, compresi sedimenti, aria, terra, specie della fauna e flora selvatiche e relative interrelazioni, nonché le relazioni tra tali elementi e gli organismi viventi”.
Aggressore dell’habitat e dell’ambiente in cui viviamo è l’inquinamento, noto come fenomeno transfrontaliero. Infatti, in seguito alla guerra dei trent’anni dopo la pace di Westfalia e la conseguente costituzione dei diversi Stati con la loro sovranità, ed in seguito alla nascita del diritto internazionale per gestire le relazioni tra più stati, è proprio per risolvere problemi di carattere ambientale di vicinanza tra Stati diversi che nasce il diritto internazionale dell’ambiente con il Codice della Natura in Francia (1804) che ne certifica la qualificazione di fenomeno internazionale mentre si connota come transfrontaliero in seguito ad eventi di inquinamento maggiori come disastri ambientali, in seguito al secondo conflitto mondiale, che sensibilizzarono l’opinione pubblica sull’urgenza di creare norme sulla tutela dell’ambiente obbligando gli Stati a collaborare fra di loro.
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Nel 1948 furono concretamente istituiti solo il Parlamento, il Governo e il Capo dello Stato. Nel 1956 il quadro istituzionale si arricchì della Corte Costituzionale, del Consiglio Superiore della Magistratura e del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. Le Regioni furono istituite solo negli anni Settanta.
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FELICI, La ripartizione delle competenze amministrative tra Regioni, Province, Comuni, in Rapporto Annuale 2004 sull’attuazione del Federalismo, p. 269.
Il riferimento è alla legge 241/1990 “Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”, seguita dalla legge 59/1997 (c.d. “Legge Bassanini”) recante la “Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle Regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa” e dal decreto legislativo n. 112/1998 avente ad oggetto il “Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59”.
L’abrogazione degli articoli 124 e 125, comma 1 Cost. non significava comunque, sic et simpliciter, il venir meno di ogni funzione di controllo: del resto, come rilevato dalla dottrina già all’indomani della riforma del 2001, tra le materie oggetto di competenza legislativa concorrente, troviamo la “armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, locuzione, questa, che consente e legittima i controlli in capo alle Regioni necessari al rispetto dei parametri economici comunitari e nazionali, compresi quelli relativi al Patto di stabilità: così, B. CARAVITA, La Costituzione dopo la Riforma del Titolo V. Stato, Regioni e autonomie fra Repubblica e Unione europea, Giappichelli, 2002, p. 79.
Puntualmente, quindi, l’articolo 7 della L. 131/2003 (c.d. “Legge La Loggia”, recante attuazione della riforma di cui alla legge cost. n. 3/2001) stabilisce che la Corte dei Conti verifica il rispetto degli equilibri di bilancio di Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni con riferimento al Patto di stabilità interno e ai vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea.
In realtà, ancor prima della riforma del 2001, il principio di sussidiarietà aveva già fatto ingresso nell’ordinamento giuridico italiano attraverso il Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 che lo ha qualificato come principio cardine dell’Unione Europea, esplicitamente sancito dall’Articolo 5 di tale Trattato (come modificato a seguito dell’introduzione, il 1° febbraio 2003 del Trattato di Nizza) che richiama la sussidiarietà come principio regolatore dei rapporti tra Unione e stati membri.
M. D. CHANTAL, Il principio di sussidiarietà, Giuffrè, 2003.
Secondo il pensiero della scuola cattolica di fine Ottocento, tale principio implica che le diverse istituzioni, nazionali come sovranazionali, debbano tendere a creare le condizioni che permettono alla persona e alle aggregazioni sociali, i cosiddetti corpi intermedi, famiglia, associazioni, partiti, di agire liberamente senza sostituirsi ad essi nello svolgimento delle loro attività: un entità di livello superiore non deve agire in situazioni nelle quali l’entità di livello inferiore (e, da ultimo, il cittadino) è in grado di agire per proprio conto. L’intervento dell’entità di livello superiore dovrebbe essere temporaneo e teso a restituire l’autonomia d’azione all’entità di livello inferiore; l’intervento pubblico dovrebbe essere attuato quanto più vicino possibile al cittadino. Esiste, tuttavia, un nucleo di funzioni inderogabili che i poteri pubblici non possono alienare, quali coordinamento, controllo, garanzia dei livelli minimi di diritti sociali, equità, ecc. e che fanno da pendant all’autoregolamentazione proveniente dall’aggregazione societaria. In argomento, L. FRANZESE Ordine economico e ordinamento giuridico. La sussidiarietà delle istituzioni, s.d.
