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Le problematiche delle bonifiche in riferimento alla normativa nazionale e comunitaria°
Brownfield clean up issues with reference to national and European legislation
VINCENZO ABATE*
Abstract
TThis paper analyses some issues
concerning the legislative framework for contaminated site clean up.
After the Directive 2004/35/CE, a new national law has been introduced with the
aim to sum up in a new Code the wide legislation concerning waste, contaminated
sites clean up and the protection of soil and water.
The result of this make-up operation is the new Environmental Code (D.Lgs.
152/06). Its coming into force has received several doubts and critics. In
particular, great uncertainty has been introduced by the new criterion for the
planning of the clean up interventions based on risk analysis. For this reason,
a careful analysis of the new law appears necessary.
Key words: brownfield clean up, risk analisis, accountability, environmental
costs.
1. Premessa: “Le bonifiche, i
S.I.N. e l’attività amministrativa”
Il presente contributo intende delineare un quadro generale delle problematiche
legate alla progettazione ed esecuzione degli interventi di bonifica alla luce
delle vigenti disposizioni normative in ambito nazionale e comunitario.
Particolare attenzione sarà rivolta all’analisi delle criticità afferenti al
sito nazionale di bonifica di Priolo nella Regione Siciliana.
L’attenzione crescente palesata nel corso degli ultimi anni nei confronti della
problematica dell’inquinamento di numerosi siti dislocati in tutta Italia e
della necessaria bonifica di questi ultimi è ormai quotidianamente agli onori
della cronaca. Anche i soggetti pubblici preposti ad affrontare queste
tematiche, hanno affrontato con impegno l’annosa questione e grazie allo sforzo
profuso sono riusciti ad ottenere risultati soddisfacenti .
Le attività di competenza del Ministero, nel campo delle bonifiche, riguardano
la definizione dei criteri per l’individuazione dei siti inquinati di interesse
nazionale, per la messa in sicurezza, per la caratterizzazione, bonifica e
ripristino ambientale dei siti medesimi con particolare riferimento a suolo,
sottosuolo, falda, acque superficiali e sedimenti marini. Inoltre il ministero
cura l’aggiornamento e l’attuazione del Programma Nazionale di Bonifica
(istituito con il D.M. n° 468/01). Nei Siti di Bonifica d’interesse nazionale il
Ministero dell’ambiente ha funzione di ente competente ed in quanto tale
presiede e coordina le relative conferenze dei servizi istruttorie e decisorie.
I c.d. “S.I.N.” sono attualmente 54 e i finanziamenti stanziati con l’ultimo
Piano nazionale di bonifica ammontano a quasi 470 milioni di euro. La
distribuzione dei SIN sul territorio nazionale fa sì che tutte le regioni siano
coinvolte: come si deduce dalla tabella allegata, regioni come Lombardia, Lazio
e Sicilia hanno delle criticità più diffuse, conseguenza di attività industriale
fortemente diffusa in alcuni casi, e di scarsa attenzione agli impatti
ambientali in altri.
Figura 1: Numero di S.I.N. per regione
Dall’emanazione del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n° 22 (c.d. Decreto
Ronchi) il quadro normativo di riferimento aveva trovato una sua definizione:
1. sotto il profilo tecnico,
attraverso l’emanazione del D.M. 471/99 “Regolamento recante criteri, procedure
e modalità per la messa in sicurezza, la bonifica e il ripristino ambientale dei
siti inquinati”, così come prevedeva l’art. 17 del D.Lgs. n° 22/97;
2. sotto il profilo finanziario, attraverso lo stanziamento ed il
conseguente riparto disposto dal D.M. n° 468/01.
Le modifiche introdotte dal legislatore con il D.Lgs. n° 152/06 hanno avuto
quale conseguenza l’affermarsi di una nuova situazione d’incertezza, in merito
sia agli obblighi sia alle opportunità che si profilano agli operatori pubblici
e privati che operano nel comparto, sulla normativa di settore.
2. “Le difficoltà nell’interpretazione ed applicazione della normativa di
settore”
La problematica più seria in tema di bonifiche in Italia è sicuramente legata
all’attuale assetto normativo.
La norma di riferimento per gli operatori pubblici, persone fisiche e società
private è stato per anni il disposto combinato dal D.lgs. n° 22/97 e dal D.M. n°
471/99 che fornisce i criteri, le procedure e modalità per la messa in
sicurezza, bonifica e ripristino ambientali dei siti inquinati.
Il quadro normativo di fondo così descritto aveva ormai trovato una sua
stabilità giuridica ed aveva ormai cominciato a costituire una solida base di
confronto sui cui misurarsi in tema di bonifiche.
Con il D.lgs. n° 152/06 (c.d. Testo Unico Ambientale) viene creato un codice
dell’ambiente avente lo scopo di riunire all’interno di un unico testo
legislativo la complessa normativa ambientale italiana.
In particolare, in ossequio alla volontà di utilizzare la stessa terminologia
prevista dalla normativa comunitaria (Direttiva 2004/35/CE),
vengono introdotti due nuove concetti, quali:
A) Concentrazione soglia
di contaminazione (CSC): con questa nuova terminologia si indicano i
livelli di inquinamento superiori ai quali si rende necessaria la
caratterizzazione del sito e l’analisi di rischio sanitario e ambientale di sito
specifica.
B) Concentrazione soglia di rischio (CSR) : sono i livelli
di contaminazione delle matrici ambientali che, laddove vengano superati,
richiedono la messa in sicurezza e la bonifica del sito.
Innanzi tutto dal nuovo assetto legislativo appare evidente che quell’approccio
tabellare, che sembrava in un primo momento superato, persiste, sebbene in modo
limitato, anche secondo il nuovo schema legislativo. Infatti, l’art. 240 del
D.lgs. n° 152/06 alla lettera b) chiarisce che il superamento delle soglie di
concentrazione si accerta utilizzando i parametri inseriti nelle tabelle
dell’Allegato 5 alla parte quarta del precitato decreto. Un’analisi ancora più
attenta evidenzia come detti parametri coincidono, se si esclude qualche
eccezione, con quelli previsti nella Tabella 1 dell’Allegato 1 al D.M. n° 471/99
che individuava appunto ai valori di concentrazione limite accettabili nel suolo
e nel sottosuolo, riferiti alla specifica destinazione d'uso dei siti da
bonificare.
Un secondo ed opportuno approfondimento merita invece la questione relativa alle
soglie di contaminazione di rischio (CSR) ed alla qualificazione del sito
come contaminato, infatti è proprio su questo punto che si riscontra la vera
novità della vigente legge.
Sulla base dell’abrogato combinato disposto dato dal D.lgs. n° 22/97 e D.M. n°
471/99, un sito veniva definito come contaminato allorquando i valori
riscontrati nelle matrici ambientali superavano i limiti riportati nell’allegato
1. Da ciò derivava il contemporaneo sorgere dell’obbligo di provvedere alla
bonifica e, laddove sussistevano le condizioni di emergenza, anche alle misure
di messa in sicurezza di emergenza e successivamente al ripristino ambientale.
Sempre il D.M n° 471/99 prevedeva il ricorso allo strumento dell’analisi del
rischio solo qualora il progetto preliminare avesse dimostrato l’impossibilità
di riportare i valori di concentrazione delle sostanze entro i limiti previsti
dalla legge a costi accettabili (così come previsto dall’art. 5 D.M. n° 471/99).
Nello specifico, la Risk analysis era funzionale alla verifica del
rischio associato alla permanenza di concentrazioni residue agli interventi di
bonifiche con misure di sicurezza e messa in sicurezza permanente.
Il D.lgs. n° 152/06 stabilisce adesso che, il superamento delle concentrazioni
soglia di contaminazione non comporta la contestuale qualificazione del sito
come contaminato. Infatti una volta superate le CSC i soggetti
responsabili sono tenuti a provvedere alla caratterizzazione del sito ed alla “Analisi
di rischio di sito specifica”.