A. ANZON, I poteri delle Regioni nella transizione dal modello originario al nuovo assetto costituzionale, cit., p. 165-167.
MUSOLINO, La legge costituzionale del 18 ottobre 2001 n.3 all’origine di una lunga serie di conflitti in federalismi, in Rivista di diritto pubblico italiano, comunitario e comparato, 2007, p. 1.
Così, A. BARBERA, Intervento alla tavola rotonda su “La riforma della riforma”, cit.
Il disegno di legge costituzionale n. 1187 prevedeva la modifica dell’art. 117 della Costituzione mediante l’inserimento, dopo il quarto comma, della previsione della competenza legislativa esclusiva delle Regioni in materia di: assistenza e organizzazione sanitaria; organizzazione scolastica, gestione degli istituti scolastici e di formazione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche; definizione della parte dei programmi scolastici e formativi di interesse specifico della Regione; polizia locale. Il documento è consultabile sul sito web della Camera dei Deputati, all’indirizzo www.camera.it/leggiedocumenti.htm.
Il disegno di legge costituzionale “Nuove modifiche al Titolo V, parte seconda della Costituzione” era costituito da cinque articoli e una Relazione di accompagnamento. Si prevedeva innanzitutto una rimodulazione delle materie decentrate alle Regioni, la scomparsa della legislazione concorrente tra i diversi livelli di governo a favore di quella esclusiva, la riedizione della dizione “interesse nazionale” tra i vincoli a cui la legislazione esclusiva delle Regioni è sottoposta, l’eliminazione del capoverso relativo al “federalismo differenziato” nell’articolo 116, l’istituzione di “Roma Capitale” e varie norme transitorie per il passaggio al nuovo sistema. Tratto da F. CERNIGLIA, Le sei novità del disegno di legge costituzionale, del 17.04.2003, su www.lavoce.it/articoli.istituzioneefederalismo.htm.
“Riforma dell’ordinamento della Repubblica. Modifiche alla parte II della Costituzione”, consultabile su www.camera.it/leggiedocumenti.
P. CARETTI, G. TARLI BARBIERI, Diritto regionale, Giappichelli, 2007, p. 60.
42 G. GRASSO (a cura di), “La Corte salva la continuità dell’ordinamento giuridico”, tratto da Dibattiti su associazione italiana dei costituzionalisti, p. 1.
43 P. CARETTI, G. TARLI BARBIERI, Diritto regionale, cit., p. 58.
L. TORCHIA, La potestà legislativa residuale delle Regioni, in Le Regioni, n.2/2002, p. 1.
P. CARETTI, G. TARLI BARBIERI, Diritto regionale, cit., p. 62.

La definizione dottrinaria di “non-materie” è confluita nel “ritenuto in fatto” della sentenza cost. n. 228/2004.
48 P. CARETTI, G. TARLI BARBIERI, Diritto regionale, cit., p.62.
Si veda N. LUGARESI, Diritto dell’ambiente, Cedam, 2004; R. FERRARA, Diritto dell’ambiente, Laterza, 2000.
Così ad esempio nella sentenza n. 222 del 2003, nella quale si esclude che “possa identificarsi la tutela dell’ambiente come una «materia» in senso tecnico” e si rinnova l’identità dell’ambiente come valore trasversale. Su www.foroitaliano.it.
F. BENELLI, L’Ambiente tra “smaterializzazione” della materia e sussidiarietà legislativa, in Le Regioni, n. 6/2003, p. 1.
Si trattava rispettivamente della legge Regione Sardegna n.8 del 2003, della legge Regione Basilicata n.31 del 2003 e della legge Regione Calabria n.26 del 2003.
M. SCIARRA, La trasversalità della tutela dell’ambiente: un confine mobile delle competenze legislative tra Stato e Regioni, contenuto nella sezione Cronache sulla giurisprudenza costituzionale in www.associazionecostituzionalisti.it.
“In tale situazione, si deve comunque auspicare che la Corte costituzionale verifichi sempre con attenzione (…) che le Regioni, mosse dall’intento di eccellere nella protezione ambientale o affette dalla vieppiù dilagante sindrome Nimby, non introducano, senza essere autorizzate a farlo e in nome di una malintesa accezione del principio di sussidiarietà, standard di tutela eccessivamente severi e non giustificati da esigenze oggettive e specifiche del territorio regionale”: così, M. RENNA, L’allocazione delle funzioni normative e amministrative, in G. ROSSI (a cura di), Diritto dell’ambiente, Giappichelli, 2008, p. 149.