L’analisi di rischio riveste, quindi secondo le disposizioni vigenti, un ruolo
determinante per la definizione di un sito come inquinato. Con questo termine si
fa riferimento alla metodologia atta a stimare i danni provocati dalla presenza
d’inquinanti nei vari comparti ambientali e la probabilità del loro accadimento.
L’obbiettivo di fondo è quindi quello della determinazione dei rischi sanitari
per l’uomo. L’analisi di rischio secondo la prassi scientifica attualmente
seguita, si articola in diverse fasi:
a) Individuazione delle vie di migrazione, vale a dire delle matrici
ambientali che gli inquinanti possono utilizzare per diffondersi;
b) Identificazione delle popolazioni esposte, dei percorsi d’impatto e della
frequenza di esposizione, in particolare attraverso la destinazione attuale
o futura del sito è possibile individuare quali saranno i gruppi di individui
esposti ai contaminanti;
c) Determinazione della concentrazione degli inquinanti al punto di
esposizione;
d) Stima dell’esposizione, cioè la quantità di inquinante a cui è esposto un
potenziale bersaglio;
e) Stima del rischio, in questa fase considerando i differenti percorsi
d’impatto vengono integrati dai dati tossicologici degl’inquinanti, da ciò si
ricava la “Relazione dose-risposta”;
f) Gestione del rischio, dove il rischio stimato viene confrontato con un
valore ritenuto accettabile dalla comunità scientifica o dall’autorità di
controllo. Infine viene definito un “Indice di pericolo” che è data dal
rapporto fra la dose assunta giornalmente e la soglia di riferimento al disotto
della quale non sono stati riscontrati effetti.
Attraverso quest’analisi vengono elaborate le CSR, le quali permetteranno
di definire in modo rigoroso e cautelativo per l’ambiente, gli obbiettivi di
messa in sicurezza e bonifica aderenti alle reali problematiche del sito, tenuto
conto inoltre del rischio cancerogeno connesso. Una volta stabilite le CSR,
il sito sarà considerato contaminato solo nella circostanza in cui le
concentrazioni di inquinanti nelle matrici ambientali risulteranno superiori.
Il travagliato percorso del D.Lgs. n° 152/06 ha avuto nel corso degl’ultimi mesi
del 2006 una ennesima tappa intermedia che ha portato ad un primo, e non
esaustivo, intervento correttivo .
Col D.Lgs. 8 novembre 2006, n° 284 (Disposizioni correttive e integrative
del decreto legislativo 3 aprile 2006, n° 152, recante norme in materia
ambientale), infatti, sono state apportate delle integrazioni, sfruttando il
termine di due anni previsto dall’art. 1 comma 6 della legge delega 15 dicembre
2004 n° 306, ad alcune disposizioni contenute nella parte terza e nella quarta
del succitato D.Lgs n° 152/06.
Smentendo quelle che erano le previsioni della vigilia, la novella legislativa
non ha intaccato il nucleo centrale della normativa de qua. Invero, con
il D.Lgs. n° 284/06 il legislatore si è limitato a modificare alcune
disposizioni tra le quali, quella attinente alla proroga della competenza delle
Autorità di bacino nelle more della costituzione dei distretti idrografici.
La previsione dell’abolizione delle Autorità di bacino e le difficoltà legate
alla costituzione dei nuovi soggetti giuridici che avrebbero dovuto ereditarne
le competenze, ha posto in risalto la necessità di prorogare l’attività delle
Autorità, al fine di evitare l’acuirsi di gravi problemi di carattere locale
legati alla tutela del suolo e delle acque.
Altra novità di particolare interesse, introdotta dal decreto correttivo,
attiene alla soppressione della “Autorità di vigilanza sulle risorse idriche
e rifiuti”. Con l’abrogazione degli articoli 159, 160 e 207 del T.U.
Ambientale viene di fatto ripristinato il precedente assetto organizzativo
relativo ai soggetti con funzioni di controllo. Infatti, nell’attesa di un
prossimo intervento legislativo di riorganizzazione complessiva del sistema, si
è optato per la soluzione che ha riattribuire ai due precedenti soggetti di
controllo, Comitato di Vigilanza sulle risorse idriche e all’Osservatorio sui
Rifiuti, le loro funzioni.
Si attendeva, infatti, da diversi operatori una rivisitazione di quell’approccio
alla disciplina della bonifica dei siti contaminati, basato sulla risk
analisis, fortemente osteggiato al momento della sua introduzione e ritenuto
non cautelativo a causa de differimento nel tempo degl’interventi di messa in
sicurezza.
Le disposizioni che disciplinano l’attività di bonifica utilizzando i parametri
delle C.S.C. e C.S.R., sono rimaste invece invariate almeno sino a quando i
lavori della c.d. “Commissione Turroni”, istituita dal Ministro dell’Ambiente
Alfonso Pecoraio Scanio e a cui è stato affidato l’incarico di elaborare le
integrazioni e le modifiche da apportare al codice ambientale, non si
concluderanno con la presentazione in Consiglio dei Ministri della bozza del
secondo decreto correttivo.
Sembra che proprio le difficoltà derivanti da questa operazione di maquillage
su un testo che tenta di disciplinare in modo organico una materia così
complessa ed articolata, unita alla volontà di acquisire , una volta
sedimentati, gli orientamenti dottrinali più autorevoli abbiano spinto il
legislatore a differire l’intervento sul titolo V della parte quarta del D.Lgs.
n° 152/06.
L’intentio che traspare dalla posizione assunta dall’attuale governo è
quello di arrivare ad una soluzione che possa finalmente soddisfare le esigenze
manifestate dai tecnici del settore e lenire le critiche mosse dalle
associazioni ambientalistiche, ma che allo stesso tempo non mortifichi lo
spirito di uniformarsi alle prescrizioni comunitarie che aveva animato la
redazione del vigente corpus normativo.
3. Il concetto di rischio sotto il profilo tecnico-scientifico
Il concetto di rischio di un evento, sotto il profilo tecnico, consiste nel
prodotto di due fattori, cioè dalla probabilità dell’evento moltiplicata per
l’entità delle conseguenze ad esso associate. Se si esamina poi nello specifico
il caso dei siti contaminati, il concetto di rischio viene associato non tanto
alla contaminazione stessa (presupposto che gli inquinanti sono già stati
individuati) quanto agli eventi associati all’evoluzione dei possibili scenari
di diffusione degli inquinanti nelle matrici ambientali localizzate sul sito.
Alla luce di ciò con riferimento al sito il concetto di rischio deve essere
modificato, questo è dato dal prodotto tra un fattore di tossicità specifica
dell’inquinante e la possibile assunzione cronica giornaliera dello stesso.
Ulteriore elemento utile per la differenziazione consiste nel classificare
l’inquinante come cancerogeno o non cancerogeno. Nel primo caso si elabora un “valore
numerico di rischio”, mentre nel secondo caso viene calcolato un “indice
di pericolo”.
Le analisi di rischio possono essere condotte sulla base di due diverse
metodologie:
1) “Diretta” (foreward
mode): con questa metodologia viene calcolato il rischio sanitario per il
recettore esposto attraverso l’analisi della sorgente.
2) “Inversa”(backward mode): con questo secondo metodo, si
determina un livello di rischio accettabile per il recettore e, sulla base di
questo livello, viene calcolato il massimo valore tollerabile della
concentrazione alla sorgente, compatibile con la condizione di accettabilità del
rischio stesso.
Il legislatore italiano ha optato
nel nuovo testo unico ambientale per l’adozione della “Modalità Inversa”. In
particolare, con riferimento alla bonifica di siti inquinati, l’Allegato 1 alla
parte quarta del D.Lgs. n° 152/06 fissa quelli che sono i criteri generali e gli
elementi necessari che debbono essere tenuti in considerazione per effettuare
una corretta analisi di rischio.
Occorre ancora un ulteriore puntualizzazione: infatti esistono tre diversi
livelli di dettaglio con i quali può essere condotta un’analisi di rischio:
1) Il primo livello equivale alla “Caratterizzazione
screening”, attraverso cui è possibile individuare i possibili percorsi
di esposizione. Il limite di questo livello di analisi di rischio risiede nella
circostanza per cui si fa riferimento solo a bersagli on site, non
prevedendo l’impiego di nessun modello diffusivo.
2) Il secondo livello si riferisce a condizioni di "Caratterizzazione
sito-specifiche”. Con questo livello, vengono considerati più scenari di
evoluzione e impiegati modelli analitici che consentono la determinazione delle
concentrazioni richieste (che, nel caso del Codice, corrispondono alle CSR)
per la verifica delle condizioni di bonifica descritte. In questo caso i
bersagli possono essere verificati “on site” o “off site” dato che
sono stati studiati gli scenari di propagazione scientifica. Questo livello è
quello che corrisponde alle scelte contenute nel D.Lgs. n° 152/06.
3) L’ultimo livello rappresenta sicuramente il metodo migliore per
caratterizzare siti in prossimità di centri urbani o a elevata vulnerabilità. In
questo caso vengono impiegati oltre ai classici modelli analitici, anche
modelli numerici e probabilistici.
Attraverso i risultati ottenuti dalle risultanze dei tre diversi livelli di
analisi, dovrebbe essere molto più semplice scegliere il percorso metodologico
che è necessario adottare per ottenere un elevato livello di conoscenza del
sito. Un adeguato livello di conoscenza permette ai soggetti coinvolti
nell’attività di bonifica del sito, di operare scelte mirate e più efficienti
nel conseguire gli obbiettivi di bonifica prefissati.
Questa metodologia di determinazione delle concentrazioni soglia di rischio,
specifica di caso in caso relativamente alla situazione del sito in esame, ha
degli aspetti positivi, ma ogni medaglia ha il suo rovescio.
Una determinazione delle soglie limite di concentrazione degli inquinanti
realizzata tenendo conto di quelle che sono le specificità del sito, può
rappresentare evidentemente uno strumento molto più incisivo perché permette di
evidenziare con più puntualità quelle che sono le criticità esistenti.
4: Le criticità dell’analisi di rischio sito specifica
Una delle più annose problematiche è legata alla scarsa formazione degli attori
coinvolti nel processo di analisi che si trovano ad affrontare criticità su cui
non hanno maturato un adeguato livello di preparazione. Sarebbe opportuno che il
legislatore definisse un chiaro percorso di formazione e la contestuale adozione
di strumenti informativi in grado di supportare i funzionari nel difficile
compito di controllo. Tutto ciò appare essenziale al fine di garantire un
livello qualitativo standard da applicare alle analisi di rischio, effettuate
nei diversi siti interessati, perseguendo così un difficile ma necessario
obbiettivo di omogenea applicazione delle nuove disposizioni.
Quello che sembra essere invece il tallone d’Achille di questa metodologia
risiede nella scelte delle componenti dell’analisi di rischio da parametrizzare.
Sempre secondo le disposizioni dell’Allegato 1 alla Parte Quarta del nuovo
Codice Unico, debbono essere parametrizzate alcune componenti: contaminanti
indice, sorgenti, vie e modalità di esposizione nonché i ricettori finali.
Relativamente ai “contaminanti indice”, pur dettando la normativa alcuni
fattori a cui ci si deve attenere, la scelta delle sostanze che verranno prese
in considerazione ai fini dell’analisi di rischio sembra in realtà lasciata, in
modo discrezionale, al soggetto nei cui confronti la norma fa gravare l’onere
dell’analisi di rischio.
Evidentemente considerato che spesso i soggetti gravati da quest’onere sono
soggetti privati, da parte di quest’ultimi ci sarà un naturale interesse a
selezionare quelle componenti che evitano il superamento delle concentrazioni
soglia di rischio evitando così che il sito sia dichiarato contaminato e
traendone un considerevole vantaggio economico derivante dal mancato
sostenimento delle operazioni di mise, bonifica e ripristino.
Le difficoltà che pone il D.Lgs. n° 152/06 risiedono, in tema di bonifiche,
nella rivisitazione dell’iter procedurale previsto dal Decreto Ronchi, da
seguire in caso di contaminazione di un sito.
Da un’attenta analisi emerge che la fase tesa in cui debbono essere assunte
tutte le iniziative volte a contenere la minaccia di un pericolo per la salute
umana e l’ambiente vengono ora chiamate MISURE DI PREVENZIONE.
Quella che invece la normativa abrogata prevedeva come fase di “MESSA IN
SICUREZZA D’EMERGENZA” all’interno della quale rientravano tutti gli
interventi per il contenimento o l’isolamento definitivo della fonte inquinante
rispetto alle matrici ambientali circostanti; tale fase viene mantenuta, ma il
suo campo di applicazione viene ridotto alle sole situazione di emergenza
annoverate dall’art. 240 lett. T) tra cui si ricordano a titolo esemplificativo:
pericoli di incendi o esplosioni, situazioni di contaminazione di pozzi ad uso
idropotabile o per scopi agricoli.
Ma la novità più sostanziale di questa nuova disciplina risiede, tralasciando
queste differenze terminologiche, nella sostituzione del “criterio tabellare”
per cui un sito veniva definito come inquinato, sulla base delle disposizione
del D.M n° 471/99, anche quando uno solo dei valori di concentrazione delle
sostanze inquinanti nel suolo o nel sottosuolo o nelle acque sotterranee o nelle
acque superficiali risultasse superiore ai valori di concentrazione limite
accettabili indicati nell’Allegato I del decreto sopracitato.
Il Legislatore ha ora scelto, giustificando questa scelta alla luce degli
attuali orientamenti comunitari, espressi nella Direttiva 2004/35/CE, di
adottare un approccio basato sulla “Risk Analisis”.
L’utilizzo di un approccio basato su una analisi di rischio diverge da quanto
disponeva il D.M. n° 471/99 che definiva come potenzialmente inquinato “il
sito nel quale, a causa di specifiche attività antropiche pregresse o in atto,
sussistesse la possibilità che nel suolo o nel sottosuolo o nelle acque
superficiali o nelle acque sotterranee fossero presenti sostanze contaminanti in
concentrazioni tali da determinare un pericolo per la salute pubblica o per
l'ambiente naturale”.
Sulla base della normativa attualmente vigente un sito viene, invece, definito
come potenzialmente contaminato laddove all’interno delle matrici ambientali
presenti al suo interno, uno o più valori di concentrazione delle sostanze
inquinanti sono risultate superiori ai valori di concentrazione soglia di
contaminazione (C.S.C.).
La riflessione che se ne deve fare è quella di un mutamento radicale del quadro
di riferimento per gli operatori.
Invero, dall’originario criterio per cui la definizione del sito come
potenzialmente pericoloso avveniva sulla base della presenza di concentrazioni
di sostanze che potessero costituire un pericolo per la salute umana o per
l’ambiente, si passa ora ad un criterio che prevede come parametro il
superamento, da parte di inquinamenti presenti nelle matrici ambientali, dei
valori di concentrazione soglia di contaminazione.
Proprio l’ambiguità del procedimento di definizione di un sito come inquinato,
ha portato diversi soggetti responsabili d’inquinamento a impugnare i
provvedimenti assunti dalle autorità competenti. Questi soggetti ritengono
infatti che l’imposizione di obblighi di bonifica sia illegittima, in quanto
occorre rideterminare i parametri che fissano le soglie di contaminazione
attraverso la conduzione di un’analisi di rischio di sito-specifica.
Altra importante novità che propone il nuovo T.U. Ambientale, consiste nella
differenziazione fra “sito dismesso” e “sito con attività in esercizio”.