La giurisprudenza costituzionale sulla novella del Titolo V, 5 anni e 500 pronunce, a cura di F. MARCELLI e V. GIAMMUSSO, tratto da Quaderni di documentazione del Senato della Repubblica, Servizio Studi n. 44, ottobre 2006, p. 41-47.
G.PASTORI, Principio di sussidiarietà e riparto delle funzioni amministrative, tratto dall’intervento tenuto al convegno su “Le prospettive della legislazione regionale” per gli “Incontri di studio Gianfranco Mor sul diritto regionale” (Milano, 26 gennaio 2006), p. 1.
“: [...] DECISI a portare avanti il processo di creazione di un’unione sempre più stretta fra i popoli dell’Europa, in cui le decisioni siano prese il più vicino possibile ai cittadini, conformemente al principio della sussidiarietà”: così, preambolo del Trattato di Maastricht, 7 febbraio 1992.
M. D. CHANTAL, Il principio di sussidiarietà, cit.
M. CECCHETTI, S. PAJNO, Il diritto delle autonomie territoriali negli apporti “ con formativi” della giurisprudenza costituzionale: la difficile ricerca del miglior equilibrio tra soluzioni del caso concreto e coerenza di sistema, tratto dalla Rivista di diritto pubblico italiano, comunitario e comparato federalismi.it, 26 settembre del 2007, p. 4.
68 M. CECCHETTI, S. PAJNO, cit.
M. CECCHETTI, S. PAJNO, cit., p. 3.
G. PASTORI, Principio di sussidiarietà e riparto delle funzioni amministrative, cit., p. 2.
G. PASTORI, cit., p. 3.
La giurisprudenza costituzionale sulla novella del Titolo V, 5 anni e 500 pronunce, a cura di F. MARCELLI e V. GIAMMUSSO, cit. p. 50-53.
G. PASTORI, Principio di sussidiarietà e riparto delle funzioni amministrative, su www.issirfa.it, p. 1.
A. MORONE, La Corte costituzionale riscrive il titolo V, in Quaderni costituzionali dell’8 ottobre 2003, n. 1, p. 1-3.
A. BARBERA, Chi è il custode dell’interesse nazionale?, in Quaderni costituzionali 2001, p. 345; ID., Scompare l interesse nazionale?, nel Forum di Quaderni cost.
R. BIN, L’interesse nazionale dopo la riforma: continuità dei problemi, discontinuità della giurisprudenza costituzionale, p.1, disponibile sul sito www.unife.it/forumcostituzionale.
S. MERLINI (a cura di), La forma di governo nella riforma costituzionale, tratto da Quaderni costituzionali, p. 1-3.
R. FERRARA, F. FRACCHIA, N. OLIVETTI RASON, Diritto dell’ambiente, Laterza, 2003, p. 89.

ANZON, I poteri delle Regioni nella transizione dal modello originario al nuovo assetto costituzionale, cit., p. 96-99.
“La scomparsa dell’interesse nazionale sostanziale come limite della legislazione regionale e fondamento di quella statale è un’affermazione contenuta in questa famosa sentenza sent. n.303 del 2003, non smentita dalla giurisprudenza successiva”: il riferimento è tratto da M. CECCHETTI, S. PAJNO, Il diritto delle autonomie territoriali negli apporti “con formativi” della giurisprudenza costituzionale: la difficile ricerca del miglior equilibrio tra soluzioni del caso concreto e coerenza di sistema, p. 26.
Principio unitario e interesse nazionale nel progetto di revisione della seconda parte della Costituzione, a cura di F. GIUFFRÈ, tratto da Quaderni costituzionali, p. 1-4.
A. ANZON, I poteri delle Regioni nella transizione dal modello originario al nuovo assetto costituzionale, cit., p. 51.

A. ANZON, cit., p. 52.
V. ONIDA, La giustizia costituzionale nel 2004. Relazione del Presidente della Corte costituzionale, 20 gennaio 2005: “[…] per quanto attiene ai conflitti tra poteri dello Stato, escludendo le decisioni relative all’ammissibilità dei conflitti, il dato del 2,47% è superiore rispetto alla media degli undici anni precedenti (il ritardato sviluppo di questo tipo di contenzioso rende pleonastici i riferimenti a periodi anteriori al 1993), dell’1,87%, ma inferiore rispetto a quella dei cinque anni precedenti (nel periodo 1999-2003, la media è stata del 2,88%). Con precipuo riferimento all’anno precedente, il confronto vede prevalere il dato del 2004 rispetto al 2,09% del 2003”.