Il primo è come recita la lettera della legge “il sito in cui sono cessate le
attività produttive”, mentre il secondo è quello “nel quale risultano in
esercizio attività produttive sia industriali che commerciali nonché le aree
pertinenziali e quelle adibite ad attività accessorie, economiche”
Direttamente connessa con la nozione di sito in esercizio è quella di “Messa
in sicurezza operativa”: attraverso questo nuovo termine si fa riferimento
al complesso di interventi, eseguiti per l’appunto all’interno di un sito in cui
è ancora in corso attività di tipo produttivo, posti in essere per garantire
adeguati livelli di sicurezza per le persone e per l’ambiente, in attesa di
assumere ulteriori interventi di “Messa in sicurezza permanente”. In questa
tipologia di sito la fase della bonifica viene postergata solo al momento
della “cessazione dell’attività” che in quell’area veniva
esercitata.
Anche questa nuova disposizione apre un nuovo e delicato tema, legato ai ritardi
e alla compromissione delle matrici ambientali inquinate presenti nel sito.
Infatti come è possibile fissare obiettivi di recupero ambientale in un sito
inquinato per decenni? O, meglio, a quali costi questo risultato può essere
conseguito?
Ictu oculi, si manifesta come la statuizione di un intervento la cui
esecuzione è rimandata sine die. Sotto il profilo precipuamente
economico, invece, la norma limitando gli interventi solo alla M.I.S.O. si
prefigge lo scopo di non pregiudicare o compromettere l’attività dell’impresa
coinvolta, costringendola conseguentemente a rivoluzionare i programmi di
crescita industriali da quest’ultima elaborati.
Anzi la consapevolezza di dover affrontare ingenti costi di bonifica potrebbe
portare al sorgere di una prassi che vede l’azienda istituire un capitolo di
spesa a ciò dedicato che negli anni venga incrementato. Ciò garantirebbe
l’esistenza di fondi liquidi ed esigibili pronti ad essere investiti
nell’attività di bonifica e risanamento ambientale, mentre l’azienda, dal canto
suo, riuscirebbe ad ammortizzerebbe il costo di tali interventi su più esercizi
finanziari.
5. Le procedure di bonifica e la giustizia amministrativa
Così come stabiliva il D.M. n° 471/99, in caso di superamento o di pericolo
concreto ed attuale di superamento dei valori di concentrazione limite
accettabili per le sostanze inquinanti di cui all'articolo 3, comma l dello
stesso decreto, il sito interessato deve essere sottoposto ad interventi di
messa in sicurezza d'emergenza, di bonifica e ripristino ambientale per
eliminare le fonti di inquinamento e le sostanze inquinanti o ridurre le
concentrazioni delle sostanze inquinanti a valori di concentrazione almeno pari
ai suddetti valori di concentrazione limite accettabili, ai sensi e con le
modalità previste dal presente decreto.
Il soggetto obbligato alla realizzazione degli interventi di bonifica, nella
definizione del Piano di caratterizzazione, nonché nella definizione dei
Progetti di bonifica, deve adeguarsi alle prescrizione assunte durante la
Conferenza di Servizi decisoria svolta ai sensi dell’art. 14 della legge n°
241/90.
Le possibilità che si prospettano al soggetto obbligato, una volta pervenute le
prescrizione assunte, sono essenzialmente due. La prima è quella di adeguarsi a
quanto previsto dalla Conferenza di servizi decisoria, mentre la seconda opzione
risiede nell’impugnare il verbale contenente le determinazione assunte da
quest’ultima, davanti al Tribunale amministrativo competente.
Interessante riflessioni possono essere fatte alla luce delle statuizioni
assunte dai Tribunali amministrativi.
Innanzitutto va segnalata quella che sembra ormai una prassi consolidata presso
le aziende e soggetti privati di impugnare sistematicamente gli atti delle
Conferenze di servizi decisorie.
Se da un lato questa prassi evidenzia la mortificazione di uno degli istituti
che ha segnato il passaggio verso una politica dell’amministrazione negoziata,
dall’altro si assiste ad un fenomeno che ha come conseguenza quella di
rallentare, se non addirittura, vanificare l’attività di contenimento
dell’inquinamento (attraverso gli interventi di M.I.S.E.) e quella di vera e
propria bonifica. Con conseguenze nefaste in quanto in tutti questi casi i
rischi per la salute umana sono evidenti.
Una delle problematiche più frequenti che viene sottoposta al giudizio dei TAR
consiste nella definizione della responsabilità nei fenomeni d’inquinamento da
parte dei soggetti privati coinvolti.
I giudici di prime cure si trovano spesso costretti a valutare alcuni
fenomeni che non sono esclusivamente frutto dell’attività di un soggetto o di
una impresa, ma un sito può portare con se una situazione di inquinamento delle
matrici ambientali che è stata fortemente acuita da cause pregresse e
contestuali, rispetto a quelle imputabili al soggetto ricorrente.
Non di rado infatti lo stato d’inquinamento di un dato sito, è ascrivibile
all’attività che in quei luoghi hanno svolto, in archi temporali anche molto
risalenti nel tempo, soggetti diversi da quelli che attualmente vantano la
proprietà del sito o di un’area di questo o che comunque svolgono legittimamente
attività industriale o commerciale. Ulteriore elemento da tenere in
considerazione è quello per cui gli eventi di sversamento o comunque i fenomeni
di inquinamento non costituivano illecito secondo la disciplina vigente
all’epoca. E’ necessario ricordare che anteriormente alla L. n° 319/1976 la c.d.
“Legge Merli”, dal punto di vista legislativo, vi era una situazione di
sostanziale libertà nel rilascio dei reflui, e che anche quest’ultima fissava
comunque dei parametri piuttosto morbidi, ancor di più se confrontati con quelli
attualmente utilizzati. Non di rado accanto a fenomeni retrodatati, se ne
associano altri come la creazione di discariche abusive da parte di soggetti non
identificabili, che contribuiscono a peggiorare lo stato dell’inquinamento dei
luoghi e a rendere ancora più complicato l’accertamento delle singole
responsabilità, dovuto al fenomeno del “bioaccumolo”.
Da quanto sopraesposto si evince quale sia, nella pratica, la difficoltà del
provare la responsabilità del privato in riferimento alla contaminazione
riscontrata e a quali alchimie giuridiche debbano ricorrere i giudici per
trovare delle soluzioni alle problematiche sottoposte al loro giudizio.
6. L’evoluzione giurisprudenziale della giustizia amministrativa
Dalla giurisprudenza di settore sono di recente emersi spunti di riflessione e
alcune interessanti soluzioni riguardo all'interpretazione e all' applicazione
della normativa ambientale.
In particolare si segnala l’ordinanza n° 321/06 Reg. Ord. del Consiglio di
Giustizia Amministrativa per la Regione Sicilia, pronunciata a seguito
dell’appello proposto avverso l’ordinanza emessa dal T.A.R. Sicilia sezione di
Catania che ordinava la sospensione dei prescrizioni stabilite dal Ministero
dell’Ambiente e della Tutela del Territorio in relazione a interventi di messa
in sicurezza e bonifica da realizzare all’interno della Rada di Augusta nel Sito
di interesse nazionale di Priolo.
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana, che
rappresenta il secondo e ultimo grado di giudizio in tema di giustizia
amministrativa per la Regione Sicilia (equivalente al Consiglio di Stato in
ambito nazionale), con la sua decisione, oltre che revocare la sospensione delle
misure di M.I.S.E., precedentemente decisa dal T.A.R. di Catania, segna la linea
di demarcazione di un nuovo approccio, sotto il profilo giurisprudenziale, alle
problematiche legate alla bonifica dei siti contaminati.
I giudici di II grado, infatti, riescono a fornire alcune soluzioni interessanti
e puntuali alle annose questioni, specie di natura tecnica ed interpretativa,
che operatori del settore e tribunali si trovano frequentemente ad affrontare.
In primis, i giudici del Consiglio di Giustizia Amministrativa
intervengono in merito alla frequente querelle che riguarda la
distinzione fra gli interventi di messa in sicurezza d’emergenza e misure di
bonifica.
Premesso che le misure di M.I.S.E. vengono individuate, sia secondo la
precedente che per la vigente normativa, come quelle tese a ottenere il
contenimento o l’ isolamento definitivo della fonte inquinante rispetto alle
matrici ambientali circostanti, obiettivi della bonifica sono invece quelli di
eliminare le fonti di inquinamento e le sostanze inquinanti presenti nel suolo
sottosuolo e acque di falde. Esiste poi un tertium genus che è costituito
poi dagli “hot spots”, cioè da alcuni siti in cui a causa delle
particolari caratteristiche degli inquinanti presenti o della morfologia dello
stesso, piuttosto che circoscrivere la contaminazione delle matrici, così come
richiesto dalla legge in tema di M.I.S.E., occorre invece provvedere
direttamente alla loro eliminazione.
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa asserisce che il criterio di
differenziazione fra misure di messa in sicurezza e bonifica non può risiedere
in un dato di natura quantitativa per cui si debba far riferimento alle numero
di opere da porre in essere, né tanto meno nel costo delle stesse (soprattutto
tenuto conto delle dimensioni del sito). Il Collegio stabilisce quindi che, alla
luce dell’assenza di precise definizioni legislative al riguardo, la linea di
demarcazione fra le due tipologie di interventi è rimessa ad una valutazione
tecnica-discrezionale da parte della Pubblica Amministrazione, e in quanto tale
non sindacabile in sede giudiziaria, se non sotto l’unico profilo che della
manifesta irragionevolezza.
In particolare tenendo conto della peculiare situazione del sito della Rada di
Augusta, i giudici stabiliscono che le prescrizioni stabilite dal Ministero
dell’ Ambiente e della Tutela del Territorio nei confronti delle aziende
operanti all’interno della Rada, in quanto “finalizzate essenzialmente al
contenimento degli effetti dei fenomeni d’inquinamento in atto” ed alla
consequenziale predisposizione di condizioni ambientali tali da garantire
l’attuazione di futuri programmi di bonifica, rientrano a pieno titolo fra le
M.I.S.E..
Altra interessante conclusione a cui pervengono i giudici del C.G.A. tende a
chiarificare l’annosa questione relativa al criterio d’imputazione soggettiva.
Il collegio segue l’impostazione secondo cui nella materia de qua (art.
17 decreto legislativo n° 22/97) vige nei confronti degli operatori una forma di
“responsabilità oggettiva”, questi sono quindi tenuti, in virtù dei vantaggi
connessi all’esercizio della loro attività industriale esercitata in loco, a
porre in essere tutte le misure necessarie a garantire la non nocività di detta
attività. La Corte continua stabilendo che l’impresa deve inoltre garantire la
tutela dell’ambiente in cui essa opera in cui opera, non solo in relazione ai
possibili rischi legati alle caratteristiche dell’attività che essa svolge, ma a
prescindere da quali ne siano state le cause ed a prescindere da ogni
accertamento al riguardo.
Tale soluzione giurisprudenziale trova autorevole conferma nella recente
sentenza n° 4525 della VI Sezione del Consiglio di Stato. Con questa sentenza la
Corte stabilisce che le misure di messa in sicurezza e i relativi poteri della
Pubblica Amministrazione (da quelli ministeriali a quelli del Sindaco ex art. 54
D.Lgs. n° 267/2000) “possono essere esercitati, anche prescindendo
dall’accertamento della responsabilità dell’inquinamento”: tali accertamenti
infatti, richiedendo tempi piuttosto lunghi, risulterebbero incompatibili con
l’urgenza di garantire la sicurezza del sito
La Corte si spinge ancora oltre statuendo che, in particolare nei confronti
delle imprese che operano in siti caratterizzati da forte attività antropica a
scopo industriale, nei confronti di questi soggetti imprenditoriali può essere
applicato un criterio di oggettiva “responsabilità imprenditoriale”. In base a
tale responsabilità i soggetti economici che producono e ritraggono profitti
dall’esercizio di attività pericolose, e in quanto ex se inquinanti o in
quanto utilizzatori di strutture produttive contaminate e fonte di perdurante
contaminazione, sono tenuti a “sostenere integralmente gli “oneri necessari a
garantire la tutela dell’ambiente e della salute della popolazione”.
Tale orientamento giurisprudenziale inoltre trovare pieno riscontro con la
lettura dell’art. 41 Costituzione comma 1 e 2 (sul tema dell’equilibrio fra
interessi di rilevanza costituzionali quali, la tutela della salute e
dell’ambiente e la libera iniziativa economica dei privati), resa dalla costante
giurisprudenza della Corte Costituzionale. La Corte parlando poi della rada di
Augusta ubicata nel sito d’interesse nazionale di Priolo, sostiene che la zona
industriale è quindi di fatto gravata da un vero e proprio “onere reale a
rilevanza pubblica”, in quanto finalizzato alla tutela di prevalenti ed
indeclinabili interessi dell’intera comunità.
Il precedente giurisprudenziale sopraesposto, rappresenta un primo ma
fondamentale passo verso la definizione di una più precisa e puntuale
affermazione di responsabilità delle grandi imprese industriali in tema di
bonifiche.
Questa nuova prospettiva, da un lato, evidentemente costituisce un nuovo e
concreto baluardo utilizzabile da parte della pubblica amministrazione in difesa
della salute dei cittadini e dell’ecosistema in virtù proprio dell’obbligo
gravante sulle imprese di sopportare tutti gli oneri economici derivanti dalla
necessità di porre in porre in essere tutte le misure necessarie, atte a
garantire adeguati livelli di sicurezza ambientale.
Dall’altro lato, questo nuovo approccio apre una problematica altrettanto
interessante che è quella legata alla sopravvivenza delle imprese. I rigidi
criteri di imputazione della responsabilità stabilita dall’attuale normativa
sembrano quindi lasciare pochi spazi alle imprese che operano in siti
contaminati. Queste, a prescindere da una loro comportamento doloso o colposo,
sono tenute a rispondere della situazione di inquinamento in quanto ex se
titolari dello stabilimento e, quindi, garanti della tutela dell’ambiente in cui
svolgono la loro attività. Il rischio di sopportare un fardello economico così
pesante (i costi di operazioni di M.I.S.E o M.I.S.O., bonifica e ripristino
ambientale sono molto ingenti) potrebbe segnare la scomparsa o comunque il forte
ridimensionamento delle imprese interessate che si troverebbero in casi
particolari addirittura a dover far fronte a un inquinamento delle matrici
ambientali da loro non direttamente causato. Certamente le disposizioni previste
dall’art. 253 comma 3 e 4 del D.Lgs. n° 152/2006 in parte mitigano questo
rischio.
Il comma 3 del succitato articolo, prevede che l’imputazione delle spese al
proprietario sia supportato da un provvedimento motivato, in particolare con
riferimento alla impossibilità da parte della P.A. di potersi rivalere nei
confronti del responsabile dell’inquinamento. Evidentemente però non sembra
costituire ostacolo insormontabile per gli organi del Ministero dell’Ambiente e
Tutela del Territorio trovare una giustificazione tale da garantire la
legittimità del provvedimento.
Il comma 4 stabilisce che la ripetizione delle spese sostenute dalla Stato per
la bonifica del sito, laddove il proprietario sia rimasto inerte, non può
comunque eccedere il valore di mercato del sito determinato a seguito degli
interventi posti in essere. Il comma 4 continua stabilendo inoltre il diritto
del proprietario del sito a rivalersi per l’importo delle spese sostenuto e del
maggiore danno eventualmente subito. Anche le tutele predisposte da questo comma
per le imprese o soggetti privati non responsabili, evidentemente vengono
mortificate se si pensa alla circostanza per cui la stessa P.A. aveva rinunciato
ad esercitare l’azione, data l’impossibilità di individuare il vero responsabile
dell’inquinamento come si può ritenere che un privato disponga dei mezzi tecnici
e scientifici per operare un’indagine così complessa. Infine, anche qualora
questa ricerca dia i risultati sperati, nulla garantisce la solvibilità del
soggetto nei cui confronti il proprietario dovrebbe rivalersi.