V. ONIDA, cit.: “[…] Discorso analogo ma inverso è da farsi per il giudizio in via principale, il quale, ancorato, per il periodo 1983-2002, ad una media del 7,29% (il 2002 si è posto leggermente al di sotto, con una percentuale di 5,61), con un picco negativo di 2,76% (nel 1998) ed uno positivo di 11,14% (nel 1988), ha conosciuto un notevole incremento nel 2003, giungendo al 14,92%, in relazione al quale il dato del 21,75% proprio del 2004 costituisce un incremento – invero ragguardevole – pari al 45,78%”.
M. CECCHETTI, S. PAJNO, Il diritto delle autonomie territoriali negli apporti “con formativi” della giurisprudenza costituzionale: la difficile ricerca del miglior equilibrio tra soluzioni del caso concreto e coerenza di sistema, cit., p. 3.
M. SCUDIERO, La legislazione: interessi unitari e riparto della competenza, Relazione al Convegno organizzato dall’ISSiRFA-CNR su Regionalismo in bilico tra attuazione e riforma della riforma (Roma, Sala del Cenacolo, 30 giugno 2004), su www.issirfa.it.
G. COCCO, Innovazioni costituzionali e trasformazioni dell’organizzazione amministrativa in tema di ambiente.
S. GRASSI, Prospettive di riordino della normativa a tutela dell’ambiente alla luce della riforma del Titolo V della Costituzione e del disegno di legge delega per i testi unici in materia ambientale, paper, 2001.
R. FERRARA, L’organizzazione amministrativa dell’ambiente: i soggetti istituzionali, in R. FERRARA, F. FRACCHIA, N. OLIVETTI RASON ( a cura di), Diritto dell’ambiente, cit.
Ivi.
120 G. COCCO, Innovazioni costituzionali e trasformazioni dell’organizzazione amministrativa in tema di ambiente, cit.
La stessa Corte ha più volte chiarito che per “principi fondamentali” della disciplina statale si intendono “i nuclei essenziali del contenuto normativo che quelle disposizioni esprimono per i principi enunciati e da esse desumibili”: così, ad esempio, sent. n. 482/1985 e n. 192/1987, in www.giurcost.org.
P. DELL’ANNO, Il principio di maggiore protezione nella materia ambientale e gli obblighi comunitari di riavvicinamento delle legislazioni nazionali, in Foro Amm., 2002.
S. GRASSI, Prospettive di riordino della normativa a tutela dell’ambiente alla luce della riforma del Titolo V della Costituzione e del disegno di legge delega per i testi unici in materia ambientale, cit.
Già nella sentenza n. 183/1987 la Corte costituzionale considerava l’ambiente “non materia” in senso tecnico, bensì “interesse” perseguibile dalle Regioni nell’esercizio delle competenze nei settori di materie strettamente connesse con l’ambiente quali l’urbanistica, i lavori pubblici, l’agricoltura, la caccia e la pesca, l’assistenza sanitaria, il turismo, la navigazione e i porti lacuali. E quanto ai rapporti tra Stato e Regioni, nella giurisprudenza della Consulta si era sino ad oggi affermato il principio secondo cui la disciplina statale in materia di protezione dell’ambiente costituisce, in linea generale (fatte salve, dunque, espresse previsioni normative contrarie), un nucleo di garanzie minimali che le Regioni non possono derogare in peius, ma pur sempre variare in melius con misure di tutela più restrittive. Principio quest’ultimo ripetutamente enunciato nei diversi settori del diritto ambientale si vedano ad es. le pronunce, n.151/1986 e n. 379/1994 (in materia di salvaguardia del paesaggio), n. 192/1987 e n. 744/1988 (sulla gestione dei rifiuti), n. 1002/1988, n.577/1990 e n. 578/1990 (sulla caccia), n. 366/1992 (nel settore delle aree naturali protette), e ribadito dalla stessa Corte anche nelle sentenze n. 382/1999 e n. 407/2002).
Si vedano anche le successive sentenze n. 96/2003, n. 222/2003, n. 307/2003, n. 259/2004, n. 62/2005, n. 108/2005, n.135/2005, n. 32/2006, n. 133/2006 e n. 182/2006. In generale, per l’esame e la raccolta della giurisprudenza costituzionale sulla riforma del titolo V, tra la quale quindi anche quella in materia di ambiente, costituisce uno strumento molto utile F. MARCELLI E V. GIAMMUSSO, La giurisprudenza costituzionale sulla novella del Titolo V. 5 anni e 500 pronunce, cit.. Si veda, poi, anche A. PIOGGIA e L. VANDELLI, La Repubblica delle autonomie nella giurisprudenza costituzionale, il Mulino, 2006.