Appare quindi evidente che il coinvolgimento di un soggetto economico in un
procedimento di bonifica, diventa per lo stesso un rischio reale e concreto di
un grave danno economico, che si riverberebbe sulle sue scelte industriali e sui
programmi di sviluppo, con le inevitabili conseguenze sul livello occupazionale
dei lavoratori, sull’indotto a questa società collegato e infine sui riflessi
negativi sull’economia del territorio.
Sempre con riferimento alla rada di Augusta, sembra opportuno fare un esempio di
quelle che sono e potrebbero essere le conseguenze economiche di cui prima
abbiamo trattato. Infatti, presso la rada vengono svolte attività economiche di
sicuro interesse nazionale.
Nel porto di Augusta vengono movimentate annualmente 29 milioni di tonnellate di
prodotti petroliferi. Il greggio raffinato nel 2005 ammonta a 25.246.000
tonnellate, corrispondenti al 25,25% del totale italiano e al 69,2% del totale
sociale. I soli prodotti petroliferi esportati, sempre nel 2005, sono stati pari
a 12.700.00 tonnellate ed hanno rappresentato il 43,6% del totale delle
esportazioni italiane ad l’86.4% di quelle siciliane. Le maestranze occupate nel
polo petrolifero, tra dirette ed indotto, ammontano a circa 10.000 unità, le cui
retribuzioni lorde sono stimate intorno a i 250 milioni di euro/anno, somma
ancora più significativa se rapportata alla complessiva economia della Provincia
di Siracusa. Le aziende (tra cui ricordiamo ErgMed, Enichem, Esso) sostengono in
coro che la realizzazione degli interventi di messa in sicurezza (tra i quali
ricordiamo l’entrata in vigore del decreto che introduce forti limitazioni alla
navigazione delle navi a uso commerciale all’interno della Rada) e di successiva
bonifica, potrebbero gravemente compromettere la prosecuzione dell’attività
industriale presso il sito. Ciò potrebbe provocare:
a) nel breve periodo, forti problemi legati al soddisfacimento delle richieste
di greggio raffinato in Italia ma in particolare in Sicilia. Se si considerano
inoltre le ormai palesi e constatate carenze del sistema energetico italiano,
può facilmente essere intuibile quali gravissimi problemi di natura energetica e
produttiva si verificherebbero, non solo per le società che utilizzano queste
tipologie di prodotti ma per la cittadinanza in generale.
b) Le aziende hanno inoltre, in modo poco velato, sostenuto che l’attuazione
delle prescrizioni statuite nei verbali delle conferenze di servizi decisorie le
porterà inevitabilmente a rivedere i piani di sviluppo elaborati per il porto di
Augusta e per il comprensorio. Se una effettiva decisione di ridurre la
dimensione degli stabilimenti o di trasferire l’attività produttiva presso
un’altra località, dovesse essere presa ciò significherebbe la condanna a morte
per quell’economia del siracusano che già attualmente attraversa una fase di
crisi. Infine il licenziamento di addetti e comunque in generale la riduzione
del personale, contribuirebbe a acuire quella problematica della disoccupazione
che rappresenta da tempo immemore una delle sfide delle amministrazioni locali.
7. Il rischio sanitario potenziale e le problematiche
tecnico-scientifiche.
7.1 Rapporto fra M.I.S.E. e sito con inquinamento pregresso.
La querelle che spesso si presenta in siti caratterizzati da inquinamento
pregresso attiene alla legittimità delle prescrizioni che impongono l’adozione
di tali misure all’interno degli stessi siti.
Il problema che si è presentato più volte sotto la vigenza del D.Lgs. n° 22/97
in tema di messa in sicurezza d’emergenza, si fonda sul presupposto per cui tali
tipi d’intervento erano previsti nel caso in cui si riteneva necessario ed
urgente intervenire per rimuovere le fonti inquinanti, contenere la diffusione
degli inquinanti e impedire il contatto con le fonti inquinanti presenti nel
sito.
La giurisprudenza di merito aveva però sostenuto che l’applicazione delle misure
di M.I.S.E. ad un sito che presentava quelle caratteristiche che abbiamo sopra
esposto, necessitava di un ulteriore presupposto, occorreva cioè una adeguata
motivazione in ordine al pericolo di un’estensione o propagazione della
contaminazione – già esistente, appunto – nelle more degli interventi di
bonifica.
Più specificamente il sistema normativo previgente richiedeva quindi che
l’obbligo di attuare la Mise, fosse previsto in riferimento a situazioni di
pericolo concreto ed imminente per la salute pubblica e l’ambiente circostante,
accertate ed accertabili con evidenza tale da rendere indifferibili un’azione
urgente.
Ma come dimostrare la presenza di un rischio imminente e concreto per la salute
pubblica laddove non esistono parametri di legge predefiniti? Com’è riuscita la
Pubblica Amministrazione ad agire in queste circostanze?
In casi come questo dove la lacuna normativa è evidente, questa è stata
sopperita dall’attività di un istituto scientifico, qual è l’“Istituto Centrale
per la Ricerca Scientifica e Tecnologica Applicata al Mare” (I.C.R.A.M.). L’ente
in questione ha natura pubblica e fornisce supporto tecnico all’attività delle
Amministrazioni centrali competenti oltre che agli Enti territoriali, in
particolare relativamente alla risoluzione di problematiche ambientali marine.
L’attività dell’ICRAM si é rilevata estremamente utile poiché l’istituto ha
provveduto a determinare i c.d. “Parametri d’Intervento” cioè quelle
soglie superate le quali la concentrazione di sostanze inquinanti nei sedimenti
provoca uno stato d’inquinamento. Viene cosi colmata quella lacuna già citata
presente nel combinato disposto fra il D.Lgs. n° 22/97 e il D.M. n° 471/99. La
soluzione tecnica adottata per sopperire a questa lacuna legislativa ha
l'evidente vantaggio di fornire un valido strumento operativo in grado di
fornire quei parametri che risultano essenziali nello stabilire se i sedimenti
marini sono o meno inquinati e che consente, quindi, agli enti preposti di
operare con efficacia in tema di tutela del mare. Successivamente in relazione
alla situazione della Rada di Augusta, sempre l’I.C.R.A.M., in seguito di una
specifica indagine condotta all’interno del sito, attraverso analisi specifiche,
ha configurato l’esistenza di un “potenziale rischio sanitario”.
7.2 Le vie d'esposizione e l'esperienza del sito di bonifica di Priolo
Dalle analisi dell’I.C.R.A.M. emergeva un elevato livello d’inquinamento
riscontrato nei sedimenti marini presenti nella rada. Tale situazione era resa
ancora più critica dai processi di movimentazione e di risospensione dei
sedimenti contaminati dovuti alle quotidiane operazioni compiute dalle
imbarcazioni in fase d’ingresso e alle successive manovre effettuate all’interno
del porto. Tali operazioni determinavano, secondo gli esperti, delle torbide che
davano origine a fenomeni di dispersione dell’inquinamento, rendendo
maggiormente biodisponibili le sostanze tossiche presenti nell’area marina. Tali
fenomeni d’inquinamento rendono gli inquinanti più “metabolizzabili” dal biota
cioè dall’insieme della vita vegetale e animale di presente nell’area . In
particolare si era riscontrata una elevata concentrazione di mercurio nei
sedimenti, ciò veniva confermato di un elevato accumulo di tale sostanza a
livello epatico nei pesci che vivono nella rada.
Il consumo di prodotti ittici, secondo l’ICRAM, costituisce nella situazione
sopraesposta la prima via d’esposizione dell’uomo al mercurio. Tale esposizione
varia in funzione della quantità di pesce consumato e delle concentrazioni
presenti nei tessuti delle specie ittiche consumate.
Il mercurio è un potente neurotossico in grado di provocare danni irreversibili
ai tessuti cerebrali di un feto, poiché attraversa facilmente la placenta. Ciò
determina un rischio concreto per le donne in gravidanza che assumono pescato
locale. Si riteneva pertanto necessario al fine di salvaguardare la salute di
specifiche fasce di popolazione, la immediata applicazione di misure atte a
garantire la tutela della salute umana.
8. Le problematiche economiche e il danno ambientale
Meritevole di attenzione è il profilo attinente alle difficoltà economiche che
un'azienda può avere a seguito di episodi di inquinamento delle matrici
ambientali. Infatti, il verificarsi di episodi di inquinamento oltre a far
sorgere obblighi di bonifica, crea dall'altro una responsabilità di natura
civilistica ascrivibile a titolo di danno ambientale.
Con l’introduzione del D.Lgs. n° 152/06, anche la disciplina in tema di
responsabilità civile per danno ambientale viene profondamente modificata.
A tale materia si rivolge la Parte VI del D.Lgs. n° 152/06 (articoli 299-318):
oltre ad attuare la direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio
del 21 aprile 2004 “sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione
e di riparazione del danno ambientale”, il decreto (art. 318, comma 2
lett. a) abroga tout court l’articolo 18 della legge n° 349/86, senza
peraltro riproporne talune importanti previsioni.
Dal nuovo impianto normativo emerge la volontà di accentrare in capo allo Stato
le competenze in materia di risarcimento per danno ambientale, disciplinando con
maggior rigore, e talora limitandolo, l’accesso alla tutela giurisdizionale. Non
è riproposta la previsione (ex art. 18, comma 3, L. n° 349/86) che, accanto allo
Stato, legittimava gli Enti locali territoriali (Regioni, Province e Comuni) a
promuovere l’azione di risarcimento qualora, beninteso, a tali Enti si
riferissero i beni oggetto del fatto lesivo: l’unico soggetto ora legittimato a
proporre l’azione de qua è lo Stato attraverso il Ministero dell’Ambiente
e della Tutela del Territorio. Più specificatamente il comma 2 dell’art. 299
individua come soggetto legittimato a proporre l’azione per il risarcimento del
danno la “Direzione Generale per il Danno Ambientale”. In realtà tale direzione
generale non è stata mai istituzionalizzata, per cui ipso facto, le
funzioni che a quest’ultima dovrebbero spettare, vengono esercitate dalla
“Direzione Generale Qualità della Vita”. Tale direzione occupandosi infatti di
materie come rifiuti e bonifiche, si trova spesso a dover fronteggiare fenomeni
di grave inquinamento ambientale.
Alle Autonomie locali, così come alle associazioni di protezione ambientale
riconosciute dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio, viene
riconosciuta piuttosto una funzione di collaborazione all’esercizio dell’azione
ministeriale (v. art. 299, comma 2°): nello specifico, l’art. 309 legittima le
Regioni, le Province autonome e gli Enti locali – nonché le persone, fisiche e
giuridiche, che sono o potrebbero essere colpite dal danno ambientale, o che
comunque vantino un interesse legittimante la partecipazione al procedimento – a
“presentare denunce e osservazioni, corredate da documenti e informazioni,
concernenti qualsiasi caso di danno ambientale e chiedere l’intervento statale a
tutela dell’ambiente” Si tratta, com’è evidente, di una prerogativa afferente
all’istituto dell’intervento facoltativo ex art. 9 della legge n° 241 del 7
agosto 1990.
Viene allora da chiedersi se, ed in quale misura, simile assetto normativo si
concili con la riforma della Parte II, Titolo V della Costituzione (legge
costituzionale 18 ottobre 2001, n° 3): giova ricordare infatti come, al fine di
giustificare la soluzione escogitata dal legislatore del 1986, la Consulta
avesse a suo tempo argomentato che “la legittimazione ad agire, che è
attribuita allo Stato e agli enti minori, non trova fondamento nel fatto che
essi hanno affrontato spese per riparare il danno o nel fatto che essi abbiano
subito una perdita economica, ma nella loro funzione a tutela della collettività
e della comunità nel proprio ambito territoriale e degli interessi
all’equilibrio economico, biologico e sociologico del territorio che ad essi
fanno capo” (Corte Costituzionale, sentenza n° 641/87).
Tale assetto legislativo sembra collimare perfettamente con il nuovo dettato
costituzionale dell’articolo 117: al contempo, però, non può sottacersi la
circostanza che la stessa giurisprudenza costituzionale riconosce alle Regioni e
alle Autonomie locali prerogative in tema di governo del territorio – e, quindi,
strumenti di esercizio/tutela effettivi di questa funzione – nella misura in cui
ritiene che l’ambiente, anziché configurarsi come “materia” a carattere
prettamente tecnico e circoscritto, è piuttosto un “valore costituzionalmente
protetto” che si colloca in maniera trasversale rispetto alle materie dell’ art.
117, di competenza anche regionale, quali lo sviluppo economico sostenibile del
territorio, l’urbanistica, le infrastrutture e la salute pubblica. È in tal
senso che, verosimilmente, deve leggersi il rinvio ai principi costituzionali di
sussidiarietà e di leale collaborazione nell’esercizio dell’azione ministeriale
sul danno ambientale, di cui al comma 3° dell’art. 299 del decreto legislativo
n° 152/06. È allora prevedibile ed auspicabile un intervento chiarificatore
della stessa Corte Costituzionale, in riferimento anche all’articolo 24
Costituzione.
La tendenza all’accentramento delle competenze statali non sempre si accompagna,
peraltro, ad un’esplicita dichiarazione di obbligatorietà dell’azione
amministrativa: per esempio, in alcune disposizioni l’intervento sostitutivo
dello Stato viene previsto come meramente possibile. Emblematico, sul punto,
appare l’esempio del caso di inerzia nelle azioni di prevenzione, ripristino e
recupero ambientale a cura dell’autore del fatto.
Altra norma che suscita un’opportuna riflessione è contenuta nell’art. 315 del
decreto legislativo, che introduce il termine di decadenza di due anni per
l’emissione dell’ordinanza ministeriale di ripristino ambientale: in sostanza,
decorsi i due anni dalla notizia del fatto lesivo, sarebbe preclusa al Ministero
la possibilità di emanare ordinanze di ripristino. Tale previsione costituisce
una novità nel nostro ordinamento giuridico che, invece, attualmente, impone
l’adozione di simili misure fino a quando l’interesse pubblico lo richieda,
senza vincoli di tempo. Inoltre, non è specificato se lo Stato possa promuovere
un giudizio per il risarcimento del danno ambientale anche a prescindere
dall’emissione dell’ordinanza de quo: se così non fosse, il termine (di
decadenza dei due anni per l’emissione dell’ordinanza di ripristino) finirebbe
con il tradursi anche in un termine processuale di decadenza dell’azione per il
risarcimento del danno ambientale innanzi all’autorità giudiziaria; si
limiterebbe, pertanto, la possibilità di agire in giudizio per il risarcimento
del danno, una facoltà che fino ad oggi è soggetta (come ordinariamente previsto
per le azioni di risarcimento del danno per fatto illecito) al termine
prescrizionale di cinque anni.
La definizione di danno ambientale (art. 300) viene modificata rispetto a quella
contenuta nell’art. 18 della L. n° 349/86: mentre quest’ultimo definiva il danno
ambientale come “compromissione dell’ambiente attraverso un qualsiasi fatto
doloso o colposo”, il testo unico qualifica tale illecito come “qualsiasi
deterioramento significativo e misurabile di una risorsa naturale o dell’utilità
assicurata da quest’ultima”(art. 300, comma 1). In sede di primo commento
allo schema di decreto legislativo, si è asserito che l’introduzione del
concetto di “misurabilità del deterioramento” sembra difficoltosa da applicare
materialmente data l’assenza di idonei strumenti all’uopo utilizzabili.