G. VESPERTINI, Il riparto delle funzioni in materia ambientale: un’introduzione, sunto della lezione svolta al Corso universitario di perfezionamento ed aggiornamento professionale su “Ruolo e Funzioni degli Enti Locali nella Tutela dell’Ambiente” (Viterbo, 6 marzo 2007).
L. TORCHIA, In principio sono le funzioni (amministrative): la legislazione seguirà, in www.astrid-online.it.
G. VESPERTINI, Il riparto delle funzioni in materia ambientale: un’introduzione, cit.
Art.20, comma 2, legge regionale Toscana 1° dicembre 1998, n.88: “2. Sono attribuite alle Province le autorizzazioni di cui all’articolo 35 del d.lgs. 152/99 e successive modifiche relative alle seguenti attività:
a) immersione in mare da strutture ubicate nelle acque del mare o in ambiti ad esso contigui, dei seguenti materiali:
1) materiali di escavo di fondali marini, o salmastri, o di terreni litoranei emersi;
2) inerti, materiali geologici inorganici e manufatti al solo fine di utilizzo, ove ne sia dimostrata la compatibilità ambientale e l’innocuità;
b) immersione in casse di colmata, vasche di raccolta o comunque di strutture di contenimento poste in ambito costiero dei materiali di cui alla lettera a);
c) interventi di ripascimento della fascia costiera;
d) movimentazione di fondali marini connessa alla posa in mare di cavi e condotte non avente carattere internazionale.
2 bis. Le autorizzazioni di cui al comma 2, lettere b) e c), sono rilasciate nel rispetto dei criteri e della procedura di cui all’articolo 21 della legge 31 luglio 2002, n. 179 (Disposizioni in campo ambientale).
2 ter. Qualora l’attività di posa in mare di cavi e condotte e l’eventuale relativa movimentazione dei fondali marini abbia carattere interprovinciale, le autorizzazioni relative al comma 2, lettera d), sono rilasciate dalla provincia ove l’attività di posa in opera e relativa movimentazione dei fondali marini abbia il percorso prevalente”.
Art 35. d. lgs. 11 maggio 1999, n. 152.

F. MARCELLI e V. GIAMMUSSO, La giurisprudenza costituzionale sulla novella del Titolo V, 5 anni e 500 pronunce, cit., p. 584.
F. MARCELLI e V. GIAMMUSSO, op. cit.
Sul c.d. codice dell’ambiente si vedano, tra gli altri, F. FONDERICO, La “codificazione” del diritto dell’ambiente in Italia: modelli e questioni, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2006, p. 613; F. GIAMPIETRO (a cura di), Commento al testo unico ambientale, Ipsoa, Indicitalia, 2006; A. LUCIA DE CESARIS, Una nuova disciplina per l’ambiente?, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, n. 2/2007, p.123.
G. VESPERTINI, Il riparto delle funzioni in materia ambientale: un’introduzione, cit.
M. RENNA, L’allocazione delle funzioni normative e amministrative, cit., p. 150: l’A. ivi rileva che tuttavia “desta perplessità, viceversa, che una norma così generale e così importante (…) sia stata esplicitata da una fonte di rango costituzionale, addirittura da un decreto correttivo e integrativo di un precedente decreto delegato e senza, peraltro, che nella relativa legge delega (la legge n. 308/2004) fosse previsto alcun principio o criterio direttivo in tal senso. La norma in esame, in realtà, è venuta impropriamente a colmare una lacuna dell’art. 117 della Costituzione e, di fatto, essa sembra assumere una valenza in parte “ricognitiva” degli orientamenti della Corte costituzionale e in parte “stabilizzatrice” delle oscillazioni della sua giurisprudenza in tema di riparto delle competenze legislative ambientali”.
La dottrina ha denunciato da sempre nella mancanza di luoghi e strumenti di raccordo tra Stato e Regioni, oltre che nell’assenza di una Camera delle Regioni e delle autonomie, il vero limite della riforma costituzionale del 2001: così, per tutti, B. CARAVITA, La Costituzione dopo la Riforma del Titolo V. Stato, Regioni e autonomie fra Repubblica e Unione europea, cit., p. 155-156.
M. SCUDIERO, La legislazione: interessi unitari e riparto della competenza, cit.
 



Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it il 26/09/2008

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