Il comma secondo del medesimo art. 300 riporta un elenco di ciò che costituisce
“danno ambientale”: sebbene sia sostanzialmente ripresa l’elencazione dell’art.
2 della direttiva 2004/35/CE, la tecnica legislativa espone al rischio di
collegare la nozione di danno ambientale ad un elenco di fattispecie lesive “a
carattere chiuso”, lasciando scoperti eventuali altri fatti lesivi ad oggi non
previsti né prevedibili. Possibile rimedio a tale stato di cose potrebbe essere
la circostanza di considerare detto elenco come non esaustivo, bensì meramente
esemplificativo.
È inoltre difficile capire quale sia l’utilità della c.d. “attuazione del
principio di precauzione” che l’art. 301 introduce tra la definizione di “danno
ambientale” e le ulteriori definizioni rilevanti per l’intelligibilità della
parte sesta del Codice ambientale.
Peraltro, invocando il principio in parola si disciplina una “nuova” procedura –
l’ennesima – per gestire una “nuova” figura di rischio, entrambi non presenti
nelle peraltro già numerose procedure e forme di rischio sin qui analizzate:
In applicazione del principio di precauzione di cui all’articolo 174, paragrafo
2, del Trattato Ce, in caso di pericoli, anche solo potenziali, per la salute
umana e per l’ambiente, deve essere assicurato un alto livello di protezione.
L’applicazione del principio concerne il rischio che comunque deve essere
individuato a seguito di una preliminare valutazione scientifica obiettiva.
L’operatore interessato, quando emerga il rischio suddetto, deve informarne
senza indugio, indicando tutti gli aspetti pertinenti alla situazione, il
Sindaco del Comune, la Regione o la Provincia autonoma nel cui territorio si
prospetta l’evento lesivo, nonché il Prefetto della provincia che, nelle
ventiquattro ore, informa il Ministro.”
È realmente difficile comprendere l’utilità di “nuova” definizione di “pericolo”
di cui non si comprendono neanche gli obiettivi connotati. Probabilmente più
opportuno sarebbe stato un richiamo a quanto disciplinato dall’art. 240 in
materia di “sito potenzialmente contaminato” o quantomeno un coordinamento tra
le due disposizioni.
Andando avanti è difficile intuire la logica di una ennesima procedura in
assoluta mancanza di norma di richiamo per cui l’interprete stenta a comprendere
se essa debba avere natura di integrazione, sostituzione o semplice
sovrapposizione di tutte le norme relative alle bonifiche.
In particolare, sfugge la logica dell’ulteriore passaggio burocratico al
Prefetto della Provincia (esiste già quello del Comune) che nelle ventiquattrore
informa il Ministro dell’Ambiente. L’introduzione di questa ennesima procedura
sembra mal conciliarsi con quell’obiettivo di “Semplificazione delle procedure
amministrative” fissato dalla legge delega.
Ulteriore elemento di criticità discende dal comma 2, dall’articolo 311, a mente
del quale “chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o
comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di
provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia o violazione di norme
tecniche, arrechi danno all’ambiente, alterandolo, deteriorandolo o
distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato al ripristino della precedente
situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale nei
confronti dello Stato”: la norma, ancorando la responsabilità per illecito
ambientale ai requisiti del dolo e della colpa, quali elementi costitutivi della
fattispecie “illecito ambientale”, mal si concilia con il sistema della
responsabilità oggettiva previsto dalla direttiva 2004/35/CE, alla cui
stregua il danno ambientale, o la sua minaccia, vanno imputati senza l’onere
della prova del dolo o colpa dell’operatore (art. 3), tranne l’ipotesi del danno
(o pericolo) alle specie ed agli habitat naturali protetti, e fatta salva la
facoltà degli Stati membri di derogare a tale principio nelle limitate
ipotesi e alle sole condizioni esplicitate nell’art. 8, comma 4.
Non meno problematico è l’aspetto affrontato dall’art. 14 del Codice Ambientale
relativamente alla quantificazione del danno da effettuare all’interno
dell’ordinanza che il Ministero dell’Ambiente dovrà emanare ex art 314
comma 1. L’articolo in questione recita infatti che “la quantificazione del
danno deve comprendere il pregiudizio arrecato alla situazione ambientale con
particolare riferimento al costo necessario per il suo ripristino. Ove non sia
motivatamente possibile l’esatta quantificazione del danno non risarcibile in
forma specifica, o parte di esso, il danno per equivalente patrimoniale si
presume, fino a prova contraria, di ammontare non inferiore al triplo della
somma corrispondente alla sanzione pecuniaria amministrativa, oppure alla
sanzione penale in concreto applicata”.
Ad un attento osservatore non sfuggirà di certo che il punto critico della legge
riguarda ancora una volta il “chi” e “come” valuterà la non risarcibilità in
forma specifica del danno in questione – o parte di esso – nonché la presunzione
di un suo ammontare pari a “tre volte” una sanzione amministrative ed una
sanzione penale in alcun modo determinate e solo eventualmente determinabili al
momento delle loro effettiva applicazione. La determinabilità oggettiva del
danno non si riferisce a parametri oggettivi che avrebbero potuto essere
codificati in appositi allegati.
Non vale a mitigare le predette perplessità, anzi costituisce ulteriore
riscontro ad una delle preoccupazioni già in precedenza espresse, la possibilità
di invocare la “prova contraria” rispetto alla predetta determinazione del
danno. E’ del tutto evidente che sede realistica oltre che propria di tale
opposizione non potrà che essere, ancora una volta, quella giudiziaria.
9. Conclusioni
L'analisi delle criticità legate all'attività di bonifica offre lo spunto ad
opportune riflessioni. Il business delle bonifiche è, e sarà, nei
prossimi anni come confermato da riviste economiche e finanziarie, uno dei
settori più allettanti per gli investimenti delle imprese, testimonianza di ciò
è il crescente aumento dei siti di bonifica e degli ingenti stanziamenti
previsti per il completamento dei lavori ammontanti a 540 milioni di euro.
D'altronde va tenuto presente che il coinvolgimento di un soggetto economico in
un procedimento di bonifica diventa per il soggetto de quo un rischio
reale e concreto di un grave danno economico, che si riverberebbe sulle sue
scelte industriali e sui programmi di sviluppo, con le inevitabili conseguenze
sul livello occupazionale dei lavoratori, sull’indotto a questa società
collegato e infine sui riflessi negativi sull’economia del territorio. Occorre
quindi da parte dei soggetti coinvolti un contegno particolarmente attento, da
un lato, al rispetto dell'ambiente e agli impatti che la l'attività industriale
ha sulle matrici ambientali; dall’altro, occorre contemperare la necessaria
esigenza della tutela del territorio con l’altro diritto garantito
costituzionalmente della libera iniziativa economica.
Le imprese devono, oltre che rispettare le prescrizioni di legge imposte per
l'esercizio della loro attività, tentare di trasformare in opportunità i nuovi
orizzonti che si profilano nel settore della tutela ambientale. Rispettare
l’ambiente è diventato, de facto, uno dei nuovi fattori critici di
successo che orienta le scelte da parte degli investitori e stakeholder.
Da parte della Pubblica Amministrazione, infine, occorre un costante impegno
teso a garantire l'esistenza dell'impresa. Nel far ciò lo strumento della
Conferenza di Servizi si rivela come momento di confronto utile a contemperare
le esigenze della bonifica con quelle di garantire il regolare svolgimento
dell'attività industriale ed economica.
° L’autore, assumendo ogni responsabilità per eventuali errori od omissioni contenute nel presente lavoro, desidera ringraziare il direttore generale dott. Gianfranco Mascazzini e l’ing. Pietro Colonna della D. G. Qualità della Vita del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare.
* vincenzo.abate@yahoo.it
Pubblicato su www.AmbienteDiritto.it
il 3/08/2